giovedì 26 maggio 2011

La Storia della colonna infame diventa teatro: Silvio Castiglioni e Emanuela Villagrossi danno voce a Manzoni

C’è un uomo sulla scena. Un borghese impolverato che costruisce una colonna di bicchieri di vetro. Che alza solaio dopo solaio, piano dopo piano una fragile torre di cristallo. Assistere alla messa in opera di questa precaria architettura provoca stati di ansia, come quando si vede un acrobata che volteggia nel cielo di un tendone da circo: il fiato si sospende per seguire l’andamento lento del procedere inesorabile. Per raccontare questo lavoro teatrale bisogna recuperare quella sensazione.
C’è un uomo sulla scena, Silvio Castiglioni, ma c’è anche una donna, borghese e impolverata, Emanuela Villagrossi, e insieme narrano una strana storia, anzi cercano di spolverare, di riportare attuale la Storia della colonna infame che Alessandro Manzoni aveva voluto alla fine de I Promessi Sposi ma che spesso viene taciuta e cassata. Visto al CRT Salone di Milano, questa storia parla di ingiustizie, infamie e di innocenti condannati.

In breve
È il 1630 e Milano cerca dei colpevoli a cui attribuire la diffusione della peste che ha messo in ginocchio la città. Si è a caccia di untori: che siano colti in flagrante o solo accusati di un fatto che non hanno commesso, poco importa. E infatti una “donnicciola”, Caterina Rosa, giura di aver visto un tale camminare rasente una casa strofinando la mano destra contro il muro mentre lasciava cadere un liquido giallo. Viene così arrestato e torturato Guglielmo Piazza con l’accusa di aver sparso unguento pestifero per le strade cittadine. Ma Milano non si accontenta, crede che non abbia potuto agire da solo. E il Piazza è costretto a fare il nome di un complice inesistente: lo sfortunato si chiama Giangiacomo Mora ovvero il suo barbiere. Viene arrestato e interrogato e, dichiaratosi estraneo ai fatti, viene torturato. Fino a quando il Piazza non provvede a trovare una terza persona indicata come ideatore del crimine: Don Giovanni Gaetano Padilla, nobile spagnolo che sarà in seguito assolto per via del suo rango. Una sentenza basata su falsità, menzogne e senza una benché minima prova, condanna a morte sia il Piazza che il Mora. Dopo un atroce martirio i loro corpi vennero bruciati e le ceneri gettate nel fiume. La casa-bottega del Mora venne distrutta e al suo posto eretta una colonna, detta infame, a ricordare alla cittadinanza che giustizia era stata fatta.

Dal testo alla messa in scena
Abbiamo imparato a recitare una scrittura - ci dice Castiglioni alla fine dello spettacolo – non sono dialoghi o battute. Il lavoro di drammaturgia è stato asciugare il testo, non è stata aggiunta una parola a Manzoni.
E allora per fare questo è necessario anche un consulente letterario che aiuti a tagliare, a sistemare, a modellare il racconto. E l’esperto, Luigi Weber, arriva da Rimini: ha curato un’edizione de La Colonna infame uscita nel 2009 per Ed. ETS- Pisa, e non vede l’ora di mettersi a lavoro. Certo ma per fare uno spettacolo teatrale non bastano attori e letterati, occorre il regista e lo scenografo. È così che Giovanni Guerrieri si siede al tavolo che a questo punto è completo. Cominiciamo a fare a cazzotti con il testo di Manzoni – sottolinea Castiglioni - Ognuno faceva notare le sue ragioni - ci dice Weber. E Guerrieri deve trovare azioni sceniche: il testo di per sé è statico. Si parte un po’ dalle immagini volute dallo stesso autore nel 1840, vengono fuori suggestioni; il professor Sisto Dalla Palma, direttore artistico del Teatro CRT di recente e improvvisamente scomparso, è entusiasta dell’idea. Mette a disposizione per la scenografia la sua cantina contenente pezzi d’epoca. Un lavoro fatto a più mani, a più teste ma anche a più cuori.

Il risultato
Una fioca luce proveniente dal basso posta lateralmente illumina la scena piena di roba antica. Divani, valige, lampade, librerie, suppellettili di gusto vintage creano un ambiente claustrofobico e impolverato. Un ventilatore, forse dimenticato acceso, gira le pagine di un libro ingiallito. I due borghesi, figure scelte dalla regia, raccontano la storia con pacata lentezza. A volte dimenticano parti del testo, a volte raddoppiano la voce come in un canto creando una preghiera in litania. Fin quando Castiglioni si alza dal divano, si pone al centro della scena e comincia a costruire la colonna di cristallo mentre pronuncia la condanna piena di infamie e di menzogne. Quando la torre è ancora all’altezza della base non ci si fa caso, giunto al primo piano speri che smetta, al secondo ti tremano i polsi, vorresti fermarlo e gridargli “Basta, stai costruendo una cosa che è destinata a cadere”. Ma mentre la torre sale e l’equilibrio è sempre più precario, a quel punto speri che non cada più, speri che resista, perché basta veramente un minimo errore, un movimento leggermente maldestro, perché tutto vada giù. Esattamente come la costruzione di un cumulo di bugie: è ingiusto dirle, è pericoloso montarle, ma una volta che si è eretto e su di esso qualcuno, anche in buona fede, ha fondato la propria vita, allora speri che non si sappia mai la verità perché sarebbe forse molto peggio. Al costo di sacrificare innocenti è meglio che tutto rimanga in piedi. Ed è così che si giunge alla fine con l’apparizione in fondo di due pecore che in un’ambientazione campestre ci ricordano che l’unica cosa che cerchiamo per lavare le false coscienze è una vittima sacrificale, un capro espiatorio. Accanto a loro, i borghesi si accoccolano riprendendo le parole di Lucia dell’ultima parte de I Promessi Sposi. Finalmente la storia è del tutto raccontata. Ora si può scrivere la parola “fine”.

Per riuscire a vedere questo spettacolo sono dovuta partire da Bologna e andare fino a Milano, perché La Storia della Colonna infame non ha trovato posto nei teatri bolognesi. Peccato, perché sarebbe stata una continuazione perfetta allo spettacolo I Promessi Sposi alla prova di Giovanni Testori realizzato dalla compagnia Lombardo-Tiezzi ospitato quest’anno al teatro stabile della città felsinea. Chissà, magari nella prossima stagione…
Josella Calantropo

martedì 17 maggio 2011

Quattro moschettieri guidati da un D’Artagnan d’eccezione: i “Maestri” di Roberto Latini

Armati di coraggio per le scelte, di amore per il proprio lavoro e di libertà per le idee si sono esposti al pubblico del Teatro San Martino di Bologna. Hanno raccontato il loro teatro e la loro vita, i loro inizi e i loro progetti futuri; hanno dato prova di essere dei grandi registi e attori ma soprattutto dei maestri con i quali è ancora possibile confrontarsi, con i quali è ancora possibile parlare in un pomeriggio qualunque di sogni e dei diversi possibili modi per realizzarli. Quattro uomini che si portano dietro esperienza e competenza, che credono ancora sia possibile trovare l’isola che non c’è. Quattro paladini della scena teatrale contemporanea che hanno fatto conoscere il made in Italy in giro per il mondo con risultati d’eccellenza. Quattro giornate di dialogo e di incontro con i protagonisti più premiati del panorama nazionale: Marco Martinelli, Giorgio Barberio Corsetti, Armando Punzo e Mario Martone. Il ciclo di lezioni dal titolo Maestri è stato coordinato da Roberto Latini direttore artistico del Teatro San Martino di Bologna, nonché impavido D’Artagnan, che ha creduto in prima persona nel progetto e che ha seguito come presenza muta lo svolgersi dei lavori. L’iniziativa è alla sua seconda edizione e visto il successo di pubblico attendiamo speranzosi, il prossimo anno, la terza.
Per raccontare il progetto ho immaginato delle interviste, come se i protagonisti avessero parlato direttamente con me e avessero risposto alle mie più dirette curiosità.    

Marco Martinelli: il mestiere dell’asino

Fondatore a Ravenna del Teatro delle Albe nel 1983 con Ermanna Montanari, compagna di lavoro e di vita, Martinelli chiamato in questa occasione come maestro si presenta a noi da asino con il suo concetto di “asinità” sul quale da anni fonda il lavoro della compagnia.
Cos’è per te il teatro?
Non posso dire teatro senza dire anche vita, filosofia, politica e natura. È un tutto indivisibile che non riesco e che non voglio pensare separato. Ma per raccontarvi il mio teatro non posso evitare di partire da una lettura a noi cara: L’asino cillenico del Nolano di Giordano Bruno. È una breve lettura carica di valore e molto teatrale. È la storia di un asino parlante che chiede a un pitagorico, Micco, di poter entrare in Accademia. Micco e i suoi colleghi gli negano l’entrata, e quindi segue uno scontro dialettico in cui l’asino si dimostra più sapiente dei patentati sapienti. Nel finale arriva il dio Mercurio in persona che, con scorno dei pedanti, benedice l’asino e lo fa entrare. Ecco, noi cerchiamo di essere “asini del teatro”: piccoli, umili e cocciuti. Sempri attenti all’ascolto senza il quale crediamo non si possa oltrepassare la soglia che ci divide dal sapere.
Fino a che punto sei disposto a osare?
Fino al punto di fare la Non-scuola prima a Ravenna: laboratori con i ragazzi delle scuole che avevano un rapporto con il teatro che assomigliava a quello che si può avere con un tortura. Non andavamo a insegnare. Il teatro non si insegna. Andavamo a giocare, a sudare insieme. Abbiamo osato fino al punto di andare a Scampia a fare la Non-scuola grazie a una provocazione di Goffredo Fofi, per poi spostarci fino in America, Senegal. Osare fino al punto di mettere sempre tutto in discussione, affinché ogni lavoro abbia un senso e non ceda ai cliché. Servire il nostro dio, il dio del teatro, per noi equivale proprio in questo saper osare, saper andare oltre i limiti.
Giorgio Barberio Corsetti: “Il mio spettacolo preferito? Il prossimo”

Classe 1951, 36 anni di teatro, diplomato alla scuola di arte drammatica “Silvio D’Amico” ha lavorato con i più grandi maestri del ‘900 (tra cui un laboratorio con J. Grotowski), vincitore di premi Ubu, fonda la compagnia La Gaia Scienza nel 1976 affermandosi come uno dei più innovativi rappresentanti della scena teatrale contemporanea, ma difronte al pubblico del San Martino sembra essere quasi imbarazzato. Non riesce a stare fermo sulla sedia, infatti poco dopo la sedia si rompe, racconta la sua vita teatrale semplicemente e quasi banalmente. La sua voglia di continuare nella ricerca teatrale passa con le parole, che ci informano sulla cronologia degli eventi, ma sono soprattutto i suoi occhi che ci restituiscono l’adrenalina del cambiamento.
Che cos’è per te il teatro? 
Il teatro è per me un incontro tra persone, tra attori e spettatori. Andare a teatro non vuol dire andare a vedere qualcosa, ma andare a condividere un’esperienza. Che non è mai improvvisata, ma al contrario immaginata, progettata e costruita. Esattamente con lo stesso impegno di uno scultore difronte a un pezzo di marmo: idea, intenzione e tecnica. L’attore scolpisce una materia di diversa natura, il suo lavoro è specifico e concreto. Ecco perché il tempo delle prove è di vitale importanza per chi vuole lavorare consapevolmente. Lo spazio, il tempo, gli oggetti, le arti in genere convogliono tutte nel teatro e il regista è uno che sa un po’ di tutto e niente per bene.
Fino a che punto sei disposto a osare?
Dal 1975 a oggi quando mi chiedono “Qual è il tuo spettacolo preferito?” Io rispondo sempre “il prossimo, perché è ancora da fare”. È in questo scarto che si annida la mia spinta a proseguire. Dal laboratorio con J. Grotowski alla Biennale di Venezia del 1976 (direttore artistico Luca Ronconi), a oggi il mio unico comune denominatore è stato il cambiamento, la metamorfosi come filosofia di vita. Passando attraverso varie tecnologie e vari mezzi ho cercato di essere aperto a tutti i possibili dialoghi.
Armando Punzo: “Mercuzio non può e non deve morire”

Fondatore della Compagnia della Fortezza di Volterra nel 1988, vincitore del Premio Ubu 2010 come miglior regia dell’anno allo spettacolo Alice nel paese delle meraviglie - Saggio sulla fine di una civiltà, Punzo ci racconta paure e speranze per il futuro del teatro in carcere.
Che cos’è per te il teatro?
Da 23 anni per me il teatro è il carcere. Ecco perché da quando sono entrato alla Fortezza di Volterra ho cominciato a lavorare per la costruzione di una compagnia stabile, per un teatro stabile. Nessuno aveva mai pensato prima di trasformare un carcere in un teatro. Nessuno ci aveva mai pensato in una forma così compiuta, immaginando in modo strutturato che la fabbrica del male, la fossa dei serpenti, il pozzo infernale, la galera, o comunque si voglia definire un carcere, potesse avere un'altra faccia che contraddicesse e mettesse in discussione il pensiero comune sulla funzione e le finalità di un istituto di pena.
Fino a che punto sei disposto a osare?
Stiamo lavorando al prossimo spettacolo tratto da Romeo e Giulietta di W. Shakespeare. La nostra idea è di concentrarsi sulla figura di Mercuzio. Dopo il suo monologo sulla Regina Mab, avremmo voluto che Romeo non avesse mai pronunciato la frase “Basta, Mercuzio, basta! Tu parli di niente”. È in questo preciso istante che secondo noi la figura del poeta muore, è questa la tragedia dell’arte: smettere di sognare. Sono disposto a osare fino a andare contro il pensiero comune che non crede possibile che un’istituzione come quella carceraria possa e debba cambiare. Mercuzio non può e non deve morire.
Mario Martone: da Mazzini rivoluzionario al ’77 bolognese

Con il film Noi credevamo è vincitore ai David di Donatello 2010 di sette statuette, “una per ogni anno di lavorazione al film”. Pluripremiato in tutti gli ambiti in cui ha lavorato, dal teatro di avanguardia nelgi anni ’70 a Napoli con il gruppo Falso Movimento, ai premi Abbiati per le regie liriche, alle regie cinematografiche, nel 2007 diviene Direttore della Fondazione del Teatro Stabile di Torino.
Che cos’è per te il teatro?
Il teatro? È un po’ cinema, un po’ musica, un po’ arti visive, ho sempre cercato di fondere tutti gli elementi. Ho cominciato a fare teatro perché era un modo che mi permetteva di esprimermi e che non costava niente. Provavamo i nostri lavori in una cantina che si chiamava Spazio Libero e che il proprietario ci aveva messo a disposizione. Ecco perché ho cominciato con il teatro. Ma avrei forse fatto direttamente il cinema se ne avessi avuto la possibilità.
 Fino a che punto sei disposto a osare?
Il mio voler essere sempre “obliquo” in tutte le situazioni. Affrontare le cose, guardare il mondo in maniera trasversale. Questo è il mio modo di osare. In Noi credevamo ho voluto raccontare un Mazzini che ha un gusto particolarmente shakespeariano, cupo e malinconico, qualcuno ha detto che la descrizione della mia Giovine Italia assomiglia a una setta terroristica. Io credo di aver messo tanto in questo film di quello che ho vissuto nel mio ’77 a Bologna. Probabilmente il ricordo della rabbia che si respirava in quegli anni così combattuti ha preso le sembianze di Mazzini, ma non credo di aver mai tradito l’onore e il sacrificio di quell’eroe. 
Sono adesso impegnato nelle Operette Morali tratte da Giacomo Leopardi sono tre ore di spettacolo e proprio in questi giorni ha raccolto il tutto esaurito al Teatro Argentina di Roma. È un testo letterario ma molto teatrale, anche questo è un modo di osare: guardare un’opera classica in modo obliquo.

Josella Calantropo

venerdì 13 maggio 2011

ATTRICI IN PERSONAGGI MASCHILI. Terza tappa: VANDA MONACO WESTERSTÅHL vista dalle studentesse della laurea specialistica

Bologna 7 aprile 2011
Lucia Bellesi

Purtroppo, per problemi di orario, non ho potuto assistere all'intero incontro ma solamente ai primi momenti, perciò la mia osservazione sarà limitata all'impatto istantaneo che una grandiosa attrice mi ha regalato.
Donna multietnica, sì, Vanda Monaco è una persona ricca di molteplici lingue e tradizioni, un insieme di diverse conoscenze teatrali che, nel corso del suo studio, si sono ampliate e continuano ancora ad evadere e ad espandersi.
La lingua è sicuramente il campo di indagine più studiato e, con essa, il suono delle vocali e delle consonanti: le prime, sentite in maniera forte nella lingua italiana, le seconde, marcate nella lingua svedese; un attento studio unito all'uso del corpo, in un rapporto che non è mai fisso, ma mutevole e trasformabile, grazie al quale si creano nuovi personaggi e nuovi “spostamenti” dei personaggi.
Il suo lavoro quindi si divide in diverse terre, inizia in Italia, il suo paese natio, per poi scoprire la Svezia, dove per anni porta avanti quest'idea di multietnicità con la fondazione del Tensta Teater Ensemble, una compagnia formata da attori professionisti provenienti da ogni parte del mondo ed ora varca l'oceano fino agli Stati Uniti in cui la sua ricerca invade il settore scientifico delle neuroscienze. Beh, che dire? Una donna che ama la curiosità, ama la scoperta e ama l'originale.
La sua originalità, per riprendere quest'ultimo termine, riecheggia anche nella sua figura, una figura che fortemente mi ha ricordato i personaggi della Commedia dell'Arte, i movimenti ampi, una forte mimica facciale quasi da essere paragonata, in alcune pose, a quella di una maschera, uno sguardo deciso e diretto. Decisamente una donna di grande effetto.


Yiyi Liu

E’ molto interessante sentire parlare delle influenze delle lingue nel teatro da Vanda Monaco Westerståhl. “A poco a poco si è formata la consapevolezza che non c’è la lingua, ma ci sono le lingue dei testi. In ogni testo la lingua assume suoni diversi.””Scoprire la propria voce, scoprire i ritmi del respiro e le loro infinite variazioni, scoprire il proprio corpo nei suoi suoni e nel suo parlare… ecco tutto questo amplia e approfondisce una conoscenza di se stessi nella prospettiva del lavoro per la scena.” [1] Comunque la voce non riesce ad essere sentita da nessuno testo, per cui gli attori non hanno mai interpretato il Don Giovanni uguale dallo stesso testo. In quale modo si recita una frase, come si controllano i ritmi, gli accenti…  tutto dipende dagli attori diversi.


Nel Don Giovanni, la voce di Vanda Monaco Westerståhl è musicale. Il successo del travestimento  deve essere attributo alla sua performance invece la sua voce secondo me non ha bosogno di essere cambiata perchè non è mai stata molto “femminile”. Lo sguardo seducente e i gesti avidi sono gli elementi principali per realizzare questo simbolo di frivolezza, essendo un contrasto con l’icona della femminilità dalle due giapponesi. Peccato che noi non capiamo la lingua svedese però penso che non sia una cosa del tutto negativa perchè così possiamo essere attenti agli altri elementi della scena.     

P. s. Per l’ultimo momento di questo incontro – Attore e neuroscienze. Un piccolo esperimento, con Vanda Monaco Westerståhl e Wenting Yang – ho avuto l’incarico di scegliere alcune battute dalla Tre Sorelle di Anton Cechov che ho comunicato alle attrici sul momento. Ho scelto le ultime battute del dramma, pronunciate da Irina e Olga.


Lavinia Morisco

Sembrava una maschera della commedia dell’arte Vanda Monaco Westerståhl nell’ultimo incontro previsto da La Soffitta 2011 sul tema: Attrici in personaggi maschili.
Quando inizia a parlare di sé, l’attrice “bilingue” – recita in italiano e in svedese – ha un atteggiamento e una postura teatrali assolutamente spontanee. Addirittura si rifiuta di parlare al microfono: la sua voce arriva al pubblico naturalmente. Quando le si pongono delle domande l’artista dà risposte essenziali, schematiche. Non costruisce lunghi racconti intorno alla sua carriera.
Nel primo punto affrontato nel corso dell’incontro, la prof. Mariani la interroga sul personaggio del Don Giovanni da lei interpretato in Svezia. Le chiede di soffermarsi sul tema dell’eros, del piacere. Ebbene questo tema non ha nulla a che vedere per l’artista con la scena della seduzione di Zerlina: è Vanda Monaco stessa a sentirsi sedotta, ma dalle musiche di Mozart. La fonte del piacere è esclusivamente la musica. Qui si riafferma la sua attrazione per il suono prima che per i personaggi. Quando legge un testo, le interessano le sonorità della lingua. E’ per questo che adora la lingua svedese: le permette di porre e concentrare l’impatto emotivo sulle consonanti.

Ad un certo punto hanno inizio gli “spostamenti” di Vanda Monaco. Quando interpreta un ruolo teatrale l’attrice si “sposta”, non si traveste. Questo termine potrebbe trovare una spiegazione in un’affermazione dell’attrice: “Il personaggio nasce sulla scena, non esiste prima”. La creazione dei suoi personaggi non ha niente a che vedere con la psicologia, non c’è niente di interiore, niente di pensato: è lo spostamento sulla scena il punto di partenza del personaggio, la sua formazione coincide con il processo delle prove. Tutto questo fa pensare che nell’arte attoriale della Monaco non ci sia nulla di metafisico, nulla di concettuale, piuttosto qualcosa che ha a che fare con la pratica. Perciò non deve stupirci quando afferma che al sapere della conoscenza, l’attore deve accostare il “sapere della concretezza”. La Westerståhl è un esempio emblematico di questo accostamento: è anche dramaturg, drammaturga, regista e saggista. Forse quando Fabio Acca le domanda come faccia a dissociarsi nelle sue identità plurime, lei la sua risposta l’ha già data precedentemente in maniera implicita: il personaggio si fa sulla scena, quindi la componente teorica dell’attrice prevale quando non è sulla scena. Ma la parola attore non racchiude nel suo stesso appellativo il significato di azione? L’attore è colui che agisce sulla scena. Capiamo bene che Vanda Monaco è una perfetta donna di teatro.
A questo punto l’attrice si “sposta” e diventa Andrea: indossa un cappellino con la visiera portato a rovescio, è di spalle al pubblico. Inizia a recitare un frammento tratto dallo spettacolo Fuori dal paradiso, esibendo un passaggio naturale dalla lingua italiana allo svedese. L’esibizione è sensazionale, ma piuttosto fredda, distaccata, non trasmette emozioni. Vanda Monaco è tecnica, essenziale, ma paradossalmente naturale.
Poi esce di scena e dopo poco si “sposta” in Luigi Da Ponte: recita un frammento tratto da un altro spettacolo, Colore di Carne. Qui Vanda diventa “un vero uomo”: si sistema del gel tra i capelli facendo una smorfia tipicamente maschile di fronte a uno specchio immaginario. Sorseggia una birra direttamente dalla bottiglia e parla del mondo di oggi, un mondo di ingiustizie e di assurdità. E’ un parlare per “mostrare” e non per “dimostrare” qualcosa, dichiara. Mostrare la degradazione  dei corpi femminili nella società odierna. Questa volta l’attrice ha il microfono: fa sentire tutte le inflessioni vocali, i cambiamenti di tono, le intensità poste su alcune parole. E’ un monologo molto comunicativo, cattura l’attenzione, è intenso, è sentito. Vanda qui risulta meno fredda, è assolutamente dentro la parte e trasmette emozioni.
Nel terzo “spostamento” indossa una maschera nera, curva la schiena e entra in scena Pulcinella il bastardo.  E’ il monologo dei mandarini, tratto dallo spettacolo Pulcinella è un bastardo! La maschera della commedia dell’arte viene catapultata nella Napoli contemporanea e fa emergere la perversione maschile.
L’incontro si conclude con un piccolo esperimento: applicare le neuroscienze ad un frammento tratto dal testo teatrale Le tre sorelle di Cechov. Qui la Westerståhl è affiancata da Wenting Yang con cui collabora su un progetto che ha l’intento di verificare quali apporti possono dare le neuroscienze al teatro. Le due attrici leggono individualmente le rispettive parti dal testo di Cechov, poi le leggono ad alta voce al pubblico. Infine, si lanciano uno sguardo di intesa e l’esperimento ha inizio: sembra un esercizio di improvvisazione su un testo. Ma in realtà si tratta di qualcosa di più: associare colori, suoni e movimenti ad un testo teatrale. Queste associazioni non sono legate alle vicende personali delle due attrici. Vanda Monaco tende a precisare che, ad ogni recita, nell’attore cambiano completamente i meccanismi neurobiologici, afferma: “le sinapsi si addestrano a spostarsi”.

A questo punto ci si deve domandare: l’esperimento è riuscito? A mio parere sì. Ma si è trattato più di un percorso interiore delle due attrici, mentre ciò che si vedeva dall’esterno non era molto diverso da una recitazione improvvisata.
Le due attrici escono di scena, si siedono. Alcuni non riescono a capire cosa c’entrino le neuroscienze con la loro esibizione. Altri invece hanno capito l’esperimento a pieno. Forse il percorso con le neuroscienze è solo all’inizio, ma personalmente trovo l’idea della Monaco molto interessante e da sviluppare ulteriormente. Afferma la Westerståhl: “le neuroscienze offrono strumenti per capire meglio cosa facciamo”. L’incontro de La Soffitta si conclude qui, ma non quello con le neuroscienze. Aspettiamo e stiamo a vedere quali sorprese ci riserva questo progetto.


Chiara Pesce
Nell’ambito della rassegna tenutasi ai laboratori DMS Attrici in personaggi maschili, Vanda Monaco ha chiuso il cerchio delle tre attrici intervistate dopo Ida Marinelli ed Ermanna Montanari, prestandosi all’intervista in cui ha parlato del suo percorso professionale. Vanda Monaco è un’attrice dall’identità composita e multietnica e la sua carriera è costellata da personaggi maschili. Il suo percorso ha radici lontane nel tempo ed è caratterizzato dal nomadismo. Attrice eclettica, prima allieva di Gian Maria Volonté e poi di Erland Josephson, oltre a quello di attrice ha praticato i mestieri di drammaturga, saggista, autrice drammatica, regista e dramaturg. È stato molto interessante ascoltare dalle parole di Vanda Monaco, definita da Meldolesi “donna teatro” che cosa ha significato per lei interpretare personaggi maschili. Poiché ha praticato sulla scena molti mestieri, ha più registri linguistici: uno legato alla pratica teatrale, quindi un linguaggio molto concreto basato su esempi ed esperimenti, e un altro più legato al suo lavoro si saggista e storica che la colloca nella generazione dei grandi studiosi di teatro come Meldolesi, Cruciani e Taviani.
In apertura dell’incontro abbiamo visto alcune parti del video sul Don Giovanni da Da Ponte, spettacolo presentato in Svezia, con la compagnia Tensta Teater, in cui Vanda Monaco interpretava il protagonista. Nell’interpretazione di questo ruolo si pone come non mai il quesito su come un’attrice possa incarnare un ruolo tradizionalmente maschile come Don Giovanni.
Vanda Monaco, come da tradizione svedese, concepisce l’arte dell’attore come mestiere della metamorfosi e il teatro come luogo della trasformazione, ma non definisce i suoi ruoli maschili travestimenti, bensì spostamenti. L’attrice ha una grande esperienza di recitazione in Svezia dove, trasferitasi per amore ha fondato il Tensta Teater, una compagnia composta di attori professionisti provenienti da tutto il mondo. Cominciando l’intervista Vanda Monaco spiega che è necessario distinguere l’occhio dello spettatore dal sentire dell’attore che incarna il personaggio. Poiché l’attrice ha un processo di pensiero diverso rispetto a chi guarda. Non si sente “in bilico” tra il suo essere donna e l’interpretare un uomo, nel caso di Don Giovanni, poiché lo affronta dal punto di vista concreto del gesto e della parola, mentre chi guarda, può farsi una sua idea che si costruisce attraverso un altro processo, che ha meno del concreto da cui l’attore non può mai prescindere. Vanda Monaco nel suo processo di ricerca del personaggio non parte da nessun assunto dato per scontato e segue le sue fascinazioni nel costruirlo. Nella sua interpretazione Don Giovanni è un conoscitore della sensualità femminile, ma ciò non comporta che l’attrice sia partita da questo elemento per dargli corpo; la caratteristica che ai nostri occhi può apparire predominante fa parte di una costellazione di elementi uniti insieme nel corpo e nella voce dell’attore, il quale però può essere partito da tutt’altro per incarnare la sensualità.
È l’occhio dello spettatore quindi che crea il travestimento, mentre per l’attore si tratta di un lavoro minuzioso sul suo corpo, lo spettatore vi costruisce sopra un significato che però è di altra natura rispetto al materiale che ha usato l’attore, forse quindi è lecito affermare che Vanda Monaco non si sia mai travestita in scena, ma che partendo da un livello di espressività neutro si avvicini al personaggio senza idee preliminari, ma reinventandone un’identità. In questo modo l'attrice si forma di spettacolo in spettacolo e il suo sapere si condensa e sedimenta attraverso l'esperienza della creazione scenica come afferma lei stessa: Il modo in cui lavoro con gli attori è dettato di volta in volta dall'evento scenico che voglio costruire e non da una pratica che lo precede”.
 Un‘altra riflessione che ha attraversato tutto l’incontro ha messo al centro la lingua svedese, definita da Vanda Monaco come una “lingua dalla straordinaria bellezza teatrale” per sua natura. Oltre ad avere sperimentato questa lingua come attrice Vanda Monaco l’ha sperimentata anche nel suo lavoro di drammaturga. Riflettendo sulla teatralità della lingua svedese rispetto a quella italiana, adatta invece al canto lirico, si è aperta una riflessione sul ruolo del testo. Vanda Monaco attraverso lo studio dello svedese ha riscoperto la necessità della parola e del testo che dia corpo e ritmo alla recitazione, attraverso le sue pause e i suoi suoni, e che non la limiti. Negli ultimi venti anni del ‘900 si è diffuso un teatro che ha accantonato i testi per indagare il corpo o per sconfinare nelle arti visive. Vanda Monaco nel suo percorso di attrice ha sentito, una volta a contatto con lo svedese, la necessità di parole da inscrivere nel corpo, soprattutto di suoni attraverso i quali ampliare le capacità espressive della voce e dell’attore, poiché la voce è espressione del delicato e mutevole equilibrio tra la mente e il corpo. Trovando nello svedese una lingua ideale.
Come scrittrice di drammi, ma anche come interprete ha avuto sempre interesse per la degradazione sia maschile sia femminile. A proposito di questo tema Vanda Monaco durante l’incontro ha recitato una parte tratta da Colore di carne, lungo monologo da lei scritto che racconta la giornata di un inquietante pittore. Questa pièce è prova della sua costante ricerca verso l’altro da sé e il diverso, non soltanto perché il personaggio che interpreta è di sesso maschile, ma perché incarna un modo di vivere ai margini della società. Infatti, Vanda Monaco negli anni ha dimostrato un interesse costante verso la rappresentazione dei“confini”, non solo della società, ma anche della mente dell’uomo, luoghi in cui un essere umano può trovarsi nel corso della vita. Oggi si occupa a New York come art producer di un esperimento su attore e neuroscienze.
Dato l’eclettismo di quest’attrice e i suoi molteplici interessi approfonditi nel corso degli anni, l’unica costante che si può rinvenire nel suo lavoro è “il mutamento”, che, per tornare al tema degli incontri, è la sostanza del travestimento: il saper mutare personaggio senza avvertire distanza incarnando panni maschili è forse la prerogativa di un’attrice che vede nel teatro, come nella sua vita, il mutamento come un cardine.

ATTRICI IN PERSONAGGI MASCHILI. Seconda tappa: ERMANNA MONTANARI, vista dalle studentesse della laurea specialistica

ATTRICI IN PERSONAGGI MASCHILI. Seconda  tappa: ERMANNA MONTANARI, vista dalle studentesse della laurea specialistica

Bologna 9 e 11 marzo 2011
Lucia Bellesi

Ouverture Alcina

Potenza.

Potenza dell’immagine.
Subito “le luci frustate come lampi” (cito Marco Martinelli) creano un impatto temibile e angosciante con una figura delineata solo nel contorno. Poi il suo viso, incorniciato da un faro, esce allo scoperto, suscitando ancora più paura. Il trucco pesante e gli abiti scuri sono gli ingredienti che fanno da scenografia.

Potenza dei gesti.
Ogni movenza è diretta e incisiva; il suo sguardo passa in rassegna gli occhi di tutti senza tralasciare nessuno, lo spettatore rimane pietrificato dopo esser stato fulminato dalla sua vista, come in un incantesimo. La musica è principio vitale e, come una linfa, dà vita al movimento; il suono si unisce e si completa con il corpo e la voce, per creare una visione corale.

Potenza della voce.
Forti sono gli sdoppiamenti di personalità che si alternano: ora le parole escono come un’esplosione, ora, invece, sembrano graffiare la gola ed uscire sanguinanti. E’ un dialogo continuo mutabile (E.M.).

Personaggi maschili

Dominazione.

Dominazione della scena.
La sala straborda di gente e lei, come un re, sembra troneggiare; siamo tutti più piccoli di fronte alla superiorità che emana. E’ come trovarsi davanti una domatrice; nell’”Avaro”, questo l’ho riscontrato nell’uso del microfono, si è parlato di mezzo di potere e simbolo sessuale, a me ha, inoltre, suggerito l’idea di un frustino per domare le belve. Inoltre, ne Isola di Alcina gli uomini/cani vengono tenuti in gabbia e perciò governati. (Probabilmente quest’imponenza dei personaggi può aver lasciato forti accenti nella sua persona).

Dominazione dell’essere.
“Necessità di non avere confini” (E.M.)
Non esiste femminilità o mascolinità, non c’è distinzione di genere/sesso. Il controllo dell’essere neutro dà la possibilità di costruire una figura non definita materialmente; avendo questa capacità si può scontornare senza disperdersi e quindi fuoriuscire per assimilare. Ermanna Montanari si sofferma spesso sulla parola ”attesa”: attendere è pazientare, avere un forte controllo del proprio io, attendere è ricercare, studiare il metodo per raggiungere la perfezione, costruire i frammenti.

Dominazione della voce.
“Ogni personaggio parte da una visione vocale” (E.M.)
Ogni personaggio viene identificato e collocato con toni e accenti differenti l’uno dall’altro; in Rosvita e in Ouverture Alcina questi passaggi e mutamenti sono netti, forti e molto chiari. Questo si realizza nel momento in cui si ha un controllo della voce e una conoscenza del suono, nonché della lingua, impeccabili.


Livia Ferracchiati

Ho visto per la prima volta uno spettacolo delle Albe a Roma qualche mese fa ed era L'avaro, ero tra il pubblico che rideva di cui ha parlato Ermanna Montanari. É stato curioso rivedere quel monologo in video, perché, in effetti, sembrava diverso, particolarmente cupo. A Roma risultava tutt'altro, era comico. Questo mi ha fatto capire come la relazione, che s'instaura a teatro tra attore e pubblico, di sera in sera, modifichi radicalmente uno stesso testo.
Non mi è mai capitato fin'ora di studiare il percorso artistico di Ermanna Montanari e Marco Martinelli.
Premetto questo perché la prima cosa che mi ha colpita è stata il legame tra gli studi universitari della Montanari e la "poetica" (parola sempre rischiosa da utilizzare) del loro teatro.
L'Asinità, che per mia mancanza non avevo mai approfondito, legata nel suo significato a Giordano Bruno e alla tesi di laurea della Montanari, mi è stata chiarita fino ad un certo punto; il mio interesse piuttosto si è focalizzato sul legame tra studio teorico e pratico.
Mi ha interessata come lo studio universitario possa diventare centrale nel lavoro di chi il teatro lo fa. Forse perché quando si accede ad ambiti di formazione teatrale, a volte, la teoria può sembrare una "roba da intellettuali e basta".
Mi è capitato di seguire un corso di regia, essendo un po' presa di mira dalla docente (credo per il fatto che mi ponessi nei confronti del teatro in modo libero). Questa, correggendo le mie scelte registiche, sottolineava l'inutilità, se non la dannosità, della teoria, sostanzialmente per difendere la sua idea di teatro che dava come assoluta, salvo poi concedere una democratica indifferenza a tutte le altre possibilità.
In ogni caso sono convinta che, seppure la teoria non sia abbastanza, è non solo consapevolezza, ma fonte d'ispirazione per fare teatro.
Un altro aspetto che ho trovato molto interessante è stato quello dell' "attendere il personaggio", che io allargherei ad un "attendere la soluzione". Spesso si pensa che il talento stia nel trovare immediatamente una scappatoia, invece ho l'impressione che la bravura stia nel saper attendere e nel riconoscere l'unica via.
La prima idea è quasi sempre errata o incompleta, non c'è da affezionarsi, bisogna saperla criticare.
L'opera d'arte teatrale, così come l'opera d'arte in senso più ampio, è armonia tra le parti (anche quando l'insieme è volutamente disarmonico), ci deve essere una quadratura che o c'è o non c'è. L'armonia altro non è che equilibrio. Un equilibrio che non tutti sanno creare, ma che, quando è presente, tutti possono percepire.
Andando per un attimo oltre il lavoro con il microfono che ho trovato molto affascinante, mi ha interessata la spiegazione di Ermanna Montanari su come giunge al personaggio.
Un gesto, una postura, un oggetto e la voce arriva da sé, come adescata.
In conclusione vorrei porre una domanda. Posto che la bravura della Montanari, nonché il suo carisma sul palco, sono conclamati, quante sono le sfumature che si possono dare alla voce per mezzo del microfono?
É una domanda relativa a quel poco che ho visto e sentito: ho notato infatti che alcune variazioni vocali in Rosvita (nei 6 minuti che abbiamo ascoltato) sono le stesse de L' avaro.
Potrebbe essere che il rischio di questo lavoro sia la ripetizione? E come si sfugge ad essa? Sempre che la si voglia sfuggire e che, invece, non sia una cifra stilistica, se non addirittura la tappa di un lavoro in itinere sulle possibilità della voce amplificata dal microfono.


Yiyi Liu

La voce di Ermanna Montanari negli spettacoli è indimenticabile quanto appassionante ed innaturale. Lei dice che la voce non ha sesso; dal mo punto di vista, si può anche dire che la voce negli spettacoli è una conclusione oppure un’astrazione dalle emozioni varianti nelle nostre vite reali. Il protagonista Arpagone nella commedia L’avaro di Moliere è più un emblema che un uomo della strada, porta tutti i vizi della società laica umana. Sulla scena si può vedere una poltrona che è utilizzata dall’inizio alla fine dall’attrice, in un’opera di semplificazione dell’ambientazione. La voce può essere una maschera, questo vale anche nella vita per noi che siamo diversi nelle varie situazioni.

L’opera che è intitolata Siamo asini o perdanti? mi ha lasciato perplessa. Gli asini mi sembrano come un’icona forte nel suo spettacolo che narra una storia senegalese di una donna-asina, che risulta comprensibile soltanto da un pubblico di un contesto familiare. Mi vengono in mente gli altri asini nelle installazioni dell’ artista contemporaneo Mario Cattelan, chi ha sempre messo gli asini (talvolte viventi) nello spazio armonioso delle gallerie e dei musei. Secondo me una grande oepra, non ha bisogno di offrire tanti dettagli e spiegazioni, ma è soltanto qualcosa che commuove gli spettatori.  


Lavinia Morisco

Il regista delle Albe ha dichiarato che all’origine di ogni suo spettacolo c’è l’idea: il primo seme che scaturisce dalla fantasia e dalla testa. Come avviene nell’alchimia, l’idea inizia ad agire con una molteplicità di materie, creando il caos. Ma “l’ordine può venire solo dal disordine”, precisa Martinelli durante l’incontro alla Soffitta dell’11 marzo.. Dopo aver letto l’Orlando Furioso di Ariosto, Marco Martinelli e Ermanna Montanari sono rimasti affascinati dalla storia della maga Alcina. Chi è l’Alcina ariostesca? Una fata maligna che trasformava tutti i suoi amanti in alberi o pietre. Ebbene a partire dall’episodio ariostesco e dalle memorie dell’attrice, Nevio Spadoni ha scritto il testo dello spettacolo che trattiene in sé l’arcaicità del dialetto romagnolo dell’intimità familiare della Montanari e la magia di un testo fantastico e fuori dal tempo.
Risultato dell’accostamento di varie storie, vari caratteri, vari elementi, vari oggetti, esperienze reali e immaginate, Ermanna-Alcina diventa “una figura artificiosa, che non ha più nulla a che fare con il reale”. E’ artificiosa perché è costituita dall’accostamento dei tratti dei vari personaggi da lei interpretati nel corso della sua carriera artistica: Ermanna è l’Asina, è il corpo-microfono di Arpagone, è Rosvita, è Alcina. E’ come un prisma di cristallo dalle mille sfaccettature , è come una clessidra che avverte in sé il tempo che passa e che trova in esso dei punti di forza. E’ irreale perché è una voce che si materializza come spirito che popola le oscure foreste nella notte, che si amplifica, si sdoppia e si riunifica ed è libera nella sua gabbia. Qui la gabbia è una gabbia mentale e invisibile, dove un flusso di coscienza va a ruota libera, muovendosi a suo perfetto agio tra le interferenze sonore che dialogano con una voce ferina, gracchiante, piena di astio verso il sesso maschile.  L’invettiva contro gli uomini, la danza nel buio  e le foreste oscure mi fanno venire in mente le villi di un mondo fantastico: fanciulle amanti del ballo, morte in giovane età diventano pallidi spettri che costringono a danzare fino allo sfinimento e alla morte gli uomini che attraversano la foresta.
L’Alcina del Teatro delle Albe di Ravenna è l’esito di una metamorfosi interiore e continua dell’attrice delle Albe che interpreta questo ruolo: Ermanna Montanari. Che cosa si intende per metamorfosi interiore? L’attrice non ha fiducia in ciò che è corpo, che è materia. Afferma:
“L’atto di scarnificare è una pratica. Mi nego come corpo, il corpo è limitato, lo si deve dimenticare.” La Montanari percepisce il corpo fisico come gabbia, il suo corpo è la voce ed è determinato dalle sue origini familiari e dal suo spirito. Marco Martinelli dice di lei: il dialetto romagnolo, che ha portato in dote Ermanna da Campiano, il villaggio dove è nata, è fatto “di terra e suoni gutturali” , vincolo ruvido con la crudezza delle cose, ma diventa “musica vibrante” nella voce della donna che magicamente ha fatto di una “ natura barbara” “ un canto ” (Suburbia. Molti Ubu in giro per il pianeta, Ubulibri 2008, pp. 40 e 196).
L’originalità del teatro delle Albe sta nella sua creatività, intesa come capacità di creare e inventare sul già noto, il già realizzato, il già conseguito. L’episodio dell’ Isola di Alcina ariostesca diventa per così dire un’occasione per far riemergere il ricordo di un passato “mitico”, un passato che “risuona” come eco nella mente della Montanari: quello di Campiano, quello dei ruoli che l’attrice ha interpretato facendoli propri “ modulando ” il suo corpo voce ora in un corpo-microfono (ne L’Avaro), ora nel ragliare di un’asina (in Siamo asini o pedanti?) , ora nella vibrazione di un puro spirito, un “vento sterminatore che potesse abbattere la stupidità del consorte” (ne I Polacchi)  .  Se osserviamo le trasformazioni fisiche di Ermanna Montanari all’interno degli spettacoli appena citati, ci rendiamo conto che sono minime e che sono segnate dalla presenza di un oggetto o di un accessorio: il microfono di Arpagone, le orecchie da asina, la biacca della Madre Ubu, la calla di Alcina, una statuetta alata in Rosvita. Ma oltre a tutto questo, a quanto pare, anche nella realtà l’attrice porta con sé un oggetto. Durante l’incontro proposto da La Soffitta l’11 marzo 2011, la Montanari aveva tra le mani una pallina anti-stress. Le sue metamorfosi esteriori, sono simboleggiate da oggetti carichi di significato e non da un vero e proprio travestimento. Addentriamoci meglio nell’analisi accurata di questi “segni scenici” .
Il microfono ne L’Avaro diventa simbolo di potere. La voce che permette all’attrice delle Albe di fuoriuscire dai confini fisici del suo corpo e di “toccare” l’infinito, viene qui amplificata:
“Nella voce, non so perché, trovo una sorta di infinità, sono collegata al prima e al dopo. La voce è aria, non è del tutto Ermanna, mi porta fuori dal biologico. Il mio corpo invece non lo sopporto perché è finito, ha un perimetro, un’altezza, che posso misurare. E’ questa misura che mi blocca” (“La Repubblica”, 13 settembre 2008).

Guardiamo l’incipit di due recensioni su L’Avaro delle Albe:
“E’ nero e cupo l’Avaro del Teatro delle Albe. Arpagone, genialmente interpretato da Ermanna Montanari, emerge dal silenzio in una scena che viene smontata e rimontata da attori-personaggi-operai. Si avvinghia al microfono. Voce spezzata, roca, sussurrata nel microfono, sibilo e ghigno”  (www.teatroteatro.it).
“E’ in nero, capelli raccolti in una lunga treccia finemente annodata di rosso, stringe a sé un microfono con asta.” (www.teatroecritica.net)
Ciò che immediatamente i due critici mettono in evidenza è la componente cromatica il nero, e il microfono afferrato con grinta, con  sicurezza. Sono entrambi elementi che ritornano nella figura fantasmatica di Alcina (Ouverture Alcina ) .
Il microfono con asta, diventa asta in Rosvita, utilizzata perfino per “calpestare” una statuetta alata dai seni scoperti che prima Ermanna-Rosvita aveva tra le mani. La monaca e drammaturga Rosvita è vestita di abiti oscuri e porta dei lunghi e alti stivali neri. Anche qui tuttavia, lo strumento del potere, il microfono,  non può mancare.
L’icona oscura si tinge di bianco e si illumina di una luce quasi “albeggiante” in  I Polacchi, dove la Madre Ubu interpretata dalla Montanari, indossa un abito dalle tonalità chiare e ha il volto tinto di bianco. Quello stesso volto spettrale che come la luna schiarisce il buio notturno, riappare nella nebbia oscura della gabbia mentale di Alcina. Per la prima volta però, l’attrice ha qui dovuto rifarsi al ritmo del suo corpo e alle sue vibrazioni per trovare il suo ritmo interiore:
“La vibrazione di Madre Ubu era un’altra. Invece di ritmi a battito ho elaborato un’invenzione vorticosa e lineare; ho cominciato a roteare su me stessa come una trottola folle e instancabile.” (Suburbia, cit., p. 35)
Finchè in Ouverture Alcina, le sorelle di Campiano da due diventano una: Alcina. Unici punti luce nel buio della scena sono il volto fantasmatico della maga o fata, per attenerci al testo di Ariosto, e il pallore della calla: un fiore che fa pensare a qualcosa di inconcluso, con un’apertura maggiore nella parte superiore. Le luci di scena rendono visibili solo “la maschera” di Alcina e questo fiore simbolico.
Infine, pensiamo all’interpretazione di un’asina parlante in cui l’attrice porta sul capo delle orecchie da asino, che non a caso è l’immagine emblema del Teatro delle Albe e l’icona d’apertura del suo sito internet. Ma soprattutto si guardi al modo di legare i capelli utilizzato dall’attrice per fare l’asina: lo stesso che sarà poi riutilizzato da Ermanna-Alcina.
 “Sentirsi asini, significa per noi non percorrere allineati e arroccati il perimetro delle proprie certezze, significa avvertire in sé la spinta della fame di conoscenza, l’allegrezza di attraversare il mistero, di praticare l’ascolto dell’Altro-Te-Stesso come un’arte, come via alla bellezza.” (“Atti & Sipari” , ottobre 2008)
Così l’attrice Ermanna Montanari esprime l’idea fondante del Teatro delle Albe di Ravenna, al quale è stato dedicato il terzo del ciclo di incontri dal titolo Attrici in personaggi maschili. Il ciclo è inserito nel programma de La Soffitta 2011 presso i laboratori DMS di Bologna. La dichiarazione fa pensare ad un concetto chiave da lei espresso nel corso dell’incontro formativo offerto da La Soffitta l’11 marzo che è costitutivo del suo modo di vivere e di guardare il mondo assolutamente fuori dagli schemi e dai preconcetti: guardare “scontornando”. Che cosa si intende con il verbo “scontornare”? Significa avere la tendenza ad eliminare i contorni delle cose, eliminare i contorni per accogliere la molteplicità, accogliere la molteplicità per avvertire dentro di sé la spinta della fame di conoscenza. Quando all’attrice Montanari si chiede di definire qualcosa o di autodefinirsi, la sua risposta non è mai del tutto attinente alla domanda. Perchè?  Non concepisce l’idea di concentrarsi su una questione particolare; ha l’impressione di sentirsi in gabbia, di essere chiusa in un piccolo perimetro che non le permette di “scontornare” .
Il personaggio della maga Alcina ariostesca ha evocato nell’attrice una realtà del passato del suo paese natale, Campiano: due sorelle rinchiuse in casa per anni che gestiscono un canile dopo essere impazzite d’amore per uno stesso uomo che infine le ha abbandonate.  Le due sorelle sono diventate due facce della stessa medaglia nell’Ouverture Alcina, spettacolo del 2009 con la regia di Marco Martinelli in cui Ermanna Montanari rappresenta lo sdoppiamento di Alcina rispettivamente in lei e la sorella demente, replicato il 10 e 11 marzo 2011 presso i laboratori DMS ed estratto da L’Isola di Alcina, testo di Nevio Spadoni scritto in dialetto romagnolo e ispirato alla vicenda di Campiano, e dall’omonimo spettacolo del 2000, che le è valso il premio Ubu. Ne L’isola di Alcina, Ermanna-Alcina aveva i capelli legati come le prime asine, la biacca della Madre Ubu e recitava accanto a sua sorella Principessa (Laura Redaelli). In Ouverture Alcina la Montanari è sola in scena. Marco Martinelli con una semplicità e umiltà inaudite entra in scena e narra l’episodio delle sorelle di Campiano. Poi si spengono le luci e si entra immediatamente nell’avvolgente paesaggio sonoro dell’Ouverture Alcina: 45 minuti di monologo che “dialoga” con i suoni.
La visione del mondo senza confini ritorna nel fiore che Alcina ha tra le mani: la calla. Rappresenta un’apertura che conduce all’ignoto e quindi ancora una volta a qualcosa di indefinito, di inconcluso. Anche lo spazio vuoto e buio in cui “danza” Ermanna-Alcina rappresenta un ambiente che c’è, ma non si vede e che per questo non mostra il suo perimetro e che si percepisce come soundscape con musiche di Luigi Ceccarelli. “Il suono porta lo spazio della scena in quello degli spettatori. Non proviene solo dal fronte, ma si disperde a 360 gradi e riempie tutto la sala”, dice Ceccarelli durante l’incontro bolognese. E’ un ambiente fatto di vibrazioni sonore che si scontrano, che sono in conflitto tra loro, ma che nonostante tutto non riescono mai a ostacolarsi. Piuttosto si incrociano, si amalgamano con la voce, si muovono in tutte le direzioni creando un’atmosfera surreale, inquietante che catapulta lo spettatore fuori dall’hic et nunc priettandolo in un passato che si è fermato e che si ripeterà all’infinito, proprio come quello delle sorelle di Campiano. L’attrice dichiara di avvertire una forza erotica nelle musiche di Ceccarelli dalle quali si sente attratta irresistibilmente.
Di Ermanna-Alcina, non si riescono neppure a scorgere i contorni sul palco: nel buio il suo viso pallido e spettrale fa pensare a una presenza fugace che viene compensata dalla concretezza della voce della Montanari e delle parole del testo di Nevio Spadoni. La presenza scenica dell’attrice è accattivante e incute timore: la mimica facciale ha fatto del suo viso una maschera inquietante, la voce ha reso Alcina una creatura dai tratti animaleschi (richiamo all’asina), la freddezza del suo sguardo smarrito nel vortice della follia d’amore fa pensare all’aridità dell’avaro Arpagone, un’aridità che questa volta è stata causata da un amore mancato per cui Alcina ha perso se stessa. Ma “le fate morir sempre non ponno” e per questo forse quando Ermanna afferma di aver lasciato Campiano per fare teatro, in realtà quel posto non lo ha mai abbandonato, ma l’ha portato con sé, con le sue storie, le sue “fate” e il suo dialetto.
Quasi tutti i ruoli interpretati dalla Montanari presentano la compresenza di tratti spettrali-animaleschi e la coesistenza di genere maschile-femminile.
Pensiamo all’interpretazione figurativa che ne ha dato Leila Marzocchi nella locandina de L’Avaro delle Albe. L’illustratrice e fumettista ha percepito nell’Arpagone della Montanari un essere che andava aldilà del genere e dell’umano. Sul manifesto dello spettacolo, lo rappresenta di profilo dalle sembianze animalesche, e con un corpo-tronco dalle grandi e visibilissime radici. L’elemento bestiale e animalesco ritorna nelle scarpe caprine di Rosvita e nella mimica facciale di Alcina.
La coesistenza di genere maschile-femminile invece, non deve affatto far stupire. Basti pensare a un’affermazione dell’attrice: “la voce non ha sesso. Contiene la possibilità di più corpi”. La voce è l’elemento originario di tutte le sue interpretazioni, ogni personaggio nasce sempre con “un’immagine vocale”. Anche l’immagine vocale è qualcosa di aereo, di inconsistente e di indefinito, ma allo stesso tempo trattiene in sé più corpi. Ancora una volta Ermanna sfugge alle tendenze definitorie e accoglie le molteplicità. Basti pensare al termine “asinino”, cos’è asinino per il Teatro delle Albe? Tutto ciò che “slabbra i contorni”, dice rispondendo a Laura Mariani durante l’incontro.
Lo spettacolo ha ben espresso la concretezza del qui ed ora del teatro ( presenza scenica, mimica, voce, testo, suono, ambiente sonoro) , ma nello stesso tempo la sua natura labile, fugace. L’esperienza più determinante è quella uditiva: la voce, il suono, la parola che si fa suono, sono vibrazioni che si diffondono e si disperdono nell’aria. Eppure quando ci si alza dalla poltrona e ci si avvicina all’uscita del teatro si sente ancora risuonare quella frase nelle orecchie: “A m’so insmida” (mi sono istupidita).


Chiara Pesce

L’incontro con Ermanna Montanari tenutosi il 9 marzo ai laboratori DMS è stato molto interessante e utile per proseguire il nostro percorso, alla ricerca del significato che ha il travestimento nel teatro contemporaneo e in particolare per le attrici che hanno recitato in vesti maschili. La compagnia delle Albe di Ravenna sì è cimentata nell’Avaro di Molière con la regia di Marco Martinelli e con Ermanna Montanari nella parte del protagonista: ruolo non solo maschile, ma tradizionalmente interpretato da uomini.
Durante l’intervista, prima di parlare dello spettacolo, l’attrice ha spiegato cos’è per lei e per la compagnia delle Albe un personaggio.
Anche se spesso questa parola è utilizzata per semplicità e per sintesi, Ermanna Montanari non definisce così le sue creature, le chiama invece figure. Il termine personaggio, infatti, presuppone, secondo la tradizione, uno sfondo psicologico che lo rende riconoscibile e inconfondibile e implica che nel costruirlo l’attore debba lavorare soprattutto sulle sue caratteristiche peculiari.
Per Ermanna Montanari creare una figura da mettere in scena significa il contrario, e cioè non riprodurne le caratteristiche, avendole già ben definite, ma avere la massima apertura possibile, lasciare che queste caratteristiche si manifestino seguendo la linea degli sconfinamenti. Questi sconfinamenti sono sia percettivi che di ambito: una condizione sine qua non per dare corpo a ogni figura che interpreta. Ermanna Montanari definisce questo tipo di ricerca asinina, infatti, l’asino, simbolo della compagnia, riassume lo spirito delle Albe il cui impegno teatrale fa dell’ignoranza asinina la via per avere uno sguardo curioso sul mondo.
Il metodo della Montanari quindi, rispetto alla tradizionale costruzione di un personaggio, è sostanzialmente diverso. Questo spiega il fatto che l’attrice prenda spunto dal mondo vegetale o da quello animale, come lei stessa spiega durante l’intervista. Lasciando aperte le porte della percezione, si rendono possibili infiniti collegamenti e i contorni del personaggio si dilatano, condensando al tempo stesso questo metodo di rappresentazione. La forza della recitazione di Ermanna Montanari deriva proprio dal fatto che riassume in sé la molteplicità degli elementi cui si è ispiratata nel suo processo creativo rendendosi un’allegoria vivente.
Secondo la mia opinione personale il metodo di ricerca della compagnia e quindi i suoi sconfinamenti, fanno sì che nella messa in scena non si rappresenti il personaggio dell’Avaro, ma una figura che incarna l’Avarizia.
Non vive nel corso dello spettacolo il personaggio scritto da Molière, ma una sua trasposizione, che deriva dall’astrazione delle sue caratteristiche che hanno compiuto il regista e gli attori nel farlo rivivere sulla scena. In altre parole invece di rappresentare oggi il personaggio dell’Avaro, le Albe rappresentano un’icona dell’Avarizia di tutti i tempi, vista oggi da quella particolare attrice.
È in questi termini che si può parlare di travestimento, infatti, mentre per Ida Marinelli la ricerca del personaggio passava attraverso la concretezza degli oggetti, approdando anche alla concretezza estrema di un personaggio/persona reale, in questo caso si approda attraverso il travestimento a un’allegoria o a un simbolo che non appartengono al mondo reale, ma che riassumono e incarnano, trasponendoli ed amplificandoli, alcuni elementi della realtà.
Questa è anche la motivazione della potenza evocativa dell’interpretazione della Montanari, che racchiude in sé la molteplicità del processo da cui è nata. Trattandosi di un’allegoria non ha nessuna importanza che sia un uomo o una donna a interpretarla, ma è necessario che rimandi e susciti quel sentimento, in questo caso quello dell’Avaro. Per questo motivo il fatto che Ermanna Montanari interpreti un personaggio maschile, mi sembra secondario rispetto al fatto che interpreta qualcosa che non è umano. I contorni umani già labili mi sono sembrati sfumare del tutto quando durante l’incontro abbiamo visto il filmato del monologo principale del protagonista, e certamente ha contribuito a formarmi questa idea l’uso che la Montanari fa della sua voce.
Su quest’argomento l’attrice si sofferma molto a lungo.
Siccome come lei afferma: “La vocalità contiene in sé la possibilità di più corpi, è necessario sceglierne uno”, per trovarlo l’attrice afferma di lasciarsi guidare dal suo timbro. In questo caso ha seguito il processo della sottrazione per far sì che la voce fosse secca e afona. Lo strumento vocale, prediletto dall’attrice in molte occasioni, assume ancora più rilievo nell’Avaro poiché il protagonista lo utilizza come strumento di potere sugli altri, avvalendosi per fare ciò di un microfono che funge da arma nei confronti del prossimo. L’ aspetto “carnale” del personaggio viene efficacemente espresso dalla sua voce, piuttosto che dal corpo o dal modo di muoversi, la voce è l’elemento che incarna l’Avaro tutto, sia nel corpo sia nel suo carattere.
Ermanna Montanari ha illustrato il suo metodo di lavoro quando deve interpretare personaggi maschili e non. Per finire direi che gli sconfinamenti dell’attrice della compagnia delle Albe possono essere considerati come una possibile declinazione del travestimento, a dimostrazione che quest’ultimo è ancora oggi uno strumento utile e praticabile per il teatro.