È un'analisi disarmante, a tratti cattiva a tratti
commovente, ma comunque necessaria, del tabù più radicato nella nostra società
di eterni Dorian Gray. Una società che ha imparato a combattere la malattia,
che nega la vecchiaia e che per questo non vuole, o forse non può, arrendersi
alla morte.
In scena c'è Valeria Raimondi, vestita a festa in quel modo
un po' eccessivo e sopra le righe con cui di solito si celebra e si esorcizza
l'ultimo dell'anno. E ci sono le sue parole, sue e del coautore Enrico
Castellani. Concrete, quasi solide nella
capacità che hanno di produrre visioni. Sono parole dette, declamate, ripetute
com’è nello stile, ormai riconoscibile, dei Babilonia Teatri. Si fanno
filastrocca, poesia, mantra ossessivo. Sono tante, scandite in un ritmo
sincopato, incalzante. Non c'è né lo spazio né il tempo per rifugiarsi in un
altrove più confortevole. Non ci deve essere.
Poi arriva il silenzio, interrompe per un po' il flusso di
parole, crea una cesura, un varco in cui il corpo dell'attrice può perdere la
sua fissità. Nel silenzio, è il movimento che disegna il senso. Materialmente
lo costruisce, trasformando i pochi elementi presenti in scena in immagini
simbolo della fine. C'è il Cristo in croce issato nel centro. C'è lo sparo di
pistola. Sono sì immagini simbolo della morte, ma come complemento ineludibile
della vita.
La Natività giunge al suo ultimo atto: il Bambino divenuto
Uomo muore con sofferenza, tra le teste mozzate del bue e dell'asinello. Solo
la stella cometa resta uguale a sé stessa.
Il buio arriva sulle note di “The end” dei Doors, davanti
agli occhi restano una madre col suo bimbo. Ma non è speranza e neanche
rassegnazione. Solo l'evidenza del fatto che ogni inizio ha, e deve avere, la
sua fine.
Michela Mari
semplicemente eccelso!
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