giovedì 9 febbraio 2012

A colloquio con Maurizio Lupinelli

Maurizio Lupinelli, attore regista e drammaturgo proveniente dall’esperienza del Teatro delle Albe, è impegnato dagli anni ‘90 in un intenso confronto con varie tipologie di disagio. Nel 1991 fonda con Marco Martinelli la Non-scuola, iniziativa promossa nelle scuole superiori di Ravenna. A partire dal 1997 amplia i confini della sua attività di regista-pedagogo attivando percorsi di lavoro all’interno di comunità di disabili. Nel 2007, a Livorno debutta Marat-Sade, una produzione che vede in scena oltre quaranta persone tra attori disabili e non, studenti e allievi della Non-scuola di Ravenna. Sempre nel 2007 fonda, con Elisa Pol, la compagnia Nerval Teatro le cui produzioni si avvalgono della collaborazione di figure disabili. Tra gli spettacoli prodotti, Fuoco Nero, Magnificat e Amleto. Dal 2009 lavora al progetto Schwab, con l’obiettivo di partire da uno degli ultimi “poeti maledetti” per mettere in scena il disfacimento e la degradazione dell’ uomo contemporaneo.
Noi lo abbiamo incontrato in occasione di una replica di Appassionatamente (spettacolo inserito proprio nel progetto Schwab), che si è tenuta ai laboratori Dms di Bologna il 4 febbraio 2012.

Lei lavora ormai da lungo tempo con i disabili. Più volte ha ripetuto che quello che intende fare non è teatro-terapia. Che cos’è dunque? E perché ha scelto di intraprendere questo percorso?

Quello che avete visto qui è frutto di un percorso cominciato più di quindici anni fa. Ho iniziato a lavorare con questi attori per una mia personale volontà: mi ha sempre affascinato il mondo dei disabili perché credo che l’alterità appartenga a pieno titolo all’arte. Negli anni, poi, lavorando con loro ho capito che quello che facciamo insieme non è altro che un’opera. Io ho uno stimolo come artista e provo ad allargare a loro tale stimolo. Lavoriamo insieme per creare qualcosa. Tutto qui.

Che tipo di lavoro svolge con i ragazzi delle comunità? Da pedagogo, in quale tipologia di training li guida?

Come lavoro io stesso come attore. Ho instaurato nel tempo un rapporto molto diretto con i ragazzi. Le due attrici disabili che sono in scena in Appassionatamente, Federica e Linda, lavorano con me da dieci anni. E sono arrivate a fare uno spettacolo come questo in cui si sono slegate dal contesto originario. Non interagiscono più in un gruppo di persone che lavorano a uno spettacolo pensato appositamente per loro. Qui sono a un livello diverso. La Nerval Teatro ha deciso di investire su una produzione in cui ci sono due figure disabili, Linda e Federica, inscritte come vere e proprie attrici, allo stesso livello dell’altra coppia di attori professionisti. In scena diventano veramente "carne". E ne risente anche il mio lavoro di artista...

In che modo, al di là dell’arricchimento umano e personale, il lavoro con i disabili influisce sul suo essere artista? Penso ai tanti registi che oggi si servono dei laboratori e del lavoro di pedagogia come vera e propria risorsa creativa, come fucina di immagini per la propria drammaturgia per esempio.

Nel momento in cui sono sulla scena, loro semplicemente sono. Sono lì che giocano a fare quella cosa lì, sono figure che hanno qualcosa che l’attore deve esercitarsi per trovare. Mi spiego meglio. Anni fa feci uno spettacolo al festival di Pontedera e c’erano degli attori del Workcenter di Grotowski, c’era Thomas Richards che quando vide lo spettacolo disse: questo è il sunto dell’attore. Vedere la presenza in quella maniera, senza essere usata, ma come presenza attorica lo colpì. Io do molto spazio a loro nei miei spettacoli, senza però usarli per quello che sono. E così loro diventano drammaturgia.

A proposito di drammaturgia, come si è confrontato con i testi di Schwab? E come ha lavorato alla scrittura?

Ho lavorato su una serie di stereotipi per mettere in scena una moltitudine di solitudini. A questi si sono affiancati poi elementi posticci come Biancaneve, il lupo, la valigia che simboleggia il viaggio verso gli inferi. E poi i neri. Ho usato il bui come piccoli frammenti di drammaturgia. Il testo vero e proprio è nato invece dalle situazioni prese singolarmente. Ogni personaggio si è costruito il proprio microcosmo. Il testo, la drammaturgia sono nati dall’azione, dai corpi.

Quindi è stato un lavoro d’improvvisazione?

Sì, ma comunque legato a una certa situazione di riferimento. Per esempio per l’immagine della bimba che cerca la madre, del sogno, abbiamo lavorato sull’ improvvisazione di Federica, su una sua drammaturgia del movimento, sul suo modo di dire quelle cose. Insomma, dalla situazione siamo arrivati alla parola. Così abbiamo creato una serie di microstorie che a un certo punto rientrano tutte e si polverizzano.

Cosa intende quando nel programma di sala scrive “la violenza non è nelle parole ma all’origine di quelle parole”?

I testi di Schwab sono grandiosi. Ci si può trovare dentro il microcosmo della società, della famiglia, ferite personali e riferimenti autobiografici in cui inveisce con veemenza ma anche con una ironia feroce. Io non volevo mettere in scena un suo testo ma il mondo che c’è dietro a quei testi. Volevo risalire alla fonte. E allora mi sono chiesto: ma dov’è che nasce il male? Nelle piccole cose; in una coppia che litiga per un asciugamano per esempio. Ormai parlare di violenza diretta è didascalico. Io volevo risalire all’origine, alle cose semplici che scatenano le reazioni più violente. Per me qui c’è molto più Schwab di una messa in scena in cui sono usate le parole di Schwab.

Appassionatamente evoca un’immagine di sfacelo e decomposizione. Non intende lasciare alcuno spiraglio alla guarigione?

Non lo so. Per me questo è lo stato attuale dell’ uomo. Ma lo spettacolo non è chiuso. Ecco perché ho inserito il monologo finale del figlio bastardo del re Lear che inveisce contro  gli uomini abituati a dare la colpa di ogni male alle cose esterne. Per guarire bisogna lavorare sul male, bisogna "spurgarlo".

Durante un’ intervista su Magnificat lei ha detto “Solo quando un artista rischia è libero”. Se si guarda intorno, oggi, quanti artisti coraggiosi vede?

Pochi. Io penso che il postmoderno abbia rovinato un bel po’ di cose. Io penso veramente che non c’è rischio oggi. E in quello che dico non vuole esserci presunzione.

Rossella Menna

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