martedì 7 febbraio 2012

“Digerseltz”: Elvira Frosini si fa corpo e sangue del teatro

Mangio, divoro, ingurgito ergo sum. Come dentro un incubo dove gli uomini si trasformano in maiali, simile all’inizio di un film d’animanzione giapponese, con la stessa veemenza e impeto animalesco, Elvira Frosini ci porta dentro una bocca, mostruosa cavità dove vengono consumate e dilaniate cose e parole. Contrappasso di un’abbuffata, Digerseltz fa a fettine l’idea del cibo e, infilata nella mente-tritatutto dell’artista, ne restituisce immagini e suggestioni mitiche e mitologiche per raccontare una società contemporanea dipinta in scena utilizzando la tavolozza pop di prodotti metropolitani.

Un mostro biondo sulla scena grugnisce nel buio. Mastica incessantemente. Sbava schifosamente. E non sa bene se vuole mangiare o se vuole essere mangiato. È il prologo dello spettacolo che pare provenire dall’inferno dantesco, in presa diretta dal girone dei golosi, condannati ai morsi eterni di un cane a tre teste con serpenti velenosi al posto dei peli. Ma con la luce il mostro scompare e cede il posto a una ragazza bionda rinsecchita, più bambola-barbie che umana. E da qui inizia una tarantella di trasformazioni, di prove d’artista e di parole che cambiano attraverso le scene.
Dalla parola “cibo” vengono fuori associazioni di idee, immagini e suggestioni: il cibo è visto come consumismo, come rito, come “ultima cena”, come agnello sacrificale, come capro espiatorio, come cibo per la mente, come mangiare senza misura, come bulimia, come troppo ma anche come troppo poco e così arrivano i suoi contrari: digiuno, anoressia e vomito.    

Sul palco pochi oggetti: un’isalatiera di plastica verde acido piena di popcorn che diventerà all’occorrenza la mangiatoia del bambinello del presepe; un piccolissimo frigo color acciaio che sarà oggetto indispensabile per ogni donna come avere una borsetta sotto braccio, un accessorio insostituibile, da curare, da sistemare, da abbinare al vestito e alle scarpe; un piccolo bambolotto biondo che diventerà sia figlio da far mangiare e sia quel più famoso “Figlio fatto carne” da mangiare; una tovaglia che diventerà mensa e altare, ma anche un enorme bavaglino legato al collo dell’attrice; e come “figuranti” vengono convocati tre sagomine bianche - Luca, Marco e Matteo - con cui si può fare finta di parlare, far finta di giocare, far finta di essere amici o famiglia che diventeranno poi i tre re magi; e per la scena finale verranno chiamati a raccolta tutti i personaggi di un presepe bidimensionale attaccati alla base come i pedoni di un grande gioco dell’oca.

In uno spettacolo dove tutto cambia, dove la drammaturgia è scritta a decoupage, utilizzando una scrittura che ritaglia immagini e poi le cuce insieme, anche l’attrice cambia continuamente aspetto. Prima è mostro, poi diventa Marilyn Monroe che canta Happy Birthday, poi è una bambina viziata che non vuole mangiare che non “ci pensa ai bambini dell’Africa che muoiono di fame”, poi è la madre cattiva che minaccia il figlio dell’arrivo del lupo, che diventa una madre-strega, una sorta di sacerdotessa che ricorda una regina della notte mozartiana con l’aiuto del maxi bavaglino che nel frattempo è diventato tunica. Ma soprattutto l’attrice in scena toglie i panni del personaggio e diventa sé stessa. Forse è il momento centrale dello spettacolo: è un “a parte”, una sorta di confessionale dove l’attrice rivela al suo pubblico le proprie paure, le proprie difficoltà, è il momento nel quale si spoglia e si dà in pasto, si fa corpo da mangiare, si mette sull’altare sacrificale per celebrare quel rito pagano che è il teatro. Diventa punto di incontro tra il pubblico che è in sala al buio e le luci accecanti della ribalta. È quella terra di mezzo, il “bordo del piatto” come è scritto nel testo, dove si riunisce l’illusione e senza il quale non potrebbe esistere la magia della scena. Elvira Frosini  - ex danzatrice -  ristabilisce il rituale del teatro come luogo di incontro e di condivisione. E durante “l’ultima cena” dello spettacolo crea una barricata con i personaggini del presepe, lei stessa assume i panni di Maria che mostra il bambinello accanto a Giuseppe. Una scena finale nella quale potersi in qualche modo specchiare, dove si percepisce la distanza tra l’attrice e i suoi personaggi, dove si prende coscienza dell’ironia dello spettacolo e dove si intuisce che nessuno è immune da queste visioni.

Digerseltz passa in rassegna modi di dire e idee su un tema comune perché tutti abbiamo una bocca. Parlando il linguaggio del consumo ci fa commiserare il consumismo del quale tutti siamo vittime. Lo zio Mac, santo frigo e santa tele “riempitori dell'anima mia”, facendoci sorridere ci mostrano le nostre miserie, senza mai dare l’impressione di avere verità spicciole in tasca.

Josella Calantropo

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