lunedì 27 febbraio 2012

“Sul concetto di volto nel figlio di Dio”: Castellucci a scuola di pop-art

Un candido salottino. Feci che straripano da flaccide natiche senili posticce. Lo sguardo invadente di un Salvator Mundi che non benedice più.
Sul palco del teatro comunale di Casalecchio è di scena Sul concetto di volto nel figlio di Dio. Uno spettacolo firmato Romeo Castellucci in cui, abolita ogni ipotesi di sviluppo dell’azione scenica, un unico gesto sintetico viene reiterato per due volte e mezzo. Cinquanta lunghissimi minuti in cui l’operazione di accudimento fisico di un padre incontinente da parte di un figlio paziente è diluita all’inverosimile.
Il gesto di base si scompone in micro-movimenti molto precisi, dettagliati, realistici. In scena una sfilata di assorbenti igienici, bacinelle d’acqua, camicie da ospedale. Tutto rigorosamente bianco. Bianchi sono anche il divano, il tappeto, il tavolo e perfino il pavimento. A causa della torrenziale incontinenza del padre, l’immacolato e ordinatissimo salottino borghese si trasforma minuto dopo minuto in un reparto sanitario. Dipanandosi da sinistra verso destra, alla ricerca di nuovi spazi puliti in cui evolvere, l’azione vede il progressivo sporcarsi di ogni oggetto.  Le feci incontrollabili e sempre più liquide costringono il giovane, che ha ormai rinunciato persino ai guanti, a ripetere per due volte l’operazione di pulizia. Al reiterarsi per la terza volta dello svuotamento fisico dell’anziano segue un’esplosione di rabbia da parte del figlio e un gesto assolutamente inaspettato: una tanica di materia scura simboleggiante le feci viene riversata direttamente dal padre sul letto ancora pulito.

Da un lato dunque, un reticolo di movimenti che suggerisce un impianto realistico, testimone anche l’odore acre che invade la sala, dall’altro una materia corporale sempre meno credibile e un gesto inspiegabile che orientano lo spettatore in direzione di una lettura simbolica.
A aggiungere confusione a un già ambiguo apparato di segni, un ingigantito Salvator Mundi sullo sfondo, cui il giovane, nel momento di massima disperazione, si rivolge, sfiorandone le enormi labbra in una preghiera sussurrata, cui si aggiunge quella di altre voci che invocano il nome di Gesù. La sala si dilata in un enorme orecchio ove si riversano, accompagnate da un concerto di suoni stridenti messo a punto da Gibbons, tutte le preghiere del mondo.

Interessante il lavoro svolto sulla gigantografia. Tagliate le mani benedicenti presenti nel dipinto originale di Raffaello da Messina, Castellucci zoomma sul volto mettendo in primo piano uno sguardo che invade lo spazio degli spettatori. Capovolgendo il processo tipico della pubblicità, in cui le immagini scivolano sul consumatore distratto, la regia pone lo spettatore in una forzata condizione di osservatore attivo. Attraverso l’ingrandimento e il taglio di alcuni particolari, il volto viene straniato, svincolato dal suo contesto originario e quindi reso espressivo, ossia visibile. È la stessa operazione svolta dai pop-artists (vedi Warhol con l’immagine di Liz Taylor). Castellucci interviene, dunque, non su un contenuto di tipo teologico o religioso ma su un concetto estetico. Lo scopo sembra raggiunto: il Cristo non passa inosservato e il pubblico, sebbene intrappolato in un fuorviante impianto ricettivo sinestetico, non riceve pulsioni effettivamente profonde e è costretto a sviluppare un pensiero.

La preghiera inascoltata del giovane è seguita da un momento visivamente pregnante in cui nel buio, il volto in questione, trasudando materia scura, si lacera e si ritrae, lasciando emergere le parole: “You are my shepard”, “Tu sei il mio pastore”. A luci riaccese, su una scena ormai vuota, avviene il difficoltoso parto, sottolineato da luci intermittenti, di una nuova parola: not. La scritta diviene “You are (not) my shepard”. La certezza della fede viene insidiata dal dubbio.

Nulla di nuovo sotto il cielo. Lo spettacolo non aggiunge niente a una consapevolezza già acquisita da secoli sulla condizione umana e sull’incertezza della fede che tocca qualsiasi credente.
Al di là dell’innegabile resa visiva e dell’interessante riflessione concettuale sul volto del Cristo, Castellucci ha costruito uno spettacolo che rivela punti deboli sia nei contenuti, che non mostrano alcuna innovazione, sia nella struttura registica, come si è visto, poco omogenea.

Si aggiunga, infine, che l’ossessivo tentativo di mettere in scena la quotidianità così come essa si presenta, rischia, come avviene per questo spettacolo, di sottrarre all’arte la possibilità di costruire dimensioni parallele che forniscano una chiave d’accesso più profonda alla realtà.

Rossella Menna

mercoledì 22 febbraio 2012

Cerimonie teatrali. Intervista a Lorenzo Gleijeses

A inaugurare la serie di workshop che la Soffitta dedica agli studenti del Dms di questa stagione, Lorenzo Gleijeses. Figlio d'arte, ha alle spalle un percorso formativo autonomo e indipendente rispetto alle sue origini teatrali, fatto di incontri  e collaborazioni con  maestri internazionali come Lindsay Kemp, Eimuntas Nekrosius, Yoshi Oida, Eugenio Barba, il Workcenter di Jerzy Grotowski, Augusto Omolù, Michele Di Stefano/mk.
Al pubblico della Soffitta ha presentato Cerimonia, di cui ha curato la regia e la drammaturgia. Lo abbiamo incontrato per parlare di questa sua ultima creazione.

 Come nasce Cerimonia?

Sentivo l'esigenza, come mi succede ciclicamente, di creare un mio nuovo spettacolo e stavo leggendo diversi testi alla ricerca di un'ispirazione. Tra questi, ho incontrato Cerimonia per un negro assassinato di Fernando Arrabal che racconta di tre persone che, per non sentire quello che succede fuori, si chiudono in una stanza e giocano a fare teatro. Le voci dall'esterno li infastidiscono perché stanno creando uno spettacolo in cui credono molto, anche se non sono professionisti. Giocano con i testi, si improvvisano costumisti, scenografi, registi, sicuri delle loro capacità. Immaginano il teatro come la terra di Utopia, in cui rifugiarsi da quello che li disturba e non li fa star bene. Questa è l'immagine che io ho catturato da questo testo e in cui riconosco me stesso. Mi piace utilizzare i materiali performativi per scappare dalla realtà.

Cosa dovrebbe fare un attore oggi per definirsi tale? Ritrovare una dimensione del teatro fanciullesca, come fosse un gioco?

Non esiste un'unica ricetta per essere attori. C'è chi lavora più con un' immaginazione visiva, altri partono dal movimento, altri dalla parola, e anche quando hai un certo tipo di formazione finisce che poi prendi un'altra strada, creandoti una cifra personale, arrivando anche a frutti totalmente diversi. Una grande rigidità può aiutarti a essere estremamente libero. Io, durante il processo di prove, uso un metodo molto rigido ed è una rigidità che si riscontra nei miei movimenti che sono molto studiati, eppure, allo stesso tempo, si percepisce il contrario. Uno deve crearsi una propria disciplina, un proprio training che potrà anche dare dei frutti molto diversi rispetto al punto di partenza

 Qual è la sua, di formazione?

Io ho deciso di non fare accademie ma di fare una scuola perenne. Quasi tutti i miei progetti nascono in ambito di studio con maestri che amo molto e che mi aiutano a crescere. Julia Varley diceva sempre che si impara a fare l'attore lavorando sulle tavole del palcoscenico e facendo spettacoli

 Le sue sperimentazioni si rivolgono a un certo pubblico o sono fini a se stesse?

Non voglio che tutti gli spettatori si riconoscano in me o nella mia biografia, anzi è come se usassi la via inversa. Non definisco il personaggio nei suoi caratteri e nelle sue azioni, ma metto in scena qualche cosa che mi ossessiona, che mi interessa guardare e lo lascio il più aperto possibile: lo definisco secondo criteri di realtà e regole che sottostanno anche al ragionamento teatrale dello spettatore, altrimenti non ci sarebbe una simbiosi con lo spettacolo. Allo stesso tempo, però, lascio un'apertura che permetta allo spettatore di trovare un punto di identificazione, una tematica che fa parte della sua vita.

Anche per Cerimonia il punto di partenza è stata l'ossessione?

Sì, ed erano queste tre persone, chiuse in una casa, che evadono in un' utopia attraverso materiali teatrali. Ho iniziato da questo, ho messo sotto la lente d'ingrandimento questa situazione. ho creato materiali che avevano a che fare con questo stato e poi li ho uniti insieme. Ma è nell'incontro con il pubblico che ho cominciato a razionalizzare e a associare i possibili significati di questo lavoro.

Cosa vuol dire per lei fare teatro?

Intendo in vari modi il teatro. Non è detto che se fai sperimentazione fai teatro e se non la fai non fai teatro. Nel momento in cui faccio un anno di prove, ripetendo lo spettacolo una o due volte al giorno e poi non mi viene a vedere nessuno, comincia a mancarmi un confronto con un testo, con l'essere imbrigliato all'interno delle parole, con il salire sul palcoscenico per recitare una parte, come faccio nel Principe di Homburg con la regia di Cesare Lievi, e il fatto di confrontarmi con una platea di mille persone è una sensazione potentissima per me. Anche in questo modo di fare teatro, se lo si fa in maniera sincera, ci può essere un qualcosa di totalmente vero, reale.

Cosa vuol dire allora fare sperimentazione oggi?

Secondo me si può fare una grande sperimentazione giorno per giorno partendo anche da mezzi tecnici tradizionali. Tutti i grandi che oggi sono consideratila tradizione” erano degli innovatori. Anche un attore tradizionale può esserlo, tentando di superare ogni giorno un ostacolo. Questo è sperimentare per me. Mi rendo conto che c'è un coefficiente di sperimentazione maggiore in uno spettacolo come Cerimonia rispetto al Principe di Homburg, ma anche un personaggio come Homburg diventa sperimentazione nel momento in cui un attore ci lavora con il proprio stile interpretativo.

Come ha organizzato il workshop presso il centro La Soffitta?

Tutto dipende dai ragazzi che troverò. Sicuramente li farò camminare nello spazio perché da si capisce molto. Li vorrei far lavorare su tante cose, partendo sia da un'ottica più vicina a quella coreografica sia da una logica interpretativa. Ho chiesto infatti di portare testi su cui studieremo. Vorrei ricreare un'alchimia, come per il pubblico: a volte nasce empatia, altre volte meno e altre volte non nasce affatto. E' una questione sempre diversa: è uno specchio davanti a uno specchio.



Selene Venticinque
Carolina Ciccarelli