giovedì 31 ottobre 2013

Parkin’son: danza la vita di un padre e un figlio


Un padre e un figlio si raccontano. Gli episodi più salienti delle loro vite squarciano il silenzio della sala InterAction, attraverso il rimbombo di voci fuori campo. Di primo acchito un’impeccabile calendarizzazione di biografie ignote e apparentemente insignificanti, si penserebbe. Ma poi la comparsa di Stefano d’Anna tradisce il pregiudizio del pubblico: il buon marchigiano valica il confine della finzionalità del teatro per dialogare con gli astanti, seduti persino ai suoi piedi, mimando, con la tecnica del più acerbo tra gli attori, i tratti distintivi della sua esistenza umile, pragmatica, ordinaria. Sulle note di una celebre canzone del compianto Jimmy Fontana, la sua mano comincia a tremare: forse l’emozione da principiante, forse l’intensa carica emotiva, forse un misterioso segreto non ancora confessato.

Foto di Cinzia Camela

È la volta del giovane – ma non troppo – figlio, Giulio, che irrompe sul palcoscenico per narrare la sua storia: uno spassoso viaggio introdotto da una latente omosessualità adolescenziale, degenerato poi in scelte universitarie forzate e, fortunatamente, terminato con una carriera professionale all’estero orgogliosamente rivendicata.
Le vicende dei due uomini cominciano a intrecciarsi, aggrovigliando i loro corpi in un gioco di movenze speculari, piccole gag, tentativi di tenera danza contact, duramente troncata dall’inevitabile conflitto generazionale sciorinato in un scontro eccessivamente manesco e volgare, nostalgico di quella cinematografia italiana di genere firmata Bud Spencer e Terence Hill.
Eppure, due piccole ma evidenti strisce adesive glitterate vengono applicate sui pantaloncini e ridonano il sorriso tanto ai performer, emulatori di soubrettes plastificate, quanto ai fedeli partecipanti seduti in platea, spettatori di un focolare domestico lentamente consumato dal terribile morbo di Parkinson.

Foto di Cinzia Camela

Giulio, guerriero di mille battaglie personali, si scopre inerme di fronte alla furia di questo male inguaribile e degenerativo: la sua danza si deforma; vaga alla ricerca di un equilibrio alternando cadute improvvise verso il terreno a molleggiati salti nel vuoto; si pietrifica in posizioni amorfe abbandonate ad una completa rassegnazione.
Ma la resa non è il suo destino ed è proprio lo stop! ammonitore di Stefano a ricordarglielo: l’amore filiale non può rendere Giulio vittima di un dolore che non gli appartiene.
E così, come in un finale da favola, in cui i protagonisti si avviano a vivere felici e contenti, i due eroi di questa temeraria lotta contro le difficoltà umane fantasticano di un avvenire radioso, sullo sfondo di un collage di scatti di vita felice.

Foto di Cinzia Camela

Visto a: Arena del Sole – Sala InterAction
Data: 28 ottobre 2013

Marco Argentina

domenica 20 ottobre 2013

Prosa, teatro ragazzi, progetti internazionali e una nuova rassegna di poesia: la stagione 2013 – 2014 a cura della Compagnia Teatro dell’Argine


Riprende la Stagione dell'ITC Teatro: un ventaglio di rassegne, dalla prosa al teatro ragazzi alla poesia, che avranno inizio a fine ottobre a San Lazzaro di Savena (Bo).

Quando si fa buio - Per ascoltare la poesia non servono gli occhi


Le novità sono presenti già in apertura di stagione con Quando si fa buio - Per ascoltare la poesia non servono gli occhi: una rassegna a cura di Azzurra D’Agostino e del Teatro dell'Argine in collaborazione con SassiScritti - associazione culturale impegnata nella promozione e ricerca delle arti contemporanee, in particolare teatro, musica e scrittura - per portare la poesia a teatro.

Giovedì 17 e giovedì 24 ottobre i protagonisti di questo viaggio saranno Pierluigi Cappello e Fabio Franzin, Fabiano Alborghetti e Matteo Fantuzzi, affiancati dalla curatrice Azzurra D'Agostino e accompagnati dalla voce di Micaela Casalboni, in un esperimento con lo scopo di non perdere quello spazio per la letteratura all’ITC Teatro inventato e coltivato da Stefano Tassinari.
             
Si prosegue, da martedì 12 novembre, con L’arte dell’utopia, la stagione di prosa dell’ITC Teatro, con la direzione artistica del Teatro dell’Argine. Ospiti di quest’anno: Eugenio Allegri, Cristian Ceresoli e Silvia Gallerano, Collettivo InternoEnki (vincitore del Premio Scenario per Ustica 2013), Roberto Corradino, Marta Cuscunà, Fanny & Alexander, Punta Corsara, Teatro delle Temperie, oltre ai padroni di casa del Teatro dell’Argine.

 Un bès - Antonio Ligabue

Come dichiara la direzione artistica: «Gli artisti e gli spettacoli in cartellone sapranno condurre gli spettatori in un mondo dove l’arte possa essere una forma di riscatto (Un bès - Antonio Ligabue di Mario Perrotta) e l’artista una figura scomoda ma necessaria (Le Braci di Roberto Corradino); un mondo dove le differenze culturali non siano un limite ma una risorsa (Il circo capovolto di Andrea Paolucci); dove le risorse delle donne diventino forma di resistenza politica (La semplicità ingannata di Marta Cuscunà e Liberata di Nicola Bonazzi); dove la politica sia servizio e progettazione e non gioco al ribasso (Berlinguer di Giorgio Gallione); dove il gioco diventi una nuova forma di comunicazione (The Shoe Must Go On di Andrea Paolucci); dove la comunicazione serva a formarci come persone e non formi un popolo di bambini (Discorso Grigio e Discorso Giallo di Luigi De Angelis - Fanny & Alexander); dove un popolo che migra diventi coscienza di un intero popolo (Italiani Cìncali di Mario Perrotta e La Turnàta di Nicola Bonazzi e Mario Perrotta); dove la coscienza dei disastri sociali sia stimolo alla riflessione attraverso l’arte (La Merda di Cristian Ceresoli, Il Convegno di Emanuele Valenti e M.E.D.E.A. Big Oil di Terry Paternoster); un mondo dove l’arte non sia marginale, ma sia di tutti e per tutti; un mondo dove l’arte non deroghi mai al compito di immaginare un mondo migliore».

 Berlinguer

Inoltre, domenica 16 febbraio debutta sul Teatrobus nel cortile dell’ITC lo spettacolo X e Y: un universo di famiglie: una performance inserita nel progetto per la scuola CuraUgualeFamiglia, che promuove una riflessione sui nuovi modelli di famiglia presenti nella società contemporanea. Realizzato grazie al contributo della Fondazione del Monte di Bologna e Ravenna. 

Discorso Giallo - Fanny & Alexander

E per ultimo, non per importanza, si ricorda che a maggio 2014 il Teatro dell’Argine festeggia venti anni di attività. A partire dal mese di luglio 2014 e per tutta la stagione 2014-2015 ci saranno occasioni per momenti di riflessione, spettacoli, in attesa dell’evento speciale di festeggiamento.

Per informazioni, visita il sito: www.itcteatro.it
Non mancate!

Angela Sciavilla

sabato 19 ottobre 2013

E tu, sei Magnifico?


Cogliamo al balzo la notizia del Magnifico Teatrino Errante che ritorna all’opera dopo i successi dello scorso anno e la breve pausa estiva. 

Sono aperte le iscrizioni al laboratorio teatrale del Magnifico Teatrino. Si cercano 3 ragazzi da inserire nella compagnia. 

Per chi non l’avesse ancora vista recitare, giocare e gioire, vi anticipiamo che il Magnifico Teatrino Errante è una compagnia bolognese composta da attori disabili e non, che lavora sia sul piano artistico che quello dell’integrazione. 


 Il gruppo include attori con diverse abilità, perché crede nella potenza della verità scenica che queste persone portano naturalmente sul palco. Il lavoro sulle differenze e l’integrazione avviene in maniera spontanea e assume un ruolo fondamentale, insieme alla produzione artistica e alla formazione.

A partire dalla Par Tòt Parata 2011 si impossessano dell’aggettivo “Errante” senza mai più fermarsi. L’anno scorso hanno dedicato una stagione allo studio della clownerie e dell’improvvisazione, che ha fruttato la realizzazione dello spettacolo Random Cabaret - La Variabile Casuale (portato in scena  più volte a Bologna nel 2013 in occasione della Rassegna Diverse Abilità in Scena, Festival Terra Equa, e Teatri Mirabili di Povertà).

Ora la compagnia cerca tre ragazzi maschi, con o senza esperienza teatrale. Gli incontri inizieranno dal prossimo 21 ottobre

 
Il laboratorio sarà condotto dall’attrice e regista Valeria Nasci e, fino a dicembre, si svolgerà per due lunedì ogni mese, dalle ore 16.30 alle 18.30, presso la Stalla delle Meraviglie, in via Garavaglia 5 - Bologna. Da gennaio gli incontri si terranno invece tutte le settimane.

Per entrare a far parte della compagnia, o avere più informazioni, scrivere a:

magnificoteatrino@gmail.com
http://magnificoteatrino.wordpress.com/

Angela Sciavilla

mercoledì 9 ottobre 2013

Davanti allo schermo grigio di un televisore spento va in scena lo spettacolo degradante dell’umanità


Nel pieno rispetto della poetica di Werner Schwab, Le presidentesse e il loro microcosmo saturo di ipocrisia, ignoranza e falso moralismo è già davanti ai nostri occhi, non ha bisogno di rivelarsi: c’è. È un corpo unico ammassato davanti alla televisione. Senza capo né coda, senza cervello né anima, è li. Si muove senza fretta: aspetta che noi spettatori ci siamo accomodati per prendere vita, per prendere respiro. Lentamente, ansimante, l’ammasso prende vita e accende il televisore. Il corpo unico si articola in tre donne: Erna, Grete e Maria. Lo squallido spazio esistenziale nel quale le tre vivono non ha bisogno di altro arredo se non di un gabinetto e di un tavolino sul quale appoggiare l’unico loro oggetto di interesse: la televisione.

foto Chiara Ferrin

foto di Chiara Ferrin

Tutto claustrofobicamente chiuso attorno alla televisione: lo spazio non ha vita se non all’estremità della scena, e il grigiore dello schermo illumina i volti inceronati; Erna ha un berretto di forma fallica in testa mentre dà libero sfogo alle sue prosopopee moraliste, bigotte, sessualmente frustrate, seduta sul gabinetto. Grete è ossessivamente legata alla sua borsetta, la stringe al ventre mentre cerca di zittire i suoi appetiti carnali, le tragiche crepe della routine quotidiana, attenta ad ogni movimento di Erna perché possa riuscire a rubarle il posto a sedere. Maria sbuca da sotto il tavolo, conquisterà il trono nella seconda parte dello spettacolo; non ha averi, non ha orpelli, non ha disgrazie di cui lamentarsi beatamente: lei è ben contenta di galleggiare nella merda. Nel silenzio totale, la posizione dei corpi e l’uso dello spazio raccontano di un mondo chiuso e bigotto, di desideri lasciati a marcire zittiti dalle urla del moralismo, del precetto cristiano, del buoncostume ma anche di perversioni vissute nell’ipocrisia del chiuso domestico e di mani sporche di merda e fedeltà candidamente esibite da anime pure legate ai voti della fede.


Tutta la prima parte gioca sapientemente con la posizione dei personaggi: movimenti continui che danno vita al corpo unico, lo esibiscono a poco a poco frammentandolo nelle psicologie malate delle tre singole donne fino ad arrivare alla scoperta delle loro ferite, delle loro miserie: figli che odiano l’immagine di se stessi, affogati nell’alcol e nella violenza domestica si negano alla società della divina provvidenza. Si sottraggono alle norme del vivere sociale, alla quiete familiare, alla riproduzione mentre le madri, accorte, impegnano le loro giornate a litigare per il primato delle superstizioni: chi si vota anima e corpo alla religione, chi alla tuttologia medica. Con un misto di panico e rabbia osservano il mondo cadere sempre più in basso, dall’orlo del baratro lo vedono scivolare senza altro sforzo se non quello di ricordargli, di tanto in tanto, di non avvicinarsi troppo alla merda. Maria è al di sopra: lei non si lamenta, lei seda gli animi e si sporca le mani perché così vuole la provvidenza. La piccola Maria è amata perché servile, docile, forte, vocata in tutto e per tutto all’aiuto del prossimo: stura i cessi senza i guanti perché anche la merda è opera del creatore. 

 
Nella seconda parte, la festa conclusiva di Bulgakoviana memoria è tutto un rincorrersi di voci attorno ad un quadro fin troppo statico, così che il lavoro sul personaggio, punto di riflessione importante per la compagnia Nerval Teatro, perde la sua iniziale incisività: tre microfoni per tre racconti e il trono finalmente occupato dalla pura Maria. Le madri gozzovigliano accecate dalle loro ossessioni, asfissiate dalla totale mancanza di libertà d’azione: Grete chiede continuamente a Lydia cosa fare dell’aitante e virile corteggiatore, Erna si prepara alla sua vita da salumiera accanto al vate Wojtyła e Maria rende felice l’umanità correndo da un bagno all’altro. Finché l’incanto non si strappa, il demonio non decide che la festa deve terminare e allora la società si pulisce il viso dai bagordi e dalle oscurità del pensiero: la merda torna tutta a galla nella soave voce di Maria e il moralismo borghese non ce la fa a resistere, e alla fine anche questa Pasqua è onorata, anche stavolta l’innocente è sgozzato.

Nerval Teatro – Le presidentesse

Visto a: Trasparenze – Atelier della scena contemporanea (Modena) presso lo spazio TIR danza il 5 ottobre 2013

Elvira Scorza

Il moto perpetuo dell’attore. A Trasparenze, Mario Barzaghi si presenta come atleta del cuore: tra Michelangelo e Dante, il racconto dell’arte del Kathakali


All’ombra di candele e incensi, tra musiche sconosciute e gesti incomprensibili, c’è un qualcosa che ti parla, «dei gesti che corrispondono a ignota realtà» (A. Artaud – Il teatro e il suo doppio). È un qualcosa capace di toccare, di smuovere, di rompere quel che a volte si cerca di arginare. Dopo anni di ricerche e battaglie non ancora concluse e lunghe sessioni antropologiche, questo qualcosa ha trovato nel barbiano livello pre-espressivo dell’attore un canone di realtà grazie al quale è possibile parlarne in termini non più utopistici. Ma dopo averne parlato, capire cosa diavolo è questo qualcosa che alimenta la vita dell’attore porta allo stupore; si traduce in un guizzo del pensiero, in una sovrapposizione mentale: la sorpresa di ritrovarsi a pensare ad Arlecchino mentre in scena c’è un attore che si esibisce nel Kathakali.

foto di Chiara Ferrin   

In realtà Mario Barzaghi ci parlerà di Pulcinella, una volta riprese le sue vesti che sono tutto tranne che occidentali: riemerge con camicione e pantaloni larghi dal telo colorato che cela il suo ritorno alla realtà. Ci parla della mimica con cui De Filippo dava vita alla maschera di Pulcinella e ci mostra i nove tipi di espressione facciale previsti dal Kathakali: è un concerto di occhi che si muovono, di muscoli che rivendicano la loro autonomia su un volto che è del tutto identico al tuo ma inspiegabilmente molto più plastico. Lo sguardo si incanta, la mente viaggia, esplora nell’archivio dei ricordi e crea assonanze, ritrova sensazioni note. Dopo un viaggio nell’arte Kathakali, Mario Barzaghi torna uomo, e i suoi occhi ritrovano la dimensione umana: facevano paura, quegli occhi, incastonati nel rosso acceso che truccava il suo volto. E la sua figura ritrova le proporzioni quotidiane, libera da imbottiture, lunghe gonne, manti di pelliccia.


Rimuove gli inserti di carta dal viso, si pulisce dal cerone rosso, inizia a sbarbarsi. E a parlare, con noi spettatori, di quello che lui ha appena fatto e noi appena visto.

«Si indossa la maschera per far suonare la persona: persona–persuona. Ora l’ho tolta per mostrare la persona. Il verbo essere fa vibrare la persona: io Sono/io sòno/io suono. L’etimo di maschera è ignoto, ma l’etimo di persona è maschera. La maschera viene usata perché fa convogliare meglio e più lontano le parole: fa persuonare».

Non ci si aspetterebbe di ritrovarlo così, dopo averlo visto esibirsi. La sua voce è chiara, i suoi gesti tranquilli, posati. Ma tu, spettatore, ti ritrovi a fissare le sue mani: l’incanto della mudrā è un qualcosa di magico, per chi non ha esperienza. 


È una gioia dei sensi che si rincorrono alla ricerca del significato, un partecipare della mente che sa di poter capire qualcosa, da quella danza delle mani codificata e perfetta. Non lo sai, ma quella mano sul petto ti comunica che lì c’è qualcosa di importante, te lo fa sentire. E quel gesto rotatorio delle mani ti porta a pensare al fluire del suono. Entrano in campo esperienze private, ci si affanna a ricercare l’assonanza tra un linguaggio dei segni conosciuto e l’ignoto: sembra un sordomuto logorroico, ti dice la tua mente. E te ne sorprendi, perché quel che tu credevi semplice suggestione ti viene confermata dalla voce ferma dell’attore:

«Il Kathakali racconta storie sacre a spettatori che, un tempo, erano fedeli; tutto ciò che sulla carta è scritto, l’attore Kathakali lo traduce con le sue mani».


Così come l’equilibrio delle stasi alla fine di ogni partitura danzata, la particolarità del danzare attorno allo sgabello, la ripetitività del gesto: tutto ha un senso, e Barzaghi ce lo regala in una lunga lectio magistralis, tra parole piene di esperienza e movimenti del corpo pieni di energia. Finito il rituale di svestizione, l’attore si racconta come atleta del cuore: l’organicità del suo lavoro, la coscienza del ritmo del respiro, il legame tra questo e la scoperta dei luoghi del sentimento, il valore del dolore nell’apprendistato ("Lo sforzo accompagna per simpatia il respiro", diceva il padre dell’atleta affettivo, Antonin Artuad), la coscienza dell’operatività sul proprio corpo.

«La differenza tra training e allenamento è questa: la lena è il respiro e l’allenamento è il lavoro che io faccio per resistere sotto sforzo e regolarizzare la respirazione. L’arte è un qualcosa che riguarda l’uomo: pensiamo al suffisso AR: lo ritroviamo in molte parole quali Arterie […] è il cuore è il centro di tutto, e la persona deve andare a ritmo col cuore: questo è l’unico modo per persuonare. Bisogna essere accordati (e la parola stessa ci dice che dobbiamo seguire il ritmo del cuore) Tre elementi trovano unione nell’arte del Kahtakali: MASCHERA–PERSONA–ARTE . E il cuore è il centro di tutto».

Ma come ci si accorda con qualcosa che è lontano da noi, con un’arte come questa che nasce e vive al di là del mare? Questa domanda se la pone anche l’atleta del cuore:

«C’è qualcosa che ci colpisce, e che va oltre il desiderio di capire: nel vedere questo personaggio c’è un archetipo che ci colpisce».

Per raccontarci questo archetipo, Barzaghi ci mostra La creazione di Adamo del Michelangelo. Ci ripropone il dito di Dio che sfiora quello di Adamo: la scintilla divina che trova il suo tramite nel contatto tra gli indici (e non a caso l’indice è la summa, il riassunto, è il piccolo che contiene il grande). È un dettaglio indiscreto nella figura, quell’indice che si tende, è un volersi mettere in mostra nell’opera: è ciò che guida lo sguardo e racconta il voler mettere in forma l’uomo per renderlo capace di contenere, senza disperdersi. Allo stesso modo, l’attore Kathakali deve mettere in forma il personaggio. Allo stesso modo, l’attore Kathakali lavora al rapporto figura-dettaglio e al valore che il dettaglio ha.

«Se io devo mettere in forma, il mio allenamento ha un fine e si sforza nell’atto del creare: lo sforzo dell’allievo Kathakali è prolungato perché deve arrivare a raggiungere una forma. Poi l’allenamento servirà per sviluppare quella forma e mantenerla: e così dalla tecnica nascerà la poetica. Prima di fare, devi capire il perché fai. Dove arriverai. Il tuo sforzo poi si apre e si dissolve nell’opera d’arte. Nel Kathakali vediamo il personaggio, nell’opera di Michelangelo vediamo il magnifico: ma in entrambi vi è lo sforzo, la fatica del levare».

Ma alla fine del suo raccontarsi-raccontare, anche per un atleta del cuore come Barzaghi torna, prepotente, la ricerca dell’utilità di tutto questo per un attore:

«Questo lavoro mi ha dato consapevolezza del ritmo, mi ha insegnato a dosare l’uso dell’energia, mi ha portato ad avere coscienza del lavoro espressivo e del rapporto tra spazio-tempo. Tutto questo mi ha aiutato a conoscere il mio livello pre-espressivo. Poi arriverà il passaggio interiore, arriverò a una fase drammaturgica più approfondita. Ancora oggi, cerco di capire cosa posso fare io con tutto questo».

E così ritorna dietro al telo colorato, come un artigiano stanco che nonostante tutto continua a sfregarsi le mani: è in bilico tra oriente e occidente, come ci ricorda il titolo di questa dimostrazione-spettacolo, e con l’occidente vuole terminare, con un occidente di tutto rispetto quale l’Inferno dantesco. 


Racconta la genesi del suo personaggio: un urlatore di versi danteschi che nulla ha a che vedere con i poeti e i fini dicitori, un Dante agens che vive la continua dualità con il Dante poeta e subisce la violenza delle sue aggressioni psicologiche, arrivando a raccontare le visioni e lasciano da parte i personaggi. Si conclude così, questo pomeriggio all’insegna del transculturalismo, all’ombra di Antonin Artuad e sotto la guida di Eugenio Barba: con il sapiente equilibrio tra Est e Ovest.

Teatro dell’Albero - Un atleta del cuore: l’attore in bilico fra oriente e occidente.

Visto a: Trasparenze – Atelier della scena contemporanea (Modena) presso lo spazio Teatro dei Segni il 5 ottobre 2013.

Elvira Scorza