martedì 26 giugno 2012

Mercuzio 2.0: il progetto della Compagnia della Fortezza spopola sul web e mette in rete le idee

Mercuzio non vuole morire, un progetto per un teatro di massa, uno spettacolo collettivo che scavalcherà i cancelli del Maschio, carcere volterrano in cui ormai tradizionalmente si tengono le performance della Compagnia della Fortezza diretta da Armando Punzo, per impadronirsi degli ambienti urbani. In scena schiere di non-attori, gente comune sottratta al rassicurante spazio dello spettatore e chiamata alle armi pacifiche dell’arte per combattere sul fronte della rivolta dei sogni.  
Pietre volterrane sporcate dalle mani insanguinate di tanti Montecchi e Capuleti, di adulti sconsiderati che innescano meccanismi di morte micidiali, rose rosse di giovanissime Giuliette innamorate, libri e strumenti musicali di chi crede nella meraviglia dell’arte, valigie pronte per partire verso la città ideale.
Photo: Alessandro Fantechi

Lo spettacolo, che vedrà alzarsi l’immaginario sipario sull’incantevole cittadina toscana il 26 luglio a Montecatini V.C., il 27 luglio a Pomarance e il 28 Luglio a Volterra in chiusura del Festival VolterraTeatro 2012, è tuttora in fase di creazione. Una serie di prove collettive si sono già svolte nelle piazze di Volterra, Pomarance, Montecatini V.C., Cosenza e Bologna. 

Ma l’azione di Mercuzio non si esaurisce nel riempire le piazze, perché il giovane sognatore shakespeariano sta letteralmente spopolando sul web. Il dato è sorprendente se si considera il livello medio di popolarità degli eventi teatrali all’interno di circuiti veloci come quelli dei social networks.

Il Mercuzio, che nella riscrittura di Punzo, si ribella al padre autore Shakespeare e sfida il proprio destino di morte e di grigiore rivendicando il diritto alla vita e al sogno, ai colori e alle sfumature, ha evidentemente attecchito con forza nell’immaginario collettivo del web diventando subito metafora irresistibile della possibilità di ripudiare una vita che sembra già scritta, un copione già stampato da rappresentare senza inventarsi nuove scene.

Il progetto occupa tutti gli spazi della rete, da Facebook e Twitter, allo spazio Flick’r che consente di condividere e commentare le foto, al cliccatissimo blog compagniadellafortezzavolterra.wordpress.com su cui è stato lanciato il sondaggio per scoprire a quali scene dello spettacolo intende partecipare il popolo del web e il Mercuziario, raccoglitore di parole da regalare a Mercuzio.
Photo: Alessandro Fantechi

Aggirando il pericolo del click mordi e fuggi Mercuzio si insinua nelle fessure del qualunquismo, stimola le intelligenze, tocca le sensibilità. Nel mare magnum dei post e dei tweet fast food, funzionali, il sognatore di Shakespeare si erge su una zattera di parole piene e di azioni reali.

Nelle pagine dedicati al progetto, infatti, i followers, esattamente come accade per gli spettatori, non si limitano a osservare ma possono collaborare alla scrittura dello spettacolo.

Non l’ennesimo forum dove si lasciano commenti, dunque, ma una rete creativa in cui si gioca al rilancio, in cui ogni giorno vengono postate foto, immagini, parole e pensieri che aggiungono nuove intense pennellate al ritratto di Mercuzio.
Photo: Alessandro Fantechi

Non solo uno spazio promozionale, non solo una bacheca su cui tenersi informati sugli eventi legati al progetto ma un’agorà parallela in cui si prolunga lo spazio reale dell’incontro, una sorgente di idee in cui la scrittura scenica trova nuove risorse creative per una scrittura collettiva.

In pochi mesi il progetto della Compagnia della Fortezza è diventato un vero fenomeno mediatico, un compagno inseparabile degli internauti, una valvola di sfogo di pensieri e parole.

Il viaggio di Mercuzio verso la città ideale è già partito sul web, dunque, e corre ad altissima velocità verso la tappa finale del festival.

Rossella Menna

mercoledì 13 giugno 2012

Festival resistenze In-Attuali

L’estate da sempre, si sa, è tempo di festival. A Pomarance - comune toscano in provincia di Pisa - quest’anno sta per prendere avvio una nuova avventura: Festival Resistenze In-Attuali prima edizione. Cominicia in un momento strano e complicato della cultura italiana. In un periodo dove i tagli hanno dato un brutto colpo ad alcune esperienze teatrali, l’associazione I Diversissimi - Pertubazioni Creative, in piena coerenza con la loro identità, rilanciano con una proposta “inattuale”.
Il Festival si inserisce a pieno titolo nello spirito di una più vasta programmazione annuale dell'associazione, basata sulla ricerca e sull'azione intorno ai due concetti di Lentezza e di Margine.

Il punto di partenza di esso, nonché uno dei pilastri della sua definizione, è la tradizione, ancora forte nel territorio in cui l' Associazione prevalentemente opera (Val di Cecina), della Resistenza Partigiana.



L'esigenza di una rilettura contemporanea di questo importante seme culturale tramandato dalla forza delle passate generazioni, ha però imposto al gruppo di muoversi in una riflessione più ampia intorno alla capacità dei territori come quello in cui opera, cosiddetti "lenti", in quanto tagliati fuori dai circuiti preferenziali dell'economia mondo, e dei suoi abitanti, di praticare una forma attuale di resistenza e di resilienza per continuare a sopravvivere, immaginando modelli di sviluppo alternativi in cui collocarsi. Tale capacità è, quindi, divenuta il secondo pilastro strutturale nella definizione del Festival.
Muovendosi dalla Resistenza alle Resistenze, il Festival si propone quindi di esplorare il mondo delle ATTUALI pratiche di resistenza al modello economico e culturale dominante, mettendo a dialogo e analizzandone alcune tra le più significative nel panorama italiano e internazionale.

L'evento ruota, quindi, intorno a tutte quelle "resistenze attive" che stanno in qualche modo sul MARGINE...in campo culturale, economico e delle pratiche sociali.
L'obiettivo finale del festival è riuscire a ricucire, anche solo per brani, il senso di comunità e di attaccamento alla cosa pubbica degli attori locali facendoli, attraverso la messa in rete di esperienze anche tra loro molto distanti, sentire meno soli nel loro cammino di "resistenz".
Il FESTIVAL DELLE RESISTENZE IN-ATTUALI si svolgerà nei paesi di Pomarance e Larderello (PI) i prossimi 29-30 Giugno e 1 Luglio 2012.

La giornata del 29 Giugno partirà da una ricognizione del paesaggio toscano, orientandosi verso una lettura delle nuove possibilità di consumo e di modelli culturali che esso può offrire.
La giornata del 30 Giugno sarà dedicata all'indagine e al confronto dialettico tra varie realtà artistiche e culturali nazionali e internazionali poste sui margini e quindi resistenti.
Le nuove pratiche sociali indirizzate a una riprogettazione collettiva dell'abitare i territori di margine, saranno invece le protagoniste della terza ed ultima giornata del 1 Luglio.

domenica 3 giugno 2012

Quelli che dal teatro si può ricominciare: Claudio Meldolesi e Ferdinando Taviani

La recensione al libro Teatro e spettacolo nel primo ottocento
di Josella Calantropo


“Quel che vorremmo mostrare è la dinamica, il moto di vita che connette il nobile e il volgare, il grande e il meschino, l’alto e il basso”.

Ecco una dichiarazione di onestà. La presa di posizione di due autori che avrebbero potuto scrivere l’ennesimo manuale sul Teatro e spettacolo nel primo ottocento e invece hanno  preferito mettere, dentro ai fatti obiettivi, parte della loro vita. Due intellettuali che non si sono elevati a ruolo di giudici, due storici che hanno guardato tra le pieghe del vissuto. Due uomini di teatro che hanno detto un po’ di se stessi raccontando di quella prima metà del XIX secolo per così tanti versi simile ad alcuni anni della nostra storia recente. Claudio Meldolesi e Ferdinando Taviani, con questo volume, hanno vinto il Premio Pirandello - Palermo 1993 per la saggistica.

Si può provare a collocare questo libro in un ambito: potrebbe essere un manuale didattico o un saggio o un punto di vista o un racconto. Si può tentare di dare un’etichetta perché è sempre più semplice ragionare per strutture già ben costruite, ma a ogni riga si viene smentiti. Ipotesi su ipotesi che crollano al seguitare della lettura. A questo punto l’unica cosa da fare è fidarsi e affidarsi alle parole. Parole ben scelte, sapientemente accostate e scrupolosamente ricercate.

Ci sono le parole-ritornello che ritornano come leitmotive. “Vuoto” per esempio: quello lasciato dalla morale e dalla religione dopo il 14 luglio 1789. Quel vuoto che hanno dovuto sopportare i giovani che avevano creduto negli ideali della rivoluzione. Oppure quel “vuoto legislativo” che allora come adesso coinvolge la vita teatrale. Il vuoto raccontato nelle Memorie di Talma: “chi ha posto le fondamenta del Louvre è grande (…) ma più grande ancora è chi ha scavato questa piazza, chi ha fatto questo vuoto”. Il teatro stesso viene definito da Taviani uno spazio « vuoto » cioè si “rivela come un luogo delle trasformazioni, o addirittura come una sorta di laboratorio spirituale (…) perché da esso può emergere sempre qualcosa di imprevisto, può affiorare un messaggio o una possibilità”.

Ci sono poi le parole-mondo che racchiudono interi concetti. Come “attori-creatori” ovvero la capacità degli attori e delle attrici di creare partiture gestuali tra gli interstizi dei testi messi in scena. Oppure “servitori-specializzati” che porta con sé il disprezzo dei padroni nei confronti del mestiere teatrale e l’umiliazione subita dagli artisti considerati niente di più che altri tipi di servi.
O ancora “miseria-comica” che ben racchiude il periodo storico e l’atteggiamento dei teatranti: il loro coraggio di viaggiare e la loro tenacia di sopravvivere adattandosi a “sorprendere”anche “con (…) povere attrazioni (…)cambiando continuamente piazza”.
La parola-mondo “architettonico-sociale” per indentificare la gerarchia delle classi sociali con “l’aveare dei palchi (…) il luogo della proprietà esibita”.
Il “teatro-psicolabile” per raccontarci dell’equilibrio precario e “infelice” nel primo ottocento tra il teatro ancora legato ai dettami classicisti, tra “i teatranti inquieti che agitavano passioni e tra la professione scenica che dava seguito alla sua routine”.

Ci sono infine le parole-simbolo come metafore poetiche. Una su tutte è “isola”. Filo conduttore dall’inizio alla fine del libro. Un viaggio da un’isola mentale, “il teatro come isola nella rinascente vecchiaia, negli anni della restaurazione”, a un’isola vera, la Sicilia, terra di “differenze”. “L’una e l’altra mostrano in diverso modo la particolare natura di un teatro che inventa la propria dignità e il proprio valore a partire da una condizione di miseria”. Ed è a questo che viene legato il tema della fuga, da e verso l’isola, la fuga “nel teatro possibile e dal teatro vigente”. Il teatro come rifugio, come luogo di resistenza clandestina. Il teatro come l’unica possibilità dei giovani di sfuggire alle costrizioni dei padri per andare incontro alla propria libertà.

Ma oltre alle date, ai documenti citati, alle teorie ben fondate, c’è dell’altro. C’è un livello che bisogna scorgere tra le righe, si respira un’aria che dice più di quanto è scritto. Si percepisce la forza di due giovani degli anni sessanta che come quelli del primo ottocento si sono sentiti traditi, abbandonati dagli ideali del cambiamento e che come loro si sono rifugiati nel teatro per dare ancora senso alla propria vita. Diverte l’idea di pensare che come Wilhelm Meister si sono ritrovati nel teatro per inseguire una ragazza, ma forse non è importante. Quel che conta è che come i giovani uomini di teatro del primo ottocento, anche Taviani e Meldolesi si sono messi in viaggio per raccontare un tratto di vita teatrale. Hanno accostato allo sguardo storico di ampio respiro i dettagli della vita reale. Hanno messo in questo libro il loro cuore spezzato dalla vita e risanato nel teatro. Forse per questo si fa fatica a definirlo. È stato venduto come un manuale - è vero -  ma per essere letto, probabilmente,come un romanzo di formazione di due ragazzi di altri tempi.


Tre pezzi brevi: Caino, The end, Eretici e Corsari

di Lucrezia Pasini
CAINO -TEATRO VALDOCA


Mercoledì 28 e Giovedì 29 marzo all’Arena del Sole hanno avuto luogo le ultime due repliche italiane di Caino. Tra gli ultimi nati in casa Valdoca, e con oltre due anni di gestazione, Caino vorrebbe raffigurare sottoforma di affresco onirico la dualità di un progenitore mitologico che non  sentendosi amato, ma essendo egli stesso costituito da amore, si mostrifica.
Lo spettacolo risulta molto lungo, con una sproporzione temporale tra brevi momenti di intessissima emozione e consistenti parentesi di noia. Una scena luminosa piena di istallazioni suggestive è sovrappopolata da molteplici figure che agiscono in contemporanea in modo diverso dislocate punti differenti, constringendo così l’occhio dello spettatore a una fruizione parziale, a effettuare una sorta di scelta di “taglio” da seguire.
Il Coro nel testo di Mariangela Gualtieri è una figura molto interessante, che parla e interviene in modo frequente, nella rappresentazione si trasforma in presenza quasi  muta e seminuda.
Una visibile analogia iconografica (e non solo) emerge in maniera molto forte in questo spettacolo: in scena ci sono due Voldemort, Danio Manfredini nei panni di Caino e Leonardo Delogu in quelli di Lucifero. Il paragone è evidente e sorge spontaneo, fattezze, movenze, costumi e caratterizzazione del personaggio sono simili tanto da sembrare citazione e non pura casualità. Lotta interiore tra bene e male, consapevole  scelta del male come unica soluzione al bene negato, la seduzione di male luminoso e irradiante  sono caratteristiche assolutamente comuni sia in questo spettacolo che nella saga della celebre J.K. Rowling.
Un testo meraviglioso in tutte le accezioni del termine, che rimane molto più interessante della sua rappresentazione.

THE END - BABILONIA TEATRI


The End, la fine con la lettera maiuscola, la fine per eccellenza: la Morte. Di questo tratta l’ultimo spettacolo di Babilonia Teatri.
Scena vuota, un Cristo in croce smontabile smontato e un frigorifero. L’interprete entra sola in scena, e sola pronuncia considerazioni sulla morte, unico comune  e certo denominatore di ogni vita. I vari testi che compongono lo spettacolo si collocano perfettamente all’interno della  poetica del gruppo  dello Specchio Riflesso, che vede come unica ragion d’essere del teatro l’essere specchio dei tempi che si vivono, il mostrare le contraddizioni del mondo palesando le proprie domande senza pretesa di risposta pseudo-oggettiva in un mix di toccante sincerità e cinismo. Un testo crudo, a tratti ironico, portatore di infinite riflessioni espresse in forma estremamente limpida e onesta. Idee e posizioni condivisibili o meno, ma enunciate con una chiarezza estrema che non consente possibili cattive interpretazioni.
Una sorta di ode al Boia Personale, come garanzia di possibilità di scelta tra vita vissuta e vita subita,  declamata a braccia aperte e mani stigmatizzate con alle spalle un enorme crocifisso suscita  una sorta di confronto fra analogie e differenze con il  Personal Jesus dei Depeche Mode.
Un frivolo hully gully ballato con estrema fluidità sulle note di Ciao amore ciao, canzone indissolubilmente legata alla morte “consapevole”, diventa un’immagine intrisa di suggestioni e significati, che seguito da un breve silenzio arresta per un attimo il flusso dello spettacolo e permette di prendere fiato.
In un sobrio minimalismo scenico lo spettacolo si chiude con un presepe macabro costituito da Cristo crocifisso tra due teste di bue e di asino mozzate, presepe che mantiene le figure della natività ma le traforma in icone mortifere.

ERETICI E CORSARI -NERI MACORÈ CALUDIO GIOÈ


Una scena portata ai minimi termini, un fondale grezzo stropicciato, quattro musicisti e due o tre luoghi deputati illuminabili all’occorrenza. Eretici e corsari, spettacolo prodotto dal Teatro dell’Archivolto in collaborazione con la Fondazione Gaber, scorre in 75 minuti la scena secondo un principio di ruvida fluidità. Ruvido è l’aggettivo che si addice di più a questo spettacolo. Ruvido è lo sfondo, di un tessuto tipo juta che viene evidenziato nelle sue larghe tessiture da luci radenti creando un arazzo tridimensionale di colore e ombre.
Ruvido è il testo, in parte letto espressivamente da Claudio Gioè e in parte cantato da Neri Marcorè. La drammaturgia si compone di stralci dell’ultima intervista, raccolta da Furio Colombo il 1° Novembre del 1975,  a un Pierpaolo Pasolini ignaro della sua imminente fine fisica, e da brani di teatro canzone di Giorgio Gaber e Sandro Luporini reinterpretati da Neri Marcorè. Dalla commistione del sapere di questi due grandi artisti e pensatori ne fuoriesce un sottotesto che sottolinea l’inutilità dello sviluppo senza progresso, l’importanza del concetto di appartenenza e di partecipazione.
Il concreto rischio del prendere in mano materiali di personalità così particolari e così largamente conosciute senza farne una becera imitazione viene apprezzabilmente superato da Marcorè e da Gioè, che riescono sì a evocarne il ricordo in manierà toccante ma consapevole della distanza.
Ruvido è ciò che arriva al pubblico: il sentire parole  e pensieri assolutamente riconducibili al contemporaneo ma con la consapevolezza che  furono già detti nel passato, “come se fosse un grido in cerca di una bocca”.


Un’astuta civettuola nella cerulea corte del Bey dall’Algeri

di Enrico RosolinoTrionfo del Rossini buffo al teatro Comunale di Bologna; e in arrivo un dvd dell’Opera in collaborazione con la Rai.

Con la rossiniana L’Italiana in Algeri l’ente lirico comunale bolognese vince un grandioso terno al lotto. Anche all’ultima replica, il 19 maggio 2012, platea, palchi e loggione sono gremiti. Dopo un addolorato, quanto debito ricordo di Melissa, la fanciulla vittima dello spaventoso attentato esplosivo avvenuto dinnanzi al liceo professionale Morvillo - Falcone di Brindisi a cui ha fatto seguito un lungo e commosso minuto di silenzio, la gentil opera di Rossini ha preso il la.


Teoricamente la bellezza di questo dramma giocoso in due atti su libretto di Angelo Anelli, rappresentato la prima volta a Venezia nel maggio del 1813, si dipana sinuosa già dalla scintillante e notissima ouverture in un cosmo splendente di arie, cavatine, duetti e terzetti singolarissimi nei temi ma soprattutto negli ironici doppi sensi. L’orchestrazione, affabilmente orientaleggiante nei fiati e nelle percussioni, ricompone le fila del fare occidentale con un gioco tipicamente settecentesco d’archi, incisivi anche quando lievemente patetici. Il cembalo si diletta nell’accompagnare i recitativi secchi, questi ultimi, ponti argutissimi di congiunzione tra uno sberleffo e un momento semiserio. Codesto lavoro di Rossini, e lo si comprende già da queste poche annotazioni tecniche, val di per sé un ovazione. Se però questi intelligenti schemi ed orientamenti musicali vengono accompagnati, come in questo caso, da ottimi interpreti di solida formazione nel repertorio rossiniano, “strampalati” riuscitissimi movimenti di scena (figli di un attenta e consapevole regia) e mirabili costumi, scenografie e luci, ebbene, si potrà dire che si è assistito ad una straordinaria opera nell’opera.


Il pubblico ha goduto nel lasciarsi deliziare dal tenore d’origine cinese Yijie Shi nel ruolo dell’italiano Lindoro- prigioniero e schiavo del Bey d’Algeri -. Questi ha dato sfoggio di una vocalità controllata e limpida - quasi fosse quella di un adolescente dalla voce bianca - e di una perfetta dizione protrattasi e negli acuti e nei sapienti sottovoce. Una voce maschile la sua vellutata e giovanile perfettamente aderente al ruolo del giovane innamorato che deve ammaliare cantando la nota, attesissima cavatina“Languir per una bella”.


La mezzo soprano Marianna Pizzolato, dal canto suo, è stata un’ Isabella di impeccabile perizia tecnica: con il suo protendere il collo verso l’alto onde dar aria alle note e alle corde vocali ella è riuscita a infondere intorno chiarissime e meticolose infiorettature oltreché puntuali pronunce di ogni singolo importantissimo verso cantato e non. La si è ammirata quale maliziosa, corpulenta e avvenentissima gatta morta, quasi una Marina la Rosa del settecento, miagolare fascinosamente al Bey ormai inebetito, e si goduto nel vederla sgambettare leggiadra e leziosa- tra uno sguardo languido e un sospiretto - con tanto di smeraldineo ombrellino parasole come una aggraziata Biancaneve e seguita a ruota da un lungo stuolo di veneranti eunuchi (gli uomini del coro in questa sede assolutamente degni di mille lodi) come fossero sette e più nani del bosco dagli atteggiamenti coreutici. Insomma la Pizzolato regala un’interpretazione calzante e ammiccante insieme e condisce il tutto, al termine dell’ultimo atto, con un pizzico di sano spirito emancipatorio.


 La soprano Anna Maria Sarra nel ruolo di Elvira, moglie legittima del Bey, affronta la scena saggiamente mescolando ad un estremizzato e raffinatissimo canto vittimista una buona dose di irritante petulanza sottolineata da una squillante intonatura. Ad Haly –capo dei corsari del Bay- nell’interpretazione del basso baritono Clemente Antonio Daliotti è riservata una psicologia dalla mascolinità cameratesca e ligia agli ordini del suo capo; la voce è forte e la dizione è definita tuttavia la sua figura appare, alle volte, vagamente burattinesca.


Dulcis in fundo risplendono abbaglianti, Mustafà Bey di Algeria nell’interpretazione del basso Michele Pertusi e il signor Taddeo - spasimante di Isabella che si finge suo zio – in quella del baritono Paolo Bordogna. Pertusi con la sua imponenza fisica e vocale riempie la scena intera, ma ciò non lo connota come un individuo minaccioso, per tutta l’opera infatti l’augusto signore vien fatto passar da tutti i suoi comprimari come un bambinone capriccioso e credulone. Il signor Taddeo tra un accaduto ed un altro invece, pur cercando d’esser sempre sicuro e coraggioso, rivela una verve ilare e comicissima allorquando giungendo in un vago stato di confusione mentale si perde in tra mille lazzi. Il suo gesticolare allusivo alla paura d’esser castrato o impalato lo rende agli occhi del pubblico tenero ed amabile. Ma è nel finale del secondo atto che quest’ultimi due impagabili cantanti, seduti l’uno accanto all’altro su due seggioloni da bambini, danno il meglio della loro finissima arte: indelebili sono i loro scambi di battute con intonazioni foniche emule degli Stanlio e Olio del cinema tra il canto di un verso e l’atro-entrambi son gabbati da Isabella e Lindoro che quatti metto in atto la loro fuga da Algeri.


Francesco Esposito (che ha alle spalle una solida formazione registica al fianco di pezzi da novanta come Ronconi, Lavia e Fo) ha curato, oltre all’eccellente regia sempre in bilico tra divertissement e ossequioso rispetto delle fonti storiche in merito a proprietà occidentali dell’opera e turcherie di maniera, anche i costumi. Le fogge simmetriche e lievi di abiti e copri capi, fulgidi di colori pastello e diamante, richiamavano alla mente le atmosfere orientaleggianti di alcuni personaggi dell’Aladdin di Disney: per fare un puntuale esempio le fasce al seno e i pantaloni alla turca, di color turchese con applicazioni in oro, indossati dalle due valenti danzatrici del ventre - che riempivano con la loro bella e importante presenza la scena in molti passaggi di entrambi gli atti - assomigliavano molto agli abiti della bella principessa Jasmine, protagonista femminile della pellicola.


Non meno degni di plauso i sofisticati giochi di luce curati da Andrea Oliva. Sulle luci primarie del proscenio, a cui è dato il chiaro compito di connotare psicologicamente la scena - splendida l’idea del blu cobalto a cui si amalgamano mille bolle di sapone soffiate dagli eunuchi per la scena della preparazione di Isabella all’interno del bagno turco, mentre ella canta Per colui che adoro - si assommano gli iridescenti colori di un cielo baluginante che impreziosisce il fondo scena.


Infine va a Nicola Rubertelli l’onore d’aver creato delle indovinate scenografie: in esse i sensuali quadri del neoclassico pittore francese Jean Auguste Dominique Ingres  - la bagnante di Valpinçon (che appare come spiata, all’interno di un riquadro a forma di toppa), il bagno turco e la grande Odalisca (vero leitmotiv iconografico dell’intero allestimento e riprodotta sul lungo telo nero che a funto da sipario) - si compenetravano fieramente e senza alcuna discontinuità con l’imponente arena a gradoni che - sempre grazie al lavorio costante delle luci - appariva ora celeste ora arancione richiamando alla mente una piscina, un bagno turco, un cortile interno un harem un arenile.


In questo luogo stabile ma tanto cangiante venivano issate le doppie vele del galeone italiano arenato e anche alcune cordate di abiti maschili all’occidentale stesi e irrigiditi dalla salinità del mare da cui sembravano esser stati raccolti dopo il naufragio. Tutti i personaggi si trovavano dalla loro, poi, tutta un ingegnosa e settecentesca ornamentazione composta da trasparenti tendaggi, e separé traforati (molto tipici degli idealizzati ambienti arabi) da cui potevano, all’occasione, spiare senz’essere veduti.

Il pubblico impazzisce di soddisfazione sovente, e lo da a sentire; accade con gli scroscianti applausi alla stretta finale del primo atto “Va sossopra il mio cervello” in essa gli eccentrici suoni onomatopeici (ta ta, cra cra, bum bum, din din) ripetuti, nel cantato, a elevatissima velocità formano un magma sonoro di sorprendente difficoltà tecnica, gli interpreti però gestiscono un tale frastuono rossiniano delle voci - in cui si dee perdere la percezione dei singoli versi -accentuando e dunque facendo restare vivi e chiaramente percepibili gli allegri suoni onomatopeici.


Questa meticolosità ci piace! Il tutto, poi, è guarnito da una piccola battaglia pugnata a suon di candida biancheria intima da uomo e donna che i personaggi si lanciano infantilmente tra loro. O ancora l’ovazione meritatissima, al quartetto di chiusura della scena quinta del primo atto “Sento un fremito un fuoco un dispetto” in cui alle buffe movenze dispettose e irriverenti dei tre stranieri -Isabella, Taddeo e Lindoro - si contrappone la voce grossa e il piglio comandino di un Mustafà che però appare, in definitiva, più rassomigliante ad un innocuo burbero papà che ad un Bey vecchio stile. Ha proprio ragione Rossini, quando fa dir in conclusione d’opera a tutti i suoi personaggi (Isabella consapevole e compresa) “La bella Italiana venuta in Ageri, insegna agli amanti gelosi ed alteri che a tutti la Donna, se vuole, la fa.” mai verso risulta più appropriato.


Questa Italiana ha colto nel segno e ha rapito il cuore di tutti coloro che riempivano il golfo mistico. Oggi come ieri si conferma quale amabile e stuzzicante evergreen operistico dunque assolutamente degno del dvd che la Rai (dopo le riprese effettuate nei giorni scorsi) sembra intenzionata a confezionare.