martedì 14 febbraio 2012

“The end”: visioni della fine

Con The end i Babilonia Teatri portano in scena il rapporto con la morte, il nostro modo goffo di nasconderla, chiamandola con nomi che non la raccontano del tutto. Di evitarla, di posticiparla, di resisterle, di sopravviverle. E di contro il desiderio, spesso incompreso, di chi vuole invece affrontarla, di chi decide di “trattenere la vita fin dove è possibile, non oltre”.
È un'analisi disarmante, a tratti cattiva a tratti commovente, ma comunque necessaria, del tabù più radicato nella nostra società di eterni Dorian Gray. Una società che ha imparato a combattere la malattia, che nega la vecchiaia e che per questo non vuole, o forse non può, arrendersi alla morte.

In scena c'è Valeria Raimondi, vestita a festa in quel modo un po' eccessivo e sopra le righe con cui di solito si celebra e si esorcizza l'ultimo dell'anno. E ci sono le sue parole, sue e del coautore Enrico Castellani.  Concrete, quasi solide nella capacità che hanno di produrre visioni. Sono parole dette, declamate, ripetute com’è nello stile, ormai riconoscibile, dei Babilonia Teatri. Si fanno filastrocca, poesia, mantra ossessivo. Sono tante, scandite in un ritmo sincopato, incalzante. Non c'è né lo spazio né il tempo per rifugiarsi in un altrove più confortevole. Non ci deve essere.

Poi arriva il silenzio, interrompe per un po' il flusso di parole, crea una cesura, un varco in cui il corpo dell'attrice può perdere la sua fissità. Nel silenzio, è il movimento che disegna il senso. Materialmente lo costruisce, trasformando i pochi elementi presenti in scena in immagini simbolo della fine. C'è il Cristo in croce issato nel centro. C'è lo sparo di pistola. Sono sì immagini simbolo della morte, ma come complemento ineludibile della vita.

La Natività giunge al suo ultimo atto: il Bambino divenuto Uomo muore con sofferenza, tra le teste mozzate del bue e dell'asinello. Solo la stella cometa resta uguale a sé stessa.

Il buio arriva sulle note di “The end” dei Doors, davanti agli occhi restano una madre col suo bimbo. Ma non è speranza e neanche rassegnazione. Solo l'evidenza del fatto che ogni inizio ha, e deve avere, la sua fine.



Michela Mari

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