domenica 28 aprile 2013

L'eredità di Laura Cleri


Ad accogliere il pubblico ci sono i banchi, la cattedra, le cartine geografiche alle pareti e le sedie di legno disposte in circolo. Quando lo spettacolo inizia si ha la sensazione che il rapporto con gli spettatori sia già stato avviato da tempo. La maestra, Laura Cleri, entra in classe e avverte: “Oggi lavoreremo anche con la musica”. Tipica frase di chi ha già fatto “ieri” altri lavori con le stesse persone. E invece siamo lì per la prima volta. Poi chiede il permesso: “Cancello la lavagna?” sulla quale campeggia il disegno scientifico e particolareggiato del fiore con tutte le sue parti denominate. Ma mentre la maestra lo sta cancellando e già troppo tardi per guardarlo bene e si ha come l’impressione di non capire: “Ma cosa mi sono perso? Cosa avete fatto ieri? Ma perché ero assente? Cosa stavo facendo di più importante?”. Non si ha il tempo di riflettere che Laura è già partita a raccontare una nuova storia. Ha l’aria di essere interessante. Forse è meglio fare attenzione, almeno stavolta.


Ci parla di Laura, un’altra, maestra, anche lei. È un rimando di specchi e di identità che si incrociano. Laura Cleri, attrice, dà voce a Laura Seghettini, partigiana prima e maestra poi, raccontando della sua storia, della Liberazione, di come si giunse a quella conquista e a quale prezzo. Una storia che si ispira al libro Al vento del Nord. Una donna nella lotta di Liberazione di Laura Seghettini e che diventa spettacolo dal titolo Un’eredità senza testamento scritto, diretto e interpretato da Laura Cleri.
Narra di una ragazza che all'età di vent'anni, nel 1944, decide di salire sui monti per andare a combattere con i partigiani entrando a far parte della 12ª Brigata Garibaldi che agisce sull'Appennino Tosco-Emiliano. È una combattente Laura, è un comandante donna che lotta come un uomo: con le armi in mezzo ai boschi corre, si nasconde, attacca il nemico, soffre la fame, la stanchezza e a volte la solitudine. Ma dietro la sua armatura c'è la dolcezza di una donna innamorata che non si arrende e resiste all'uccisione del suo uomo, Dante Castellucci, nome di battaglia Facio, che per circostanze oggi ancora da chiarire, dopo un processo sommario istituito da un tribunale di guerra, viene condannato a morte e fucilato. Laura non si arrende e resiste ai tedeschi e ancora non si arrende e resiste alla guerra di potere intestina degli stessi compagni partigiani. È una storia di resistenza quella di Laura e l'attrice Cleri gli presta il corpo e l'anima creando intensi momenti di commozione.



La drammaturgia è costruita con sapienza teatrale, riesce ad alternare in un giusto equilibrio ritmi serrati a momenti in cui il tempo si sospende. Anche lo spazio, sia quello teatrale che quello evocato dei luoghi della Resistenza, assume la sua forza drammaturgica. Diventa all'occorrenza una classe, un cerchio attorno al fuoco, la stanza di una chiromante per una seduta spiritica, un ossario sotterraneo per potersi nascondere dai tedeschi, un tribunale improvvisato per ingiuste accuse mosse tra gli stessi partigiani, un salotto dove poter gustare un buon caffè. Ma allo stesso modo si viaggia tra Italia, Francia, Africa, per scendere poi fino all'Appennino Tosco-Emiliano, tra i paesini e le città.
Il rimando dei ruoli al pubblico è quindi d’obbligo. Si comincia con l’essere alunni, poi compagni di viaggio, poi testimoni della battaglia interna partigiana e ancora ospiti, amici accolti in famiglia per fare quattro chiacchiere.



La presenza di Laura Cleri in scena assume una forte connotazione: è una guerriera con la libertà disegnata dentro agli occhi e con il cuore spalancato all'infinito. Padroneggia pubblico, oggetti scenici, spazio e testo con grande disinvoltura al punto che si può permettere di raccogliere gli imprevisti e farli diventare punti di forza della spettacolo.
Quasi al termine del racconto per smorzare le emozioni Laura Cleri in scena prepara il caffè per tutti i partecipanti. Il rumore delle tazzine e dei piattini, che vengono tirati fuori dai banchi e preparati con cura, accompagna la cadenza dello spettacolo e sul profumo che si diffonde in sala si chiude il racconto tra il sorseggiare del pubblico e una virtuale carezza della protagonista.


È bello credere che l'incontro tra l'attrice e la partigiana sia avvenuto proprio davanti a una tazza di caffè.
È indubbiamente il modo migliore per ricordare la Liberazione. Quella di tutti.

Visto al Teatro Due di Parma, domenica 21 aprile 2013
Josella Calantropo


domenica 14 aprile 2013

Nuova agorà al Florida: Le donne al parlamento di Aristofane

Una cortina di canne di bambù e di fumo attraggono lo sguardo dello spettatore verso il centro della scena, rappresentazione dell’antica agorà greca. È una funzione rafforzata a tratti da un tavolo portato avanti e indietro, usato come podio da Prassagora (Marilena Macchia): essenzialmente sono questi i pochi ma efficaci strumenti registici per attualizzare un testo greco vecchio di duemila anni, ma mai così adatto come adesso, vista anche la precaria situazione politica italiana. Non a caso molto è affidato alla recitazione attoriale che, nonostante la poca esperienza, riesce a restituire con ruvida vividezza i personaggi interpretati. Nella recitazione l’appello al pubblico è frequente sia nei momenti più politici che in quelli più grottescamente comici, a ricordare appunto l’agorà greca, e il richiamo funziona, attrae naturalmente gli spettatori. Inoltre, a stemperare una possibile nudità pericolosamente fredda dell’agorà, i costumi e i trucchi nella loro variopinta bellezza sono stati alquanto funzionali.


A questo quadro generalmente positivo si può tuttavia osservare anche con ragione che forse sono state troppo sottolineate le allusioni sessuali, tanto che il comico ha rischiato di apparire esclusivo, a scapito dell’argomento politico del testo. Per quanto riguarda l’interpretazione, si potrebbe in un eccesso di pignoleria sottolineare le defaillance, soprattutto iniziali. In quanto attori per lo più non professionisti la stanchezza è naturalmente visibile all’inizio dello spettacolo, visto lo sforzo fatto nello stesso giorno di una matinée. La macchina teatrale fatica a partire, e si prova un po’ di rammarico alla fine dello spettacolo, quando si accumulano in un climax portentoso le invenzioni più genialmente comiche. Come a chiedersi, “ma come, è già finito? Ora che ci stavo prendendo gusto...”. Tuttavia proprio questi momenti orchestrati in maniera sapiente, come il gioco del bastone cavalcato dal giovane richiesto da due vecchie en travesti, oppure l’effetto ripetuto della pistola, perle in uno spettacolo comunque compatto e ben costruito, riscattano ampiamente alcuni piccoli e giustificati momenti di stanchezza. In sintesi, lo spettacolo funziona, la compagnia e il regista sono cresciuti molto dal precedente Ubu Re, e quindi, giusto a proposito, non resta che augurar loro per il futuro un sentito “Merdra!”

L’associazione Orsa Minore al Teatro Cantier Florida, Firenze 13 aprile 2013

Fabio Raffo

mercoledì 10 aprile 2013

La pesatura dei Punti, alcuni punti non tornano: forse il caso Alinovi

Manca l'azione. Corpi che cambiano posizione, gambe che corrono, braccia che esultano e polmoni che alla fine emettono urla di vittoria o sfottò da stadio riscaldano il geometrico campo da tennis che  fa da palcoscenico allo spettacolo Non più di due ore. Ma nulla di tutto ciò si trasforma in azione teatrale piena e viva, capace di scuotere lo spettatore e di coinvolgerlo laddove richiesto (non a caso non ci sono urla dalla platea ad accompagnare le braccia alzate di Carlotta Pircher e i suoi tentativi di aizzare l'attenzione del pubblico verso la scena). Questo terzo episodio conclude You (you're) not alone any... way, triennale progetto di teatralizzazione svolto dalla compagnia La Pesatura dei Punti intorno a un noto caso che scosse il DAMS bolognese negli anni ottanta, e si presenta in prima nazionale al Laboratorio delle Arti di Bologna davanti a un pubblico curioso, interrogativo, oserei dire scontento: gli occhi scrutanti cercano di capire, di cogliere quale filo drammaturgico collega un caso di cronaca nera come l'omicidio di Francesca Alinovi alla pura asfissia di gesti ripetuti ma questa forma di attenzione cede il passo all'osservazione passiva, dato che in questo spettacolo non si può parlare di azioni vissute: solo gesti ripetuti.


 Interessante l'idea di riproporre la portata di quell'evento luttuoso in una versione trasgressiva e pop, traducendo il suo impatto emotivo e mediatico sulla società in un evento sportivo commentato da continui stralci di sentenza letti a voce piatta e monotona; motivo di riflessione anche l'eterno riscaldamento che conduce ai limiti dell'agire senza valicarli mai nel pieno del gioco, nel pieno dell'azione (sportiva ma anche teatrale, appunto) ma l’idea resta sulla carta, una generica buona intenzione: il lancio non riesce, manca la leva della forza d'impatto sul pubblico e lo spettacolo, alla fine, cade. Non mancano le chiamate in scena, ma non siamo più nell'era dei giudizi scarni e delle matematiche formule “applauso finale più richiamo in scena uguale è piaciuto”. Almeno, non ci permettiamo di banalizzare il racconto di uno spettacolo all'interno di questi termini. È permesso invece in questo caso il lusso di non applaudire. E non per presunzione ostentata di conoscenza, ma perché il bisogno di confessarsi davanti allo spettacolo deve porsi negli stessi termini puri con cui un lavoro teatrale si confessa o si vorrebbe confessare allo sguardo del pubblico. Puramente, questo spettacolo nega alcuni fondamenti della pratica scenica, portando lo sguardo dello spettatore a fissare seccato le palle da tennis rotolanti sullo scotch bianco del campo. Probabilmente, questo spettacolo non ha altro esito se non quello di portare alla staticità emotiva lo spettatore e azzerare totalmente il ritmo dell'azione. È certamente sfuggente la portata estetica di tutto questo.  Personalmente, invece di applaudire in modo laconico ho preferito osservare, immobile, la felicità che riempie il volto di queste due giovani attrici al termine del loro spettacolo. È quella felicità che riscatta in parte il malcontento, che spinge lo sguardo oltre il giudizio tempestivo e lapidario portandolo al futuro, in attesa di una nuova occasione per incontrare questa compagnia, la sua poetica e il suo lavoro che, per lasciarsi cogliere e capire, ha avuto ben più di due ore. Ma più di due ore non sono bastate.

Visto il 6 Aprile ai Laboratori delle Arti, Bologna.
Elvira Scorza