mercoledì 26 dicembre 2012

Seppure voleste colpire: politica-mente Latini.


Simona Bertozzi è corpo. Elena Bucci è anima. Elena de Carolis è mente. Giancarlo Ilari è ricordo. Savinio Paperella è stomaco. Marco sgrosso è bocca. Roberto Latini è voce. E ciascuno, a suo modo, riesce a colpire quel che è.

Uomini e donne dal ventre fittizio seduti su semplici sedie nere, probabilmente di plastica. Sipario a led dai possibili mille colori e al centro nulla. Tra le mani lo spettatore si ritrova un foglietto di scena. Si legge che il tutto si svolge “[…]nella semplicità dello stare, non di fronte a voi, ma insieme”.

Può bastare questo rigo a dare giustizia allo spettacolo Seppure voleste colpire, andato in scena ai Teatri di Vita il 14 e 15 dicembre? Può bastare allo spettatore che si chiede fino alla fine il perché di quelle pance posticce su quei corpi placidamente seduti, sapere che è Roberto Latini, il regista, il primo a chiarire come il tutto non è uno spettacolo, non vuole avere la coscienza di esserlo, non ne vuole avere il fine né lo scopo ma che il tutto è semplicemente qualcosa che accade?
Seppur voleste, supposizione che mette in dubbio non solo la possibilità, ma ancor prima il volere del fare, la forza con cui si agisce, il perché che guida il nostro vivere. Colpire, allo stomaco. Ti senti colpire a livello viscerale solo se permetti alle forze in gioco di lasciare un segno sul tuo corpo: e allora forse assume significato quel pancione indossato in scena dagli attori, una metonimia del lasciarsi colpire, del lasciarsi toccare e del saper colpire, del saper toccare. O forse quel pancione è una barriera, un giubbotto antiproiettile che finge una dilatazione del bersaglio celando l’insensibilità del punto stesso. Ma poi, è così importante chiedersi fino alla fine il perché? Perché in principio è una voce quella che ci prende allo stomaco, ci butta dentro mentre braccia nel buio eseguono movimenti non confusi né ordinati? Perché gli altri “stanno a guardare” mentre un loro compagno acquista il centro, e inizia ad agire con la voce, con il corpo? Ricerche poetiche vivono in dialetti gutturali che giocano con sapienti movimenti fisici, accompagnati da un calice di vino. Perché subito dopo arriva Ismene a urlare in faccia ai sapienti che la morte di Antigone è il canto di odio verso la vita solo apparentemente giustificato dall’amore fraterno, e lo fa in piedi, su un tavolo ricoperto di terra?

“Paura, attesa, ansia…austerità che moltiplica la distanza tra me e me...”

Perché io spettatore non posso fare a meno di pensare alla terra che tutto copre e al flusso del vino che tutto oscura. Non ci dev’essere risposta certa a quel che si può semplicemente sentire. Il corpo di Simona Bertozzi trascina in apnea la platea: nella sua presenza, sapiente e drammatica, ci fa sentire astanti inermi, spettatori crudeli che osservano un ammasso di carne contorcersi alla ricerca della voce e del respiro.

“...Poi gli chiesi di dirmi con gli occhi se voleva chiedermi qualcosa.”

Arriva una panchina e il corpo si placa, la voce si quieta nel fischio, nel richiamo. Due persone che danno da mangiare ai piccioni. L’anziano fischia meglio del giovane, più a lungo, più forte. Poi iniziano a mangiare loro stessi dal cartoccio che tengono fra le mani: mangiano quello che stanno buttando a terra, si ingozzano voraci finché non arrivano i piccioni, finché non si rendono conto che proteggono, sigillano, nascondono fra le mani quello che poco prima senza problemi concedevano ad animali che non li degnavano della loro presenza. Il verso del volatile libera l’uomo dalla sua ossessione, dal suo buttarsi a terra e mettersi in bocca quello che finora calpestava. E libera gli spettatori dell’ultima risata.
La donna che riconquista la femminilità nel procurare piacere attraverso il dolore, prestandosi al gioco masochista di chi la paga per soddisfare le sue voglie più o meno perverse senza sapere che attraverso queste è lei, libera di flagellare, la vera cliente. È lei che prende a schiaffi i suoi ricordi, i suoi dolori, i suoi uomini che tutto le hanno chiesto, tutto le hanno imposto. Lei che tutto ha mandato giù, nel parlare sboccata di come il contatto con quel corpo le riempie l’anima si prepara a uscire dalla sua quotidiana rivincita, per ripiombare nella fossa comune. Nel frattempo c’è spazio anche per Čechov: il vecchio Vasilij Vasil’ ic scruta pensando alla fossa oscura della platea che corrode la vita di coloro che le dedicano le ore migliori, mentre il caro Nikita, con voce meccanica e nasale, lo abbandona alla sua solitudine, senza piangere al suo fianco. E torna la forza della voce, del canto, nell’immagine della Zaira che vive senza regole ingorda di vita, ingorda di spazi da riempire, per non fare la fine del povero gufo che preferiva vivere senza un centimetro di spazio in cui muoversi, pur di non provare la paura della solitudine. E intanto si invoca a gran voce l’amore (perduto? lontano?) in mezzo al caos, in mezzo alle macerie, in mezzo alle rovine. Se qualcosa è rimasto, vuol dire che qualcos’altro si è distrutto. E se qualcosa si è distrutto, vuol dire che qualcos’altro ha colpito.
Alla fine si gioca a golf. Si colpisce una pallina mentre si ride, leggeri. Anzi no. Non è una sola la pallina, si lascia scorrere sullo spazio illuminato della scena rotolanti corpi bianchi da centrare con mazze da golf. Una di quelle mazze serviva da appoggio all’entrata iniziale di Latini, una di quelle mazze era stata lasciata li, in scena, come una spada da cavaliere, e poi subito portata via. Adesso tutti hanno un qualcosa da colpire con un qualcosa che colpisce. Basta solo volerlo.
Elvira Scorza

mercoledì 5 dicembre 2012

Eva Robin’s, un fantasma retrò per Copi


I fantasmi esistono. Vuoti, assenze e appuntamenti. Si parla a vuoto. Andare ma non evadere, dire e non dire.
Eva Robin’s, nome d’arte di Roberto Coatti  dal personaggio di Eva Kant e dal cognome dello scrittore Harold Robbins, interpreta Il Frigo, monologo di Copi, scrittore e fumettista franco-argentino, per la regia di Andrea Adriatico martedì 20 e mercoledì 21 novembre ai Teatri di Vita. Eva rappresenta i due sessi e la loro incomunicabilità. Eccentrica per natura, naturalmente esibizionista del suo corpo misto. Transessuale in transito, forse in transito o forse non si muoverà mai. Rispecchia in pieno la filosofia dei Teatri di Vita: “Teatro d’innovazione in cerca di stabilità”, o forse no. Istrionica e plateale nella vita e sulla scena. Il regista, Andrea Adriatico, riporta in scena Copi “con gli umori di oggi” per l’ottavo anno di repliche. Una Eva biblica tra peccato e santità, estranea alla vicenda e, allo stesso modo, partecipe. Partecipa ai lutti, agli stupri, ai monologhi tra gli Altri da sé. Straniera, diversa, estranea in casa propria. I personaggi che interpreta, proiezioni della sua stessa figura, fanno e affermano cose che non coincidono, non riescono a comunicare tra loro e recidivamente si ripetono intrattenendo rapporti di dipendenza patologici. Un impulso irrefrenabile a parlare di tutto e di niente. “Il silenzio è impossibile”. Si dice e si nega subito dopo, si denuncia una violenza e si acconsente subito dopo.
Cucina, letto, pranzo, soggiorno. Quando lo spettatore entra in sala trova una planimetria schematica, essenziale e tridimensionale per quei pochi oggetti: una sedia rossa postmoderna, un telefono alla Cocteau, un campanello da pascolo e l’immancabile frigo. Un telefono che riesuma Cocteau con quel filo che si fa spartiacque tra fiume e riva. La protagonista L. è seduta immobile e non ricorda il suo nome. Luci assordanti che disturbano ma non turbano, passi veloci e trascinati, voci alterate e pose plastiche. Suona il telefono. Bussano alla porta. Adriatico costruisce una realtà plastica e immateriale, talmente realistica, pensata e progettata da risultare usa e getta. Una storia di stupri e violenze subiti e inventati. Una carta da parati psichedelica e una grande abilità nel cambiarsi d’abito e di voce. Eva, taciturna, posa lo sguardo su un punto cieco e aspetta a parlare finché l’ultimo spettatore si sia accomodato. Poi, a porte chiuse, un flusso di parole e pause. Piatti rotti, squilli, violenze scandiscono la dimensione del non tempo di cui è prigioniera. Niente scale, niente ascensore, nessuna via d’uscita. Aspetta il momento giusto per scrivere le sue memorie. Ogni giorno puntualmente violentata dal custode e infastidita dalla serva dà vita al suo doppio maschile in abito nero con baffi alla Chaplin, alla madre egoista che si fa viva per appuntamento e si riempie la bocca di soldi e gigolò, alla serva che, con la sua sciatta seducente grettezza, la pugnale alle spalle, al topo con gli occhi azzurri, alla psicanalista che altro non è che una bambola gonfiabile con una noce di cocco piumata per cappello. Intrattiene rapporti di amore estremo e selvaggio. Il sesso, l’incesto, il proibito per legge e natura è quel filo che tiene insieme i rapporti tra i personaggi. 
Una esuberante e timida Eva Robins, sobria e brilla, androgina e transessuale, sana e insana. Ermafrodita e nuda si svela agli occhi indiscreti del pubblico in una veste trasparente di piume che non lascia spazio alla fantasia sui due sessi. Metà donna e metà uomo. Sprovvista di metafore. In preda a uno schizofrenico travestitismo, fino a raggiungere le sembianze di un cane incontinente. Uomini che a più riprese bussano alla sua porta e abusano di lei con il suo tacito consenso. Urla di piacere. Gli spettatori rispondono all’ironia e si mostrano divertiti e partecipi. Una pentola al quarzo esplode. Luci spente. Si vuole pungolare lo spettatore nel sonno a cui induce la poltrona comoda del teatro. Si vuole una reazione fisica e intenzionale. Eva è disturbata emotivamente e sessualmente. Un fantasma retrò, sodomita incallita, baffuto masochista con una domanda in fondo all’anima: “Chi sono?” e una risposta: “Non usciremo mai di qua. Mai, mai, mai”. Una dura prova d’attore per Eva Robin’s che davanti a due disturbatori/molestatori dal pubblico non si fa intimidire ma continua imperterrita. I loro interventi si sovrappongono alle battute di L. I due “eroi da palcoscenico” si alzano in piedi e, a passi pesanti, si spostano in prima fila continuando a parlare e applaudire. Una dei due è una donna con accento anglosassone che comincia a filmare spettacolo e spettatore accanto. Una pazza rinchiusa in casa con un frigo misterioso in soggiorno. Un regalo della madre? Quel frigo che viene quasi aperto ma un urlo interrompe tutto. Cosa contiene il frigo di Copi? Il cadavere della madre? Un ascensore? Una cassaforte dove rinchiudere gli o/errori della vita, i ricordi di un passato mai vissuto veramente, di un presente sbagliato e di un futuro incerto. Il frigo diventa, nelle intenzioni di L., una tomba da seppellire in fondo alla terra insieme alle ceneri del padre morto da tempo. Una sola certezza: L. è prigioniera di quel rifugio che è la sua casa, vittima della solitudine e di quel frigo.
"Cosa aspettate? Nel Frigo spuntato nel salotto di Eva Robin's c'è posto anche per voi. Tra un cane incontinente e un topo innamorato...”
                                                                                                                              Angela Grasso

L’omosessuale mutilato di Copi


Oltre il sipario, quello dell’incomunicabilità, c’è altro rispetto a noi. La differenza è un tabù. La diffidenza di un uomo scuro sul palco ci intimorisce. La difficoltà a esprimersi di quest’ultimo rende l’aria pesante. Quello sguardo da deus ex machina affetta l’aria. Il pregiudizio si esprime a sguardi. Una scena spoglia. Luci accese. Da una porta aperta si affaccia un albero che segna il tempo con il cadere delle foglie. Il freddo della Siberia entra e raggela le ossa.  Improvvisamente l’aria si fa volubile. Soffia il cielo. Suona “Mèlocoton” di Colette Magny che scandisce il non-tempo e guida i personaggi in un andirivieni ossessivo compulsivo. Trascinano strascicanti un telo bianco come fosse la steppa siberiana: Irina, la figlia, e Mme Simpson, la madre. Sistemano teli e secchielli. Si sdraiano e fingono di prendere il sole. “J’en sais rien; viens, donne-moi la main”. Si afferrano per mano seguendo alla lettera ciò che dice la canzone. E allora, “Non lo so, vieni, dammi la tua mano”.

L’omosessuale o la difficoltà di esprimersi, commedia tragica di Copi  riletta da Andrea Adriatico per Teatri di Vita. Deformazione e parodia di una realtà, quella di Copi, che rispecchia tuttavia la nostra di oggi. Irina, nella realtà Anna Amadori, e Mme Simpson, la Madre ovvero Olga Durano, immaginano il mare. Finto, non solo quello. Giocano sui loro sessi operati, confondono chi ascolta e mentono spudoratamente.  Si alternano cambi di sesso volontari e obbligati. A completare il trittico la signora Garbo, interpretata da una camaleontica Eva Robin’s, avvenente insegnante di pianoforte. Una transgender dai due sessi strizzati in costume adamitico. Corpo di donna e sesso di uomo. “Ci sono delle circostanze e lei, signora Simpson, lo sa meglio di me, in cui non si può fare a meno di essere sinceri” è la signora Garbo che si dichiara a Irina. Ma, l’apparente sincerità si nasconde dietro una immancabile bugia. C’è sempre quel gioco tremendo del detto, un attimo prima, e negato, subito dopo. Dire e non dire, avere voglia di andare e non muoversi. Irina è una vittima contesa tra le attenzioni  disturbate della madre e del maestro di pianoforte, entrambi con un “pene assolutamente autentico”. Una non storia, uno scherzo del destino. Uomo e donna si nasce e si diventa. L’orientamento sessuale non ha categorie. Irina nasconde un’anima virile in un involucro femminile. Possiede una borsetta, simbolo della vagina, di cui smarrisce catena e lucchetto. Mme Simpson e la signora Garbo, figure genitoriali atipiche, gestiscono con la figlia un rapporto di cure e premure, tipicamente materno, con un’attenzione sessuale incestuosa. Di certo non è amore incondizionato. Adriatico gioca con i fuori campo e sfrutta lo spazio scenico in tutte le sue dimensioni: il dentro e fuori, il sopra e sotto, la platea e i ballatoi dei macchinisti.

Siberia, luogo di aborto e confessioni, dove “la difficoltà a esprimersi ha l’immagine atroce delle mutilazioni: fisiche, umane e sociali”. Siberia è la terra che dorme. La steppa siberiana è minacciata dai lupi, simboli del vigore maschile. Copi si diverte a cancellare le identità virili. Lo Zio Pierre e il dottor Feydeau sono fantomatici fantasmi, presenze di assenze. Il generale Puškin e l’ufficiale Garbenko vengono castrati del pene per peni ben più grandi. La sofisticata signora Garbo propone di fuggire in Cina, luogo contrapposto alla Siberia e patria della verità. Irina e la madre dormono, bevono il Mirabel, ruttano, si puliscono denti e lingua, scappano, si tengono per mano, confessano i loro segreti più intimi e autolesionisti. Come burattini intrappolati in una capanna. Ricordano vagamente i Didi e Gogo di “Aspettando Godot”. Per questi ultimi non esiste un “altrove” al di là delle quinte. Per Irina, la madre, la signora Garbo, il generale Puškin e l’ufficiale Garbenko  è pensato un “altrove”  ma, per loro singolare scelta, non si allontanano mai dai quaranta gradi sotto zero come attratti da una forza centripeta esercitata da quell’albero. La capanna è rifugio dall’assedio dei  lupi, da quel “fuori” che inquieta. Il rifugio si trasforma in lager e si manifesta una logica spietata: il “dentro” protegge diventando pure luogo di follia e perdizione. “Fuori” e “dentro” si consumano a vicenda.
Irina e i due amanti-genitori sono vittime di Edipo. Madre è una madre fallica che non ha chiarito a Irina il tabù dell’incesto. Irina si ciuccia il dito, sintomo di un narcisismo primario. Mente senza pudore come intrappolata nel “circolo vizioso delle bugie”. Suona il pianoforte e si rompe il mignolo, cade dalle scale e si rompe una gamba, è incinta e caga il feto in un secchiello da mare, tiene un topo in gabbia per poi infilarlo nell’ano. Soggetto represso sessualmente e oggetto delle critiche della madre. Portatrice sana di sadomasochismo che la fa regredire allo stadio anale. Irina soffre di una sessualità disturbata. Dice bugie allo scopo di ricevere attenzioni e punizioni. Ottiene solo un interrogatorio e cure opprimenti che castrano la sua virilità. Irina si taglia la lingua: forma di protesta di un cervello pensante, di una voce sincopata e di un sesso operato. Sanguina e sviene. Di Irina rimane solo un corpo mutilato, un martire di guerra. Dall’alto piovono come missili finocchi da insalata. I personaggi si accasciano per terra. L’uomo nero li avvolge con il telo bianco. La guerra è finita. Immobili. Luci soffuse.
Qual è la verità di questo inganno? Sullo sfondo musicale di un Modugno rassegnato, Adriatico sembra citare il Pasolini nel drammatico “Otello”. "Perché dobbiamo essere così diversi da come ci crediamo?" è la domanda di Otello alla quale risponde, nelle vesti di Jago, un Totò dalla faccia verde: "Noi siamo in un sogno dentro un sogno". Un sogno rosa, dove tutto è rosa. Dove non si muore a quindici anni per pregiudizio. Dove essere diverso non è una colpa. Un sogno è quella verità che si sente dentro ma non bisogna nominarla perché, se lo si fa, svanisce.
                                                                                                         Angela Grasso

lunedì 12 novembre 2012

Reality: la storia di una superstite del quotidiano


Vivere e dimenticare. Dimenticare e riafferrare le briglie di un destino annullato, per portare  alla luce una teatralità casereccia, tessuta in casa, tra una poltrona e un tavolo da pranzo.
Ingombranti riflettori in scena mettono in luce la storia vera di una superstite del quotidiano, vissuta in casa per una vita intera; tavolino, poltrona e sedie per raccontare le sorti di una donna che muore per strada di infarto, in un non lontano anno duemila.
Comincia da qui il racconto delle vicende di Janina Turek, casalinga croata, che ha annotato minuziosamente i dati della sua vita, dagli incontri casuali ai pasti giornalieri. Una vita registrata in 738 diari. Cinquant’anni di vissuto nella Polonia assediata, durante tutto il Novecento.
Il silenzio di una vita abitata tra le righe di un quadernetto, portato in scena ai Teatri di Vita sabato 10 novembre.
Con una giacchetta blu, la gonna a fiori stile anni Quaranta lei e un completo sportivo d’oggi lui, Daria Deflorian e Antonio Tagliarini si alternano il testimone per teatralizzare l’esistenza enigmatica di una donna e le sue abitudini, emerse per ragionamenti, incroci di intuizioni e date, fatti accaduti e appuntati, catalogati, nascosti e ritrovati dalla figlia solo dopo la morte della donna. Un curioso caso che ha trovato notorietà postuma grazie al giornalista russo Mariusz Szczygiel che l'ha descritta con passione nel libro che dà il nome allo spettacolo: Reality.
I due attori si accostano alla verità per raccontarla dall’esterno senza giudicare, si calano nella parte senza pretesa di verisimiglianza: mostrare la realtà con la finzione. Un’immedesimazione che li porta a immaginare cosa pensava poco prima di morire, come era caduta a terra, cosa portava nel sacchetto della spesa e se qualcuno si fosse fermato quando l’hanno vista sull’asfalto accasciata.
Gli oggetti in scena, dalla tazza di vetro ai fiori in plastica, sono posizionati e accantonati per ri-costruire il quotidiano: ancora una volta la finzione per raccontare una verità.
Si legge di una donna incinta, un marito in carcere, e la fulminante idea – venuta davanti lo zerbino di casa - di scrivere un diario.
2 gennaio 1956: caffè a Cracovia; 14 dicembre 1976: riscaldamento nella Chiesa di Cracovia; 16 settembre 1957: prima colazione senza il marito, se n’è andato.
Si srotolano le date di una vita, condivisa dallo spettatore che quasi sente addosso la polacchità, favorita agli occhi dal biondo-Deflorian e i tratti somatici che rievocano il sapore dell’est Europa.
Janina invecchia, la gobba, le mani rosicchiate. Diminuiscono le persone che incontra, aumentano l’elenco dei programmi tv visti, le cartoline che si auto-invia.
“Vivo o faccio finta di vivere?” – scrive una volta.
Perché Janina Turek annota una vita intera? Potrebbe essere l’urlo di solitudine della donna? Perché nasconderlo?
“Sentirsi come in una danza balinese ballata con una maschera, nascosta dietro a un telo. Cosa è visibile?”.

Angela Sciavilla

domenica 11 novembre 2012

Comicità tradizionale giapponese: il Maestro Sanyūtei Ryūraku ai Laboratori delle Arti


Un pannello bianco come fondale, un tavolo coperto da un panno nero e uno arancione, un’atmosfera dal sapore euroasiano: i Laboratori delle Arti rievocano, in parte, l’ambientazione del Raguko, spiegata  da un sorridente Maestro Sanyūtei Ryūraku, esperto nella tradizionale arte della narrazione giapponese, il wagei.
foto di Eleonora Rossi
Il laboratorio, organizzato da CIMES, Centro di Musica e Spettacolo, propone a quindici studenti la possibilità di introdursi negli insegnamenti di base del Raguko, per tutta la giornata, fino alle 18 in cui si potrà assistere a una dimostrazione/spettacolo tenuta dal Maestro in persona.
Indossa un kimono scuro, un soprabito delle stesse tonalità (hahorì) e si inchina di fronte ai ragazzi incuriositi, che scrutano in silenzio. Si inginocchia su un cuscino (zabuton), estrae dal kimono un ventaglio, il sensu e un piccolo asciugamano rettangolare stampato, il tenugui. Con solo questi elementi in scena, il Sensei riesce a ricreare brevi racconti, che si avvicendano anche in diversi ambienti.
Il segreto sta nella mimica facciale e nell’abilità del corpo e delle mani. I gesti sono esagerati, non naturali, per far capire allo spettatore cosa l’attore rappresenti o quale sia l’ambientazione. Movimenti calibrati per non intralciare la narrazione stessa.
Si raccontano spesso scenette comiche tra artigiani e servitori; le storie terminano tutte con l’ochi, in italiano è la caduta, in inglese si potrebbe definire con punchline, una frase che ti colpisce come un pugno, un colpo comico e inaspettato,  riducibile ad una sola battuta.
foto di Eleonora Rossi
Per far capire, il Maestro inscena una tipica performance di Raguko, intitolata Nabe (la tradizionale pentola giapponese usata per cuocere il riso).
La storia narra le vicende di un garzone e del suo padrone. Il garzone viene colto in flagrante mentre mangia un piatto di squisiti fagioli dalla pentola, nabe, e per questo cacciatoIl padrone poi, cade nello stesso vizio dell’inserviente, e per non farsi scoprire da questo, si nasconde in bagno onde evitare la magra figura. Al ritorno il garzone, approfitta dell’assenza del padrone per servirsi un altro piatto, e anch’esso, per non farsi scoprire, va a nascondersi in bagno. Chi c’è lì? Il padrone! Il garzone, si giustifica frettolosamente: “Vi ho portato il bis, signore!”
Gli studenti applaudono compiaciuti.
Dopo una parte introduttiva di esposizione tecnica del Raguko con la sua etichetta, il Sensei ha chiesto un volontario tra i ragazzi per provare qualche movimento.
Con modi gentili e un fare accomodante ha spiegato come, prima del movimento, ci sia l’intenzione: immaginare l’oggetto prima di farlo vedere, calibrare il movimento secondo il suo peso e agire.
L’obiettivo della giornata è mettere in scena tre soli movimenti: scoperchiare la pentola di fagioli, servirsi col cucchiaio e mangiare dal piatto con le bacchette.
Dopo la pausa pranzo, i ragazzi entreranno in azione. Riuscirà il Maestro nel proprio intento?

Tommaso Monaci
Angela Sciavilla

Riflessioni a caldo: quando si ride a suon di ventaglio e fazzoletto


Nel Rakugo la scena è un cubo coperto di tela nera su cui si adagiano un cuscino (zabuton), un ventaglio (sensu) e un tenugui, un fazzoletto di stoffa. Tutto il resto è sapiente energia nei movimenti, calibrazione naturale di gesti quotidiani magicamente resi nel nulla e spettatore che immagina; basta un movimento diverso degli occhi, una mano che si alza troppo velocemente o un gesto affrettato a distruggere l’immagine che il pubblico deve farsi di ciò che è la scena, di ciò che è presente sotto i suoi occhi. Questo è essenziale: se lo spettatore non si presta totalmente a guardare e da qui a immaginare, l’arte del Rakugo si spegne, perché “Il maestro si mette nelle vostre mani”.
foto di Eleonora Rossi
Potranno mai i nostri occhi, squadrati dall’ossessione della visione scenica, permettere a quest’arte millenaria di esistere nel nostro piccolo microcosmo occidentale? Sì, lo hanno fatto giovedì otto novembre ai Laboratori delle Arti. L’impensabile naturalezza del gesto del maestro Sanyūtei Ryūraku  ha dato vita, sotto ai nostri occhi, a scene invocanti un riso che non ha confini: figli che si divertono alle spalle dei padri e combinano guai, servi che contraddicono gli ordini dei padroni, tipi calmi e riflessivi o eccitati e sempre attivi. Tutto vive grazie al sensu e al tenugui, tutto vive grazie all’arte che li muove trasformandoli, permettendoci di vedere ora un cucchiaio di legno, ora una pipa con il porta tabacco, ora un portafoglio gelosamente custodito. Gli occhi seguono le azioni e le orecchie si incantano alla sottile musica dello shamisen, un liuto a tre corde con un suono simile al banjo. 
foto di Eleonora Rossi
I passi di un fantasma o le allegre passeggiate di un visitatore dei quartieri “vivi” della città si distinguono sulle corde dell’antico strumento giapponese ma non dimentichiamo che ogni attore di Rakugo ha una sua melodia, composta appositamente per accompagnare i suoi gesti e suonata al suo ingresso: quella del Maestro Sanyūtei Ryūraku  rappresenta lo scorrere dell’acqua del fiume e si lega al suo nome, alla piacevolezza e alla forza che in esso vivono. Il tutto crea una comicità che non ha problemi a tradursi in italiano, così come noi spettatori non abbiamo problemi a cogliere l’eternità dell’arte del Rakugo nelle sonorità magiche della lingua giapponese e dei suoi topoi narrativi: chi resiste all’abbandono dei sensi ascoltando il suono dello shamisen nel raccontare, pura musica, l’amata speranzosa nell’arrivo della pioggia che impedisca all’amato di abbandonarla? Racconti che arrivano da tempi e luoghi lontani ma così vicini al nostro spirito da farci ridere di cuore.

Elvira Scorza

venerdì 9 novembre 2012

Prove aperte di “Con Rabbia di Gioia”. Entriamo nel laboratorio di Marco Galignano

Una narrazione-animata: così recitano le note di regia. Ovvero in scena c’è un attore solo, ma i ruoli sono almeno cinque. La scenografia è una semplice sedia bianca, ma le location variano continuamente: la scuola, la chiesa, la casa in campagna. I personaggi eterei del racconto di Marco Galignano prendono forma attraverso la voce stramba del protagonista, quella buffa di suo fratello, attraverso quella dolce della ragazza e quella suina della direttrice; gli crea un vestito su misura e come per magia si materializzano caratteri diversi ricolmi di anima. È una voce che balla al ritmo dei sentimenti. È un virtuosismo studiato, ricercato e di altri tempi: quello degli attori che hanno contribuito a fare grande il teatro italiano.

 


L’attore-performer, regista, drammaturgo e studioso Marco Galignano apre le porte alle sue nuove prove di Con Rabbia di Gioia presso la struttura Ca’Shin in località Parco Cavaioni a Bologna. “È un testo di qualche anno fa – ci dice il performer – ma la voglia di riprendere la scena è tutta nuova”. Assistiamo quindi allo studio tenace e appassionato di un professionista che si spalanca sulla vita di un ragazzo e dei suoi sogni infranti dal confronto con il mondo adulto con il quale dovrà fare i conti.

Il tono intimo con il quale il regista riesce ad attaccare alla storia gli astanti è potente. Si assiste a un lavoro di artigianato che lima, smussa, pialla, aggiusta e ricompone voce, corpo e anima di tutti, non solo dei personaggi.

Questo era solo un assaggio. Le prove, infatti, sono state l’unica possibilità per Bologna, al momento, di partecipare all’opera di Marco Galignano che debutterà domenica 11 Novembre a il Cortile spazioindipendente a Lugano.

Josella Calantropo

Note di regia

Filosofia, politica, fede religiosa, amore e necessità vorticano attorno alla vita di un ragazzo, destinato ad entrare nel mondo reale (adulto e quotidiano) rinunciando al sogno giovanile di una vita idilliaca e gioiosa. Perché la trasposizione dei sogni di libertà giovanile che avviene nel nostro mondo secco e limitato di persone cresciute conduce inevitabilmente, pare, alla lotta politica, alla presa di posizione filosofica, al fideismo religioso o all’ateismo noncurante di compromesso… a tutto, tranne che alla realizzazione dei nostri sogni.

Uno strano ossimoro. Una voce che cerca, si sforma, si esalta, strilla, insulta, piange, vuole, gioisce, prega, si tende al chiarore sognato o sprezzato dell’inconoscibile, al mistero del sacro. Una realtà diversa, quella intima, disvelata, disgelata.

Le parole innocenti che si dispiegano nel racconto cercano, con rabbia di gioia, di vedere attraverso il filtro di quella che in mancanza di altre parole chiamiamo anima. Parlerà la voce multiforme di uno di noi: un sognatore, un predatore, un idealista, un peccatore, un misero, a volte distrutto, normale essere umano.

Le grottesche, spasmodicamente ridicole o toccanti figure del racconto ci suggeriranno come gli altri, a volte, ci vedono realmente, mentre il malcapitato narratore tenterà con difficoltà di perseguire un illuminante o composto senso di realtà. Ma la differenza tra il nostro mondo interiore, a volte sofferto, e la confusione miscellanea del mondo esterno è troppo asfissiante e il narratore…

Marco Galignano                                                         

Autore, regista e attore e ricercatore.

Si perfeziona come attore con Emilia Romagna Teatro e nel frattempo persegue una lunga, intensa e diversificata formazione, per lo più da autodidatta, o scegliendo, di volta in volta, i contributi di pedagogia: teatro classico e teatro sperimentale, sport e sport estremi, danza (classica, jazz, contemporanea, hip-hop) e studi scientifici teorici e pratici sul corpo umano e sulla vocalità. Negli anni studia o collabora con importanti personalità o realtà di gruppo, artistiche e scientifiche, tra cui: Imke Buchholz, Teri Jeanette Weikel, Compagnia Valdoca di Cesare Ronconi e Mariangela Gualtieri (con Silvia Lodi, Catia Della Muta, ecc.), Renata Molinari, Marco Martinelli, Marco Baliani, Cesare Lievi, Giorgio Barberio Corsetti, Ingemar Lindh, Living Theater, Pippo del Bono, Daniel Bacalov, Giolisu – Ultima Vez, Chris Channing, Compagnia Impasto / Balletto Civile, Danio Manfredini, Matteo Belli, Rosaspina.unteatro (ERT), Serge Wilfart, Francesca Della Monica / Verdastro, Iñaki Azpillaga – Ultima Vez / W. Vandekeybus, 13 anni con Tu Loss (campione del mondo Kung-Fu / Sanda).

Prima di defilarsi, momentaneamente, dal professionismo dello spettacolo vero e proprio, per dedicarsi al lavoro di ricerca (di scena, personale ed universitaria), produce tre spettacoli: Pinocchio (autoprodotto, con l’appoggio di Rosaspina.unteatro, 2000), Le Metamorfosi, di Ovidio (autoprodotto, con l’appoggio di Ca’ Rossa, 2003), Con Rabbia di Gioia (autoprodotto, con l’appoggio di Compagnia Verdastro/Della Monica, 2005).

Laureato con lode con una tesi, sperimentale e interdipartimentale, sul metodo di medicina complementare di Ida Rolf Integrazione Strutturale del corpo, detto Rolfing, attraverso uno studio approfondito sul campo con Mario Finato (Ass. It. Rolfing) e Hubert Godard (Teoria del Movimento – Sorbona, Parigi).

Dottore di ricerca (2010) presso l’Ateneo bolognese, con una specializzazione scientifica, teorica e pratica, sui diversificati aspetti della voce in funzione civile, professionale o artistica, con il sostegno diretto, maieutico o collaborativo, di molti artisti, medici e terapeuti (tra i medici: Giovanni Mazzotti, Franco Fussi, Livio Presutti; logopedisti: Tiziana Fuschini, Giampaolo Mignardi; artisti: Marco Baliani, Matteo Belli, Alessandro Bergonzoni, Danio Manfredini, ecc.).

Membro del comitato di redazione della rivista “Culture Teatrali. Studi, interventi e scritture sullo spettacolo”, diretta da Marco De Marinis.

Responsabile scientifico e di impresa del Progetto Strategico d’Ateneo La Voce del Corpo, Alma Mater Studiorum – Università di Bologna.

Ha insegnato e insegna teoria e pratica della voce recitata e cantata, uso del corpo, eloquenza e potenziamento vocale in molte realtà accademiche o scolastiche (Università, Conservatorio G.B. Martini, ecc.); presso centri di formazione e aziende private.

Autore di diversi saggi in ambito artistico e scientifico riguardanti la fisiologia, la psicologia e il riscontro spettacolare o professionale dell’atto vocale e dell’uso del corpo. Relatore o collaboratore in alcuni convegni. In corso di stampa: Pedagogia e Scienza della Voce, Omega Edizioni, 2012.

martedì 6 novembre 2012

Italianesi di La Ruina: uno straniero tornato, cerca la patria da ricordare


Una nenia famigliare, il gorgoglio del tempo passato a cercare le parole giuste per ricordare, in quell'impasto dialettale che suggella l'intimità del raccontare e la continua ricerca di una lingua madre, di una patria da servire, di un padre cui chiedere il perché di quest'identità negata, di questa diversità condannata.
Eccolo qui Tonino, il sarto zoppo che sussurra a mezza voce la sua storia che poi tanto sua non dovrebbe essere: eccolo qui Saverio La Ruina, drammaturgo, regista teatrale e protagonista nel suo monologare, a tu per tu con una sedia che oramai lo accompagna nel suo viaggio tra i dimenticati, gli ignorati, eroi lasciati soli da una comunità che non li vuole, li bolla come diversi, sconfitti, e per questo li costringe a vagare nell'eterna solitudine del raccontare per raccontarsi, per ritrovarsi. 
Parole strozzate in gola, un “malinconia” detto a fior di labbra capace di commuovere il pubblico di Teatri di Vita che ha scelto di passare il fine settimana con Italianesi, ha scelto di lasciarsi tarlare nell'ignoranza da questi settantacinque minuti densi di vita vissuta: nato nei campi di prigionia albanesi da padre italiano mai conosciuto, costretto a vivere internato per quarant'anni, Tonino sopravvive alle torture e alle vessazioni psicologiche grazie alla capacità di immaginare la vita. Assiduo credente nel mito del paese “più bello del mondo”: è una dote naturale, la sua, che lo porta a cucire insieme attimi felici con i quali riesce a costruirsi un mondo parallelo fatto di colori vivaci, di tinte forti, capaci di cancellare dai suoi occhi il fango del campo, la disperazione dei suoi simili. Ha un unico credo, Tonino: la patria da rivedere, il padre da ritrovare, l'identità da suggellare e quando finalmente arriva un indirizzo a cui poter chiedere il premio per la forza con la quale, nonostante tutto, ha vissuto, ha amato, ha riso e ha pianto, ecco che l'eroe lauriniano riprova la sua solitudine, la sua non appartenenza alla società: accompagnato dal piccolo Leoncino la sua ricerca si scolla davanti alla freddezza di un padre Dimentico, di una madre Patria che non riconosce i suoi figli, di una realtà che tradisce i sogni e ti priva della capacità di dare colore alla vita. Torna in Albania, Tonino, e ci torna da credente ateizzato: ha pianto lacrime di gioia nel provare la libertà di poter “stare”, termine suggellato dal dialetto calabrese per indicare l'ineguagliabile felicità dell'assistere senza regole né limiti al fluire degli attimi, eterni o fuggevoli che siano; ma nel suo stare al mondo non riesce a dire in che parte del mondo sta la sua identità. Questo Tonino non lo sa vivere, non lo sa perdonare. Da albanese è sopravvissuto alla prigionia e alla solitudine del diverso, da italiano ha sperimentato la dimenticanza e l'indifferenza per chi è tornato: non gli resta che difendere la bellezza dei ricordi, il candore dello sguardo diretto verso le altre coste, i momenti di purificazione dal “grigio e verde di questo campo […] dal grigio e verde della merda”. Non gli resta che tornare dietro il filo spinato della credenza fanciullesca, del mito che tutto giustifica. 
Ma alla fine si recupera la libertà anche dai sogni, dalle illusioni infantili: si sorvola sul dolore e si torna indietro, per perdonare chi ha dimenticato. O almeno ci si mette in viaggio per provare a farlo.
“Non c'è cosa più bella che essere italiani”. Davanti al tricolore si spegne la storia di Tonino ma si accende l'attenzione sull'oblio. Da non dimenticare.
Elvira Scorza

lunedì 5 novembre 2012

OPERETTA BURLESCA: 1° STUDIO DI PERSONALITÁ

Lustrini, parrucche, bikini, piumaggi e abiti osé. Vibranti bacini ballerini, evoluzioni, trasformazioni, maschere androgine si intravedono nell’immaginario collettivo del pubblico in sala. Per ora però, la scena silenziosa di Operetta Burlesca (Studio n°1) è abitata da quattro manichini vestiti, calati dall’alto tramite delle funi e due sedie.
Il 31 ottobre Teatri di Vita accoglie un pubblico con uno show man scalda-pubblico, ibrido tra un venditore di spot pubblicitari e un mangiafuoco voluttuoso dalle curve esageratamente coinvolgenti che danza, farfallino, sui suoi chili abbondanti. E ancora canta, recita, interpella il pubblico con quiz e brevi stornelli da ripetere a ritmo di battiti di mani.
Il nuovo lavoro di Emma Dante, ancora in fase di studio, debutta in occasione della decima edizione di Gender Bender, festival Internazionale che presenta opere d’arte contemporanee, legate alle nuove rappresentazioni del corpo, delle identità di genere e di orientamento sessuale, promosso dal Cassero, gay e lesbian center.
Un fenomeno da baraccone sbrilluccicante quello della Compagnia Sud Costa Occidentale, che sottende la travagliata storia d’amore della trans-soubrette Stellina con Principe Azzurro.
Lo spettatore, ingordo di risa, cerca il buffo, lo stravagante e il pizzico di erotismo, che non attende a presentarsi. Tra i circensi di sensualità, si esibiscono ballerini di tango e flamenco, lussuriosi nei passi danzati, in provocanti abitini burlesque: un “tira e molla” ormonale che si gioca sulla seduzione, palpata e goduta, sulle note di un orgasmo scenico.

Un collage di esibizioni, talvolta poco connesse tra loro, a sé stanti: peculiarità di una regia che vuole mostrarci una serie di comicità acrobatiche o pecca di un lavoro visibilmente in fase di studio? (con ampie possibilità di miglioramenti, si spera).

Infine tocca a Stellina. Non sa cantare, né ballare, “Però ho una cosa rara: una storia d’amore”. Il suo amato-amante, Principe Azzurro, è un uomo sposato con figli.
Al centro del palco, la nostra soubrette apre il suo cuore “chien u’ zucchr’”. Racconta, con una voce in falsetto la sua drammatica storia in cui il sogno si tramuta in separazione. Stellina prende coscienza di essere stata solo un oggetto sessuale per Principe, una “bambola” abbandonata a se stessa, proprio come quelle gonfiabili presenti in scena, ormai prive completamente d’indumenti.

Le briglie dell’etica faranno danzare i personaggi-carillon in un balletto finale, sul quale non si può fare a meno di applaudire la compagnia Sud Costa Occidentale per aver parlato di transessualità, sullo sfondo del divertimento e del grottesco. Il pubblico condivide le scelte registiche con lunghi e insistenti applausi.

Gli attori propongono una recitazione consapevole e immedesimata. Inchino di: Davide Celona, Marcella Colaianni, Francesco Guida, Carmine Maringola.

Angela Sciavilla



giovedì 1 novembre 2012

Hamelin: la città che non ama i bambini


L’immaginazione crea la realtà e permette di colmare lacune: riempire una stanza vuota di oggetti, far diventare un adulto bambino, creare suoni, emozioni e ambienti. Il teatro è un’arte che gioca molto con la fantasia e incita a superare quei limiti che possono diventare risorse di esplorazione fantastica.
Questo è l’assunto alla base dello spettacolo Hamelin, portato in scena dalla compagnia de Gli Incauti al DOM la cupola del Pilastro nell’ambito della rassegna CODA – teatri del presente.
Lo spettatore entrando in teatro si trova davanti a un proscenio vuoto. I posti sono disposti, come un abbraccio, sui tre lati della messa in scena. Quando ormai tutti sono seduti, dalle quinte entra, trafelata, una compagnia di attori con quattro casse e un appendiabiti con alcuni indumenti. Così inizia lo spettacolo: poche cose, essenziali, che verranno arricchite dalla bravura degli attori in scena e dalla fantasia degli astanti, continuamente stimolata a vedere oltre ciò che appare, in tutti i sensi.
Si ha l’impressione di trovarsi, più che davanti a uno spettacolo, all’interno delle prove di una compagnia. L’escamotage metateatrale permette di entrare in una doppia dimensione portando alla luce un personaggio inconsueto che nell’opera di Juan Mayorga, da cui è tratta questa pièce, viene definito l’Acotador – in italiano Didascalista – che significa non solo “colui che spiega”, ma anche “colui che delimita”. Ed è proprio questo il compito del regista-didascalista: dare dei confini all’azione in scena e consegnare allo spettatore degli elementi, immaginifici e di contesto che suggeriscano delle chiavi di lettura e degli spunti per riflettere.
Anche il titolo non è casuale: Hamelin, infatti, richiama alla mente la favola del pifferaio magico, riletta in chiave contemporanea da Mayorga che intende raccontare la storia di una “città che non ama i suoi bambini”. Assunto indispensabile per immergersi all’interno delle dinamiche messe in scena dove troviamo un giudice che deve affrontare un caso molto delicato di pedofilia. Protagonisti di questa vicenda sono un bambino di dieci anni e la sua famiglia – un nucleo numeroso e con scarse risorse economiche – il presunto usurpatore, il giudice – costretto anche lui a fare i conti con suo figlio e sua moglie – e, infine, una psicologa pedagoga che analizza il bambino come un “caso clinico” piuttosto che come “persona” con le sue mille sfaccettature: evidente una critica al pensiero psicologico che tende a incasellare gli esseri umani all’interno di tipologie prefissate di comportamento perdendo, alcune volte, di vista la peculiarità di ogni singolo individuo.
L’argomento potrebbe sembrare anche troppo facile data la carica emotiva che questo tipo di situazioni mette in moto a livello umano, e il rischio potrebbe essere quello di facili categorizzazioni da becera tv pomeridiana, pronta a sbattere il “mostro” in prima pagina.
Ma la compagnia degli Incauti non intende cadere in questa trappola e, anzi, vuole dimostrare come un argomento così forte può essere destrutturato e ricco di sfumature. Bene e male, ragione e colpa, amore e scandalo sono concetti di cui ogni giorno ci nutriamo per delimitare il mondo, per avere certezze. Avere qualcuno da accusare fa stare meglio, aiuta a ripulirsi le coscienze e a ordinare il caos di cui, in realtà, è fatta la vita. In questo spettacolo però, man mano che l’azione si svolge e gli eventi si ramificano, ci si rende conto che i convincimenti pian piano svaniscono, la verità si fa imprecisa, i contorni sfumano e tu, spettatore che all’inizio hai la tendenza a voler delimitare, il desiderio, quasi inconscio, di trovare un colpevole e un innocente, cominci a porti altre domande e ad avere sempre più dubbi. Impossibile trovare risposte univoche, stabilire cosa sia giusto e sbagliato. In questa pièce – capace anche di affrontare un tema di grande attualità come quello delle case-famiglia – viene evidenziata la precarietà del concetto di “verità”, e la difficoltà di circoscrivere e comprendere la complessità della natura umana. Nemmeno il linguaggio sarà in grado di dare delle certezze, anzi, il didascalistica dirà che «questa è un’opera che parla del linguaggio, di come si forma e di come si ammala», portando alla luce un altro concetto attualissimo: l’uso del linguaggio da parte dei media e i danni che questo può provocare quando è usato nel modo sbagliato.

Amelia Di Pietro



La Fondazione di Raffaele Baldini: la Prima Nazionale all'Arena del Sole



Valerio Binasco
Un divano troppo verde, una stanza troppo vuota, degli occhi ancora troppo vivi per chiudersi nella solitudine, dentro quella scenografia che aggredisce lo sguardo dei primi spettatori di questa stagione teatrale dell'Arena del Sole. Dal 17 al 28 ottobre l'apertura del sipario nel teatro cittadino punta i riflettori su La Fondazione prezioso lascito di Ivano Marescotti; viene accompagnata da due occhi veloci che corrono dietro il movimento delle tende per poi schizzare da una angolo all'altro, persi nel nulla ma pieni di ricordi da conservare e piccole sconfitte da sanare. Non vi è alcunché di eroico nel bizzarro personaggio di Marescotti diretto da Valerio Binasco, è solo l'uomo che cerca di rendere più dolce la pillola a tutti troppo amara da inghiottire: la fine. Dover lasciare spazio al nulla, o meglio riporre la propria vita nella mani del domani e sperare che qualcuno abbia cura di conservarla, di non gettarla nel secchio delle cose inutili. Se poi si cerca disperatamente di suggellare gli attimi vissuti in oggetti capaci di conservare memoria dell'accaduto, allora l'umoristico delirio (e mai parola fu più giusta per descrivere quel misto di malinconia e sana ironia) colorito dal dialetto bolognese regala senso al vuoto assoluto di cui si circonda il personaggio: noi non vediamo la miriade di roba che accompagna la sua solitudine perché tanto non ne capiremmo il valore, incapaci di cogliere quella capacità taumaturgica, di riempire la solitudine e l'inesistente con una logica totalizzante, estetizzante, quasi maniacale. Un'adorazione della materia “anima”, elabora sensazioni votate al ricordo e alla conservazione, ossessionate dal dare ordine a ogni singolo frammento di vita la cui testimonianza è conservata nel fondo delle bottiglie da osteria, quelle che “non ne fan più di bottiglie così”, mare di rimpianti giovanili, desideri puerili che pizzicano un po' nel ricordare. È una lotta all'oblio quella portata avanti sulla scena. Una lotta che armeggia con un modo di raccontare che predilige la semplicità e l'intimità della recitazione, regalando risatine leggere e momenti di riflessione su quanto spesso si butta via ogni singola azione, ogni singolo momento passato, ignari del significato che le cose possono assumere se vissute davvero: una vita troppo piena ci rende vuoti dentro, se non si sa dare giusto valore alle cose. E fin quando si ha la forza di cercarlo, questo valore, allora si può anche sopravvivere alla solitudine, all'indifferenza della società, non c'è scherzo di amico che possa privarti della fiducia con cui veneri un bottone e la vita celata nei suoi buchi. Ma quando capisci che la tua Fondazione, la tua cura nel conservare per regalare al domani ricordi materiali non sarà cara a nessuno e la tua memoria verrà probabilmente dissacrata nei bidoni della spazzatura, allora non c'è altro da fare che seguire il destino dei ricordi, della vita, delle certezze, delle cose: buttarsi. Così, buttato su quel divano verde, il nostro vecchio sognatore si lascia andare alla morte, all'oblio, cosciente di aver lottato finché si doveva lottare.
Ivano Marescotti
“Fanne quello che credi”: Con queste parole Raffaele Baldini ha consegnato il suo ultimo testo a Ivano Marescotti, sapendo probabilmente che l'unica cosa in cui crede un attore è il valore della “messinscena”, agita, vissuta. E Marescotti questa storia ce la sa raccontare, lontano dai surrealismi, in un teatro dell'ascolto dove protagonista è l'uomo che parla di sé a se stesso.

Elvira Scorza

martedì 26 giugno 2012

Mercuzio 2.0: il progetto della Compagnia della Fortezza spopola sul web e mette in rete le idee

Mercuzio non vuole morire, un progetto per un teatro di massa, uno spettacolo collettivo che scavalcherà i cancelli del Maschio, carcere volterrano in cui ormai tradizionalmente si tengono le performance della Compagnia della Fortezza diretta da Armando Punzo, per impadronirsi degli ambienti urbani. In scena schiere di non-attori, gente comune sottratta al rassicurante spazio dello spettatore e chiamata alle armi pacifiche dell’arte per combattere sul fronte della rivolta dei sogni.  
Pietre volterrane sporcate dalle mani insanguinate di tanti Montecchi e Capuleti, di adulti sconsiderati che innescano meccanismi di morte micidiali, rose rosse di giovanissime Giuliette innamorate, libri e strumenti musicali di chi crede nella meraviglia dell’arte, valigie pronte per partire verso la città ideale.
Photo: Alessandro Fantechi

Lo spettacolo, che vedrà alzarsi l’immaginario sipario sull’incantevole cittadina toscana il 26 luglio a Montecatini V.C., il 27 luglio a Pomarance e il 28 Luglio a Volterra in chiusura del Festival VolterraTeatro 2012, è tuttora in fase di creazione. Una serie di prove collettive si sono già svolte nelle piazze di Volterra, Pomarance, Montecatini V.C., Cosenza e Bologna. 

Ma l’azione di Mercuzio non si esaurisce nel riempire le piazze, perché il giovane sognatore shakespeariano sta letteralmente spopolando sul web. Il dato è sorprendente se si considera il livello medio di popolarità degli eventi teatrali all’interno di circuiti veloci come quelli dei social networks.

Il Mercuzio, che nella riscrittura di Punzo, si ribella al padre autore Shakespeare e sfida il proprio destino di morte e di grigiore rivendicando il diritto alla vita e al sogno, ai colori e alle sfumature, ha evidentemente attecchito con forza nell’immaginario collettivo del web diventando subito metafora irresistibile della possibilità di ripudiare una vita che sembra già scritta, un copione già stampato da rappresentare senza inventarsi nuove scene.

Il progetto occupa tutti gli spazi della rete, da Facebook e Twitter, allo spazio Flick’r che consente di condividere e commentare le foto, al cliccatissimo blog compagniadellafortezzavolterra.wordpress.com su cui è stato lanciato il sondaggio per scoprire a quali scene dello spettacolo intende partecipare il popolo del web e il Mercuziario, raccoglitore di parole da regalare a Mercuzio.
Photo: Alessandro Fantechi

Aggirando il pericolo del click mordi e fuggi Mercuzio si insinua nelle fessure del qualunquismo, stimola le intelligenze, tocca le sensibilità. Nel mare magnum dei post e dei tweet fast food, funzionali, il sognatore di Shakespeare si erge su una zattera di parole piene e di azioni reali.

Nelle pagine dedicati al progetto, infatti, i followers, esattamente come accade per gli spettatori, non si limitano a osservare ma possono collaborare alla scrittura dello spettacolo.

Non l’ennesimo forum dove si lasciano commenti, dunque, ma una rete creativa in cui si gioca al rilancio, in cui ogni giorno vengono postate foto, immagini, parole e pensieri che aggiungono nuove intense pennellate al ritratto di Mercuzio.
Photo: Alessandro Fantechi

Non solo uno spazio promozionale, non solo una bacheca su cui tenersi informati sugli eventi legati al progetto ma un’agorà parallela in cui si prolunga lo spazio reale dell’incontro, una sorgente di idee in cui la scrittura scenica trova nuove risorse creative per una scrittura collettiva.

In pochi mesi il progetto della Compagnia della Fortezza è diventato un vero fenomeno mediatico, un compagno inseparabile degli internauti, una valvola di sfogo di pensieri e parole.

Il viaggio di Mercuzio verso la città ideale è già partito sul web, dunque, e corre ad altissima velocità verso la tappa finale del festival.

Rossella Menna