La storia della contessina Giulia, giovane donna
educata dalla madre secondo valori femministi e misogini, che nella notte di
mezza estate, ebbra di musica e di alcool, seduce spregiudicatamente l’ambizioso
servo Giovanni per poi restarne schiacciata, diviene, nella regia di Valter Malosti, la traccia per una messa
in scena della tendenza degli uomini a scivolare verso il basso, l’animalesco,
il terreno, l’inferno.
Messe da parte lotta
tra sessi e tra ruoli sociali, tematiche classiche legate al testo del
drammaturgo ottocentesco, Malosti punta tutto su una versione inedita che fa
dei personaggi tre campioni della civiltà contemporanea. In primo piano,
dunque, la degradazione di tre figure umane. Nessuna tesi da perseguire, nessun
moralismo da propinare. Eliminata pure la rassicurante distinzione tra i
caratteri mutevoli di Giovanni e Giulia e la solidità concreta di Cristina. Una
Cristina cui la regia assegna un ruolo nuovissimo, sganciandola dalla sola
funzione di cuoca e riproponendola in veste di donna e di amante, come
testimonia la riduzione a elemento scenografico marginale di quei fornelli che di
quella originaria funzione sociale sono simbolo inequivocabile. Emblematica, a
tal proposito, la scena in cui la domestica, durante l’amplesso degli altri due,
cerca piacere da sola dimostrando di avere istinti carnali allo stesso modo
della contessina.
Lo spettacolo non
lascia margini di speranza. Nessuno dei tre protagonisti si salva dal vortice
gravitazionale che risucchia impietoso. A Giulia, in particolare, non si
concede nulla. Lei deve morire. E, infatti, allontanandosi definitivamente dal
testo originale, Malosti chiude la messa in scena con il suicidio a vista della
donna.
La morte, d’altronde, vaga
sulla scena fin da subito, racchiusa in simboli più o meno evidenti come quello
del rasoio, arma del suicidio di Giulia, che passerà tra le mani di tutti e tre
i personaggi.
Perfetta, ai fini
dell’intenzione registica, la scenografia di Margherita Palli. Uno spazio ritagliato nella scena racchiuso da
pareti disgregate e poggiato su un piano inclinato che si oppone a un
equilibrio statico facendo scivolare ogni cosa verso il basso, verso botole
simbolo di quegli inferi che attraggono inesorabilmente tutti e tre i
personaggi. Aperture nel pavimento che all’occorrenza diventano giaciglio per
un amplesso, dispensa da cui saltano fuori bottiglie di birra vuote da cui
si finge di bere, o ripostiglio.
Equilibrio incerto,
invece, quello che si è creato tra gli attori. Acerba l’interpretazione di Valeria Solarino - nel ruolo di Giulia -
che, abituata all’occhio minuzioso della telecamera, si rivela inesperta nell’attirare
l’attenzione dello spettatore teatrale e di orientarla nella giusta direzione.
Abile nel rendere i più piccoli dettagli psicologici attraverso le espressioni
del volto, mostra un busto irrigidito e talvolta impacciato. Un’enfasi
eccessiva, infine, toglie valore alle parole intrappolando l’attrice in una
recitazione monocorde e poco coinvolgente. Più convincente Malosti, che nel
disegnare un Giovanni freddo, asettico e sprezzante, può limitarsi volutamente
a una declamazione rapidissima e cantilenante priva di sbalzi e di coloriture.
Superba, infine, Federica Fracassi nel ruolo della cuoca: rende con
straordinaria efficacia lo stereotipo della serva ipocritamente bigotta,
piegando un esibito dialetto lombardo alle esigenze di bassezza culturale e di
ignoranza plebea che si addicono a una cuoca di fine ottocento. Ne risulta un
personaggio ambiguo, pudico e scollacciato insieme, eppure credibilissimo.
Rossella Menna
ottimo articolo!!!complimenti!
RispondiEliminamelissa maria teresa
Non bisogna avere timore di nominare anche l'autore del sublime fascio di luce rossa....data la giusta e sottile interpretazione di Rossella.
RispondiElimina