Un mostro biondo sulla scena grugnisce nel buio.
Mastica incessantemente. Sbava schifosamente. E non sa bene se vuole mangiare o
se vuole essere mangiato. È il prologo dello spettacolo che pare provenire
dall’inferno dantesco, in presa diretta dal girone dei golosi, condannati ai
morsi eterni di un cane a tre teste con serpenti velenosi al posto dei peli. Ma
con la luce il mostro scompare e cede il posto a una ragazza bionda
rinsecchita, più bambola-barbie che umana. E da qui inizia una tarantella di
trasformazioni, di prove d’artista e di parole che cambiano attraverso le scene.
Dalla parola “cibo” vengono fuori associazioni di
idee, immagini e suggestioni: il cibo è visto come consumismo, come rito, come
“ultima cena”, come agnello sacrificale, come capro espiatorio, come cibo per
la mente, come mangiare senza misura, come bulimia, come troppo ma anche come
troppo poco e così arrivano i suoi contrari: digiuno, anoressia e vomito. Sul palco pochi oggetti: un’isalatiera di plastica verde acido piena di popcorn che diventerà all’occorrenza la mangiatoia del bambinello del presepe; un piccolissimo frigo color acciaio che sarà oggetto indispensabile per ogni donna come avere una borsetta sotto braccio, un accessorio insostituibile, da curare, da sistemare, da abbinare al vestito e alle scarpe; un piccolo bambolotto biondo che diventerà sia figlio da far mangiare e sia quel più famoso “Figlio fatto carne” da mangiare; una tovaglia che diventerà mensa e altare, ma anche un enorme bavaglino legato al collo dell’attrice; e come “figuranti” vengono convocati tre sagomine bianche - Luca, Marco e Matteo - con cui si può fare finta di parlare, far finta di giocare, far finta di essere amici o famiglia che diventeranno poi i tre re magi; e per la scena finale verranno chiamati a raccolta tutti i personaggi di un presepe bidimensionale attaccati alla base come i pedoni di un grande gioco dell’oca.
In uno spettacolo dove tutto cambia, dove la
drammaturgia è scritta a decoupage, utilizzando una scrittura che ritaglia
immagini e poi le cuce insieme, anche l’attrice cambia continuamente aspetto.
Prima è mostro, poi diventa Marilyn Monroe che canta Happy Birthday, poi è una
bambina viziata che non vuole mangiare che non “ci pensa ai bambini dell’Africa
che muoiono di fame”, poi è la madre cattiva che minaccia il figlio dell’arrivo
del lupo, che diventa una madre-strega, una sorta di sacerdotessa che ricorda
una regina della notte mozartiana con l’aiuto del maxi bavaglino che nel
frattempo è diventato tunica. Ma soprattutto l’attrice in scena toglie i panni
del personaggio e diventa sé stessa. Forse è il momento centrale dello
spettacolo: è un “a parte”, una sorta di confessionale dove l’attrice rivela al
suo pubblico le proprie paure, le proprie difficoltà, è il momento nel quale si
spoglia e si dà in pasto, si fa corpo da mangiare, si mette sull’altare sacrificale
per celebrare quel rito pagano che è il teatro. Diventa punto di incontro tra
il pubblico che è in sala al buio e le luci accecanti della ribalta. È quella
terra di mezzo, il “bordo del piatto” come è scritto nel testo, dove si
riunisce l’illusione e senza il quale non potrebbe esistere la magia della
scena. Elvira Frosini - ex danzatrice - ristabilisce il rituale del teatro come luogo
di incontro e di condivisione. E durante “l’ultima cena” dello spettacolo crea
una barricata con i personaggini del presepe, lei stessa assume i panni di
Maria che mostra il bambinello accanto a Giuseppe. Una scena finale nella quale
potersi in qualche modo specchiare, dove si percepisce la distanza tra
l’attrice e i suoi personaggi, dove si prende coscienza dell’ironia dello
spettacolo e dove si intuisce che nessuno è immune da queste visioni.
Digerseltz
passa in rassegna modi di dire e idee su un tema comune perché tutti abbiamo
una bocca. Parlando il linguaggio del consumo ci fa commiserare il consumismo
del quale tutti siamo vittime. Lo zio Mac, santo frigo e santa tele “riempitori
dell'anima mia”, facendoci sorridere ci mostrano le nostre miserie, senza mai
dare l’impressione di avere verità spicciole in tasca.
Josella
Calantropo
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