Noi lo abbiamo incontrato in occasione di una replica di Appassionatamente (spettacolo inserito proprio nel progetto Schwab), che si è tenuta ai laboratori Dms di Bologna il 4 febbraio 2012.
Lei
lavora ormai da lungo tempo con i disabili. Più volte ha ripetuto che quello
che intende fare non è teatro-terapia. Che cos’è dunque? E perché ha scelto di
intraprendere questo percorso?
Quello che avete visto qui è frutto di un percorso cominciato
più di quindici anni fa. Ho iniziato a lavorare con questi attori per una mia
personale volontà: mi ha sempre affascinato il mondo dei disabili perché credo
che l’alterità appartenga a pieno titolo all’arte. Negli anni, poi, lavorando
con loro ho capito che quello che facciamo insieme non è altro che un’opera. Io
ho uno stimolo come artista e provo ad allargare a loro tale stimolo. Lavoriamo
insieme per creare qualcosa. Tutto qui.
Che
tipo di lavoro svolge con i ragazzi delle comunità? Da pedagogo, in quale
tipologia di training li guida?
Come lavoro io stesso come attore. Ho instaurato nel
tempo un rapporto molto diretto con i ragazzi. Le due attrici disabili che sono
in scena in Appassionatamente,
Federica e Linda, lavorano con me da dieci anni. E sono arrivate a fare uno
spettacolo come questo in cui si sono slegate dal contesto originario. Non
interagiscono più in un gruppo di persone che lavorano a uno spettacolo pensato
appositamente per loro. Qui sono a un livello diverso. La Nerval Teatro ha
deciso di investire su una produzione in cui ci sono due figure disabili, Linda
e Federica, inscritte come vere e proprie attrici, allo stesso livello dell’altra
coppia di attori professionisti. In scena diventano veramente
"carne". E ne risente anche il mio lavoro di artista...
In
che modo, al di là dell’arricchimento umano e personale, il lavoro con i
disabili influisce sul suo essere artista? Penso ai tanti registi che oggi si
servono dei laboratori e del lavoro di pedagogia come vera e propria risorsa
creativa, come fucina di immagini per la propria drammaturgia per esempio.
Nel momento in cui sono sulla scena, loro
semplicemente sono. Sono lì che giocano a fare quella cosa lì, sono figure che
hanno qualcosa che l’attore deve esercitarsi per trovare. Mi spiego meglio.
Anni fa feci uno spettacolo al festival di Pontedera e c’erano degli attori del
Workcenter di Grotowski, c’era Thomas Richards che quando vide lo spettacolo
disse: questo è il sunto dell’attore. Vedere la presenza in quella maniera,
senza essere usata, ma come presenza attorica lo colpì. Io do molto spazio a
loro nei miei spettacoli, senza però usarli per quello che sono. E così loro
diventano drammaturgia.
A
proposito di drammaturgia, come si è confrontato con i testi di Schwab? E come
ha lavorato alla scrittura?
Ho lavorato su una serie di stereotipi per mettere
in scena una moltitudine di solitudini. A questi si sono affiancati poi
elementi posticci come Biancaneve, il lupo, la valigia che simboleggia il
viaggio verso gli inferi. E poi i neri. Ho usato il bui come piccoli frammenti
di drammaturgia. Il testo vero e proprio è nato invece dalle situazioni prese
singolarmente. Ogni personaggio si è costruito il proprio microcosmo. Il testo,
la drammaturgia sono nati dall’azione, dai corpi.
Quindi
è stato un lavoro d’improvvisazione?
Sì, ma comunque legato a una certa situazione di
riferimento. Per esempio per l’immagine della bimba che cerca la madre, del
sogno, abbiamo lavorato sull’ improvvisazione di Federica, su una sua
drammaturgia del movimento, sul suo modo di dire quelle cose. Insomma, dalla
situazione siamo arrivati alla parola. Così abbiamo creato una serie di
microstorie che a un certo punto rientrano tutte e si polverizzano.
Cosa
intende quando nel programma di sala scrive “la violenza non è nelle parole ma
all’origine di quelle parole”?
I testi di Schwab sono grandiosi. Ci si può trovare
dentro il microcosmo della società, della famiglia, ferite personali e
riferimenti autobiografici in cui inveisce con veemenza ma anche con una ironia
feroce. Io non volevo mettere in scena un suo testo ma il mondo che c’è dietro
a quei testi. Volevo risalire alla fonte. E allora mi sono chiesto: ma dov’è
che nasce il male? Nelle piccole cose; in una coppia che litiga per un
asciugamano per esempio. Ormai parlare di violenza diretta è didascalico. Io
volevo risalire all’origine, alle cose semplici che scatenano le reazioni più
violente. Per me qui c’è molto più Schwab di una messa in scena in cui sono
usate le parole di Schwab.
Appassionatamente evoca un’immagine di sfacelo e
decomposizione. Non intende lasciare alcuno spiraglio alla guarigione?
Non lo so. Per me questo è lo stato attuale dell’
uomo. Ma lo spettacolo non è chiuso.
Ecco perché ho inserito il monologo finale del figlio bastardo del re Lear che
inveisce contro gli uomini abituati a
dare la colpa di ogni male alle cose esterne. Per guarire bisogna lavorare sul
male, bisogna "spurgarlo".
Durante
un’ intervista su Magnificat lei ha
detto “Solo quando un artista rischia è libero”. Se si guarda intorno, oggi,
quanti artisti coraggiosi vede?
Pochi. Io penso che il postmoderno abbia rovinato un
bel po’ di cose. Io penso veramente che non c’è rischio oggi. E in quello che
dico non vuole esserci presunzione.
Rossella Menna
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