Sul palco del teatro comunale di Casalecchio è di
scena Sul concetto di volto nel figlio di Dio. Uno spettacolo firmato Romeo
Castellucci in cui, abolita ogni ipotesi
di sviluppo dell’azione scenica, un unico gesto sintetico viene reiterato per
due volte e mezzo. Cinquanta lunghissimi minuti in cui l’operazione di
accudimento fisico di un padre incontinente da parte di un figlio paziente è
diluita all’inverosimile.
Il gesto di base si scompone in micro-movimenti
molto precisi, dettagliati, realistici. In scena una sfilata di assorbenti
igienici, bacinelle d’acqua, camicie da ospedale. Tutto rigorosamente bianco.
Bianchi sono anche il divano, il tappeto, il tavolo e perfino il pavimento. A
causa della torrenziale incontinenza del padre, l’immacolato e ordinatissimo
salottino borghese si trasforma minuto dopo minuto in un reparto sanitario.
Dipanandosi da sinistra verso destra, alla ricerca di nuovi spazi puliti in cui
evolvere, l’azione vede il progressivo sporcarsi di ogni oggetto. Le feci incontrollabili e sempre più liquide
costringono il giovane, che ha ormai rinunciato persino ai guanti, a ripetere
per due volte l’operazione di pulizia. Al reiterarsi per la terza volta dello
svuotamento fisico dell’anziano segue un’esplosione di rabbia da parte del
figlio e un gesto assolutamente inaspettato: una tanica di materia scura
simboleggiante le feci viene riversata direttamente dal padre sul letto ancora
pulito.
Da un lato dunque, un reticolo di movimenti che
suggerisce un impianto realistico, testimone anche l’odore acre che invade la
sala, dall’altro una materia corporale sempre meno credibile e un gesto inspiegabile
che orientano lo spettatore in direzione di una lettura simbolica.
A aggiungere confusione a un già ambiguo apparato di
segni, un ingigantito Salvator Mundi sullo sfondo, cui il giovane, nel momento
di massima disperazione, si rivolge, sfiorandone le enormi labbra in una
preghiera sussurrata, cui si aggiunge quella di altre voci che invocano il nome
di Gesù. La sala si dilata in un enorme orecchio ove si riversano, accompagnate
da un concerto di suoni stridenti messo a punto da Gibbons, tutte le preghiere del mondo. Interessante il lavoro svolto sulla gigantografia. Tagliate le mani benedicenti presenti nel dipinto originale di Raffaello da Messina, Castellucci zoomma sul volto mettendo in primo piano uno sguardo che invade lo spazio degli spettatori. Capovolgendo il processo tipico della pubblicità, in cui le immagini scivolano sul consumatore distratto, la regia pone lo spettatore in una forzata condizione di osservatore attivo. Attraverso l’ingrandimento e il taglio di alcuni particolari, il volto viene straniato, svincolato dal suo contesto originario e quindi reso espressivo, ossia visibile. È la stessa operazione svolta dai pop-artists (vedi Warhol con l’immagine di Liz Taylor). Castellucci interviene, dunque, non su un contenuto di tipo teologico o religioso ma su un concetto estetico. Lo scopo sembra raggiunto: il Cristo non passa inosservato e il pubblico, sebbene intrappolato in un fuorviante impianto ricettivo sinestetico, non riceve pulsioni effettivamente profonde e è costretto a sviluppare un pensiero.
La preghiera inascoltata del giovane è seguita da un momento visivamente pregnante in cui nel buio, il volto in questione, trasudando materia scura, si lacera e si ritrae, lasciando emergere le parole: “You are my shepard”, “Tu sei il mio pastore”. A luci riaccese, su una scena ormai vuota, avviene il difficoltoso parto, sottolineato da luci intermittenti, di una nuova parola: not. La scritta diviene “You are (not) my shepard”. La certezza della fede viene insidiata dal dubbio.
Nulla di nuovo sotto il cielo. Lo spettacolo non
aggiunge niente a una consapevolezza già acquisita da secoli sulla condizione umana
e sull’incertezza della fede che tocca qualsiasi credente.
Al di là dell’innegabile resa visiva e dell’interessante
riflessione concettuale sul volto del Cristo, Castellucci ha costruito uno
spettacolo che rivela punti deboli sia nei contenuti, che non mostrano alcuna innovazione,
sia nella struttura registica, come si è visto, poco omogenea. Si aggiunga, infine, che l’ossessivo tentativo di mettere in scena la quotidianità così come essa si presenta, rischia, come avviene per questo spettacolo, di sottrarre all’arte la possibilità di costruire dimensioni parallele che forniscano una chiave d’accesso più profonda alla realtà.
Rossella
Menna
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