lunedì 30 gennaio 2012

Faccia a faccia con un sognatore: Armando Punzo e il suo Mercuzio

Si è conclusa tra valige piene di ricordi, filmati con confessioni di paure interiori, note di pianoforte e versi di poesie l’ultima giornata del workshop Mercuzio non vuole morire, che si è tenuto ai laboratori Dms di Bologna dal 17 al 26 gennaio. Il lavoro è stato condotto da Armando Punzo, fondatore della celebre Compagnia della Fortezza attiva ormai da ventitré anni, che ha ricevuto prestigiosi riconoscimenti come il Premio Ubu (cinque volte , ultima l’assegnazione nel 2010 come miglior regia), il Premio Associazione Nazionale Critici Teatrali, il Premio Carmelo Bene della Rivista Lo Straniero, il Premio Europa Taormina Arte, il Premio per la Cultura Contemporanea della Regione Toscana e  il Premio Speciale Biglietto d’Oro Agis.
Il suo progetto ha debuttato alla 25ma edizione del festival VolterraTeatro, dove gli spettatori sono stati accolti alle porte del carcere da bambini musicisti e da un curioso uomo completamente ricoperto da una scacchiera bianconera.
Cosa sarebbe successo se Mercuzio, il poeta sognatore, lo spirito libero di Romeo e Giulietta non fosse morto? Una denuncia a una società capace di oscurare, schiacciare e stritolare qualunque tipo di libertà, dove tra versi dell’opera shakesperiana e note del Romeo e Giulietta di Prokofiev Mercuzio, interpretato da Punzo stesso cerca di sopravvivere al duello con Tebaldo, mentre la città di Volterra rappresentata intorno a lui attraverso dei pannelli prende un aspetto mostruoso. Le ultime immagini che ci restano di questo spettacolo sono un Mercuzio che si aggira per la piazza e lentamente si accascia al suolo, una Giulietta con una faccia trasognata, e un uomo in partenza con una valigia in mano.
E sarà proprio da quest’ultima immagine che partirà l’idea del workshop che Punzo ha svolto prima a Gubbio dal 29 settembre e ora a Bologna. Un lavoro che però non finisce qui.
Abbiamo intervistato il regista alla fine del lavoro bolognese, dove abbiamo toccato i principali punti chiave di questo progetto, e dove l’autore ci ha raccontato come avrà intenzione di continuare il suo lavoro.

Parliamo del progetto Mercuzio non vuole morire, tema del recente workshop tenuto ai laboratori Dms di Bologna. Da cosa nasce l’idea?
Nasce dall’ idea di Romeo e Giulietta, e da una frase iniziale che era dedicata ai giovani: “mentre loro si disputano i nostri migliori figli muoiono”. Questa frase mi ha attraversato, così l’ho collegata a Romeo e Giulietta. Poi all’interno dell’opera ho trovato la figura di Mercuzio, che è stata immediatamente sacrificata, che muore e in realtà è da lì che parte la tragedia di Shakespeare. Quindi ho cominciato a lavorare fondamentalmente sulla figura di Mercuzio che non voleva morire, con l’idea che se Mercuzio non morisse, forse non morirebbero neanche Romeo e Giulietta, perché l’amore che potrebbe dare Mercuzio non è lo stesso amore di Romeo e Giulietta, che è l’amore come tutti noi lo conosciamo. Forse l’amore di Mercuzio, come artista, poeta, come uomo che sta sognando un mondo evidentemente ancora diverso. L’amore di Mercuzio comprende Romeo e Giulietta. Molto probabilmente il loro amore non comprende Mercuzio. Quindi l’idea di Mercuzio non vuole morire tratta questa possibilità.
Nel laboratorio inizialmente si utilizza un’immagine per rappresentare il tema della “giornata della partenza”: quella di un solo uomo con la valigia in mano e una lacrima dentro. La valigia in particolare è stata considerata da musicisti e artisti come contenitore di vecchi ricordi, come un simbolo del passato da mettere da parte per andare verso un futuro. Qual è  il significato di questa immagine, e in particolare dell’oggetto della valigia.
In parte è così. C’è uno stereotipo della valigia molto legata all’uomo, e soprattutto all’idea dell’uomo in movimento. A me piace molto quest’immagine perché fondamentalmente è un movimento interiore. Non è un problema di partire e allontanarsi. È una metafora, e quindi dentro c’è l’idea della possibilità per l’uomo di scoprire altre opportunità, e questa è la cosa che mi interessa in quest’immagine della “giornata della partenza”: partire stando fermi. Sicuramente non ci vedranno andar via dalla scena. Questa è la mia idea.
Nel laboratorio si tocca anche un altro tasto abbastanza dolente: quello della paura. In particolare si invitano i ragazzi a scavare nel loro inconscio, ad affrontare le loro paure, per permettere loro di continuare a sognare.
Sì, quello è stato un momento. Noi avevamo un’immagine, quella della massa, che è un ulteriore passo avanti che abbiamo fatto oggi (durante l’OpenClass, ndr). Avevamo un foglio di carta dipinto, che inizialmente era solo un’idea. Poi abbiamo avuto nello studio un personaggio con la valigia che ha cominciato a fare quest’azione, poi abbiamo avuto molte persone in più. L’idea è di averne tante altre. Quindi siamo partiti dall’interiorità, da ciò che ci fa paura, quale può essere il motivo che ci spinge a cercare altre possibilità nella vita, cos’è che ci fa più paura in questo mondo, dentro di noi, ma anche fuori. E quindi abbiamo toccato anche alcuni temi, dove i ragazzi che hanno partecipato hanno manifestato dei fatti, partendo da un personaggio, che sono alcuni degli argomenti da cui allontanarsi, immaginando di andare verso una città ideale, verso qualcosa che sia più comprensibile.
Tornando un momento al titolo del progetto Mercuzio non vuole morire, e in particolare al personaggio di Mercuzio. Egli è un poeta, uno spirito libero, amico di Romeo nell’opera Romeo e Giulietta, che viene subito sacrificato, ucciso da Tebaldo. Molti registi, come a esempio Mario Perrotta nella sua Trilogia dell’individuo sociale, utilizzano i classici per esprimere un loro concetto, una loro idea. Qui invece si fa rivivere un personaggio come Mercuzio per portare avanti il tema, ma lo si fa da un lato scagliandosi contro Shakespeare, chiedendogli il motivo della morte di questo personaggio, e dall’altro, come è accaduto anche oggi, facendo rivivere il Mercuzio che c’è in ognuno di noi.
Sì è così. E’ vero che vado contro Shakespeare, ed è anche vero che è una grossa responsabilità dire questo. Però abbiamo lavorato e pensato al fatto che nemmeno Shakespeare ha avuto il coraggio di far vivere Mercuzio, perché nell’opera Mercuzio, il poeta, l’artista, l’uomo che ha una visione diversa, viene sacrificato. Nella storia dell’umanità è più facile sacrificare Mercuzio, quindi drammaturgicamente è giusto: Mercuzio deve morire. Non per noi però: noi abbiamo pensato a un personaggio che non sta a questo gioco, che si ribella a questo padre che ha previsto per lui questo sacrificio in qualche modo, e per questo chiede e ricerca compagni, compagni di strada, quindi è normale che cercherà altri poeti, altri artisti, ed è il Mercuzio che è in tanti di noi, che è nell’umanità. C’è il Mercuzio: a volte può essere sepolto, dimenticato, però c’è. Quindi Mercuzio cerca di tirarlo fuori.
L’idea non è solo accontentarsi di far rivivere Mercuzio, ma per lui si cercano anche dei compagni di strada alla fine della rappresentazione, recitando versi di poesie di altri autori.
Sì, perché siamo arrivati a capire che Mercuzio da solo muore. Mercuzio ha bisogno di compagni di strada, specialmente oggi ha bisogno di altri compagni, di altre persone, di altri Mercuzio. Quindi noi cerchiamo di toglierlo da quest’isolamento, da questo suo rapporto col destino che sembra debba portarlo a morire. Poi se si pensa al nostro paese, alla cultura, a quello che sta accadendo, forse ci sono anche dei collegamenti, non è proprio quello che ho cercato in questo lavoro, ma ci sono anche dei riferimenti evidenti rispetto a un clima che si sta vivendo, dove far fuori i Mercuzio non sembra rappresentare un problema.
Oggi nell’introduzione dell’ OpenClass sono stati coinvolti nell’azione oltre i partecipanti del workshop anche diverse persone del pubblico. Anche quello era un voler cercare dei compagni per Mercuzio, facendo risvegliare il Mercuzio che c’è in ognuno di noi, anche nelle persone che non avevano fatto il laboratorio?
Sicuramente, questo dovrebbe contagiare altri spettatori, altre persone che passano. È un’azione che avviene all’aperto, è un’azione visibile. Dovrebbe avvenire anche in piazze, in luoghi pubblici, quindi è evidente che c’è un tentativo di coinvolgere sia chi partecipa, ma anche altri spettatori involontari.
Il progetto ha debuttato prima al festival di Volterra, poi è continuato con il workshop che si è appena tenuto qui a Bologna. Come continuerà adesso il tuo lavoro?
A Volterra abbiamo fatto un primo studio, un primo lavoro teatrale. Domenica sarò a Cosenza e farò un altro workshop con altre persone sempre su questo tema. Poi tornerò a Volterra dove con i Comuni vicini stiamo lavorando con le persone, con i bambini che fanno scuola di musica, con le ballerine, con i bambini che fanno danza, con gli artisti, con gli anziani, coi giovani delle scuole medie e superiori, proprio per costruire quest’azione dove dentro ci siano tutte le età, dove tutta l’umanità è rappresentata.
Le foto sono di FotoFotoniche.
Giulia  Mento

“La trilogia degli occhiali”: la realtà di Emma Dante

Occhiali per guardare meglio. Storie di solitudine, malattia, dolore e abbandono. Immagini perfette del vivere umano registrate da occhi attenti e curiosi. Tre pezzi di teatro legati dallo sguardo femminile di una regista che ha imparato a vedere. Gli occhiali di Emma Dante riflettono la realtà. Punto. Ma è sufficiente a teatro?
La trilogia degli occhiali è composta da Acquasanta, Il castello della zisa e Ballarini. Visti a Teatri di Vita, gli spettacoli viaggiano in  tournée nazionale e non solo. Sono realizzati con meticolosità certosina. Emma Dante sa quel che fa quando mette insieme i pezzi drammaturgici per la scena. Ha la teatralità nelle corde del suo essere: così la scenografia diventa drammaturgia, le parole superano il linguaggio, i costumi raccontano vissuti. Ma c’è qualcosa che non fa volare.
I suoi attori sono sempre bravissimi. La sua firma e il suo stile sono riconoscibilissimi. È un’artista che affonda le radici nella sua terra, nelle trame del suo intimo substrato, la sua visione del mondo è fatta di carne e sangue. È materiale, passionale e presente. E proprio per questo suo essere vero a qualunque costo, proietta gli spettatori difronte alla vita e nella trilogia gli mette addirittura gli occhiali per evitare equivoci. Non sia mai che qualcuno capisca una cosa per un’altra. Ma la possibilità di creare altri mondi? La possibilità di togliersi gli occhiali con il rischio forse di vedere peggio, magari poco chiaro, ma per provare ad aprire altri “occhi”? Questo non è proprio previsto negli spettacoli della regista siciliana. Eppure, forse, quell’isola tanto bene esaminata, così ben studiata e descritta, chiederebbe solo la possibilità di sognare.
Il filo conduttore delle tre storie: occhiali – tutti i personaggi ne indossano un paio; la struggente musica di un carillon – ogni storia è accompagnata da quel dolce suono; e realtà – tre punti di visti su tre storie diverse che dipingono vissuti.

Acquasanta: il primo sguardo su una realtà

Un mezzo uomo è dentro una mezza barca e di mestiere fa il mezzo mozzo “che è u chiu ‘mportante di tutta a’navigazione marittima”. Davanti a sé un cestino con su scritto: “Grazie, aiutatemi”. È ancorato – letteralmente - per i polsi e le caviglie ad ancore legate al soffitto. Come un burattino si muove, raccontando in lingua partenopea la sua odissea. È ironico da fare accapponare la pelle, è divertente da far piangere, è così ignorante da essere saggio. Sulla sua testa ondeggiano piccoli orologi che scandiscono ricordi e tempi passati. Una storia di solitudine e abbandoni cominciati quando a soli quindici anni viene imbarcato su una grande nave. È un mezzo mozzo ma ha tutta l’immensità dell’oceano dentro di sé: il mare diventa puro, santo e benedetto. Costretto a salpare per mari di cui amerà ogni singola goccia, si imbatterà in soprusi da parte dei componenti della ciurma. Ci viene fatta immaginare una violenza carnale scandita dallo sbattere dell’ancora in un tondello di ferro. Ultima di una serie di angherie che lo porteranno a essere lasciato sulla terraferma di cui non conosce niente e di cui teme tutto. Dopo il silenzio.
Il castello della zisa: il secondo racconto
In questo pezzo di teatro poche parole, ma tanta fisicità. Sulla scena ci sono quattro croci attaccati al soffitto con delle molle. Sotto ogni croce un fagotto. Al centro del palco due vecchie signorine si vestono camminando su e giù a ritmo regolare e sempre più incalzante. Mormorano e non scandiscono bene le frasi, sembra ma francese, ma non importa. Mano a mano che la loro vestizione si completa si comincia a intuire che sono delle suore. E che sono dentro a un ospedale e che sotto quei fagotti ci sono persone che hanno bisogno di tutto. Non riescono a compiere neppure la più piccola azione quotidiana. E ancora neppure una parola, solo emissioni di suoni simili a discorsi. Il ritmo è molto veloce con tempi comici. Scoprono un fagotto e per il povero paziente comincia la giornata. Prima lavarsi: si utilizza “ a sputazza” ovvero lo sputo. In siciliano vuol dire che è pulito per modo di dire, in maniera superficiale, ma in fondo è solo uno che sta male, che importa se non è lavato per bene. Poi c’è il rito della colazione: una suorina tiene lo sventurato e l’altra lo imbocca. Dopo inizia la riabilitazione: metodi di impatto duro. Maschere mostruose per provocare reazioni, palle lanciate con violenza per tentare una presa da parte del malato, se è necessario vengono somministrati schiaffi per scuoterlo, ma niente. Il paziente si accascia su un lato e cade. Fin quando finalmente avviene una specie di miracolo: si alza, si muove, afferra le cose, corre, salta e alla fine parla. E la prima cosa che dice e che vuole vedere sua zia. Che è molto grato alle suorine che si sono occupati di lui per tutto quel tempo, ma lui vuole accanto volti familiari. Si rende conto, però, che è solo. E da qui ricomincia la discesa verso la totale immobilità. Di nuovo punto e a capo. Tutti gli sforzi non sono serviti a nulla. Tutto da rifare. Tutto ritorna come era. Dopo si abbassano le luci. È la fine.
Ballarini: ultimo della trilogia

 

Una coppia di anziani signori balla al centro del palco. Sono ben vestiti per la festa. Un capodanno presumibilmente. Musiche di anni passati riaffiorano e sembra che provengano dalle menti dei vecchietti che si abbracciano e si coccolano a vicenda. Mano a mano il ritmo sale, la musica diventa più incalzante. Loro ringiovaniscono, sembra una visione alla Woody Allen. Si ripercorre la vita al contrario. Via via a ritroso passando per la nascita del primo figlio, alla prima notte di nozze, il matrimonio, poi la dichiarazione, il primo bacio, diventano adolescenti. E tutto questo senza fermare un attimo il loro ballo. Una danza continua e vertiginosa. E poi la musica inizia a scemare, si rimettono i panni da anziani coniugi, di chi ha vissuto
una vita insieme, fatta di attimi di felicità, di momenti di sconforto, ma anche di giorni normali. Il silenzio si fa sempre più imponente e alla fine invade la scena. Si ritorna alla realtà. Quelle visioni erano solo nella mente della vecchia signora che dopo aver accompagnato l’amore di tutta la sua vita nella cassa, non gli rimane altro che spegnere le luci della festa, accasciarsi sulla sua cassa e aspettare.
Una nota
Sicilia e occhiali fanno venire in mente un precedente illustre che di questo arnese così strano ne fece un ritratto molto diverso. Gli occhiali di Luigi Pirandello: “Avevo un giorno un pajo/ d'occhiali verdi; il mondo/ vedevo verde e gajo,/ e vivevo giocondo./ M'abbatto a un messer tale/ dall'aria astratta e trista./- "Verdi? - mi dice. - Male!/ Ti sciuperai la vista./ Sù, prendi invece i miei:/ vedrai le cose al vero!" -/ Li presi. Gli credei./ E vidi tutto nero./ Ristucco in poco d'ora/ d'un mondo così fatto,/ buttai gli occhiali, e allora/ non vidi nulla affatto”.
Forse il teatro deve far vedere “verde”? Forse.
Josella Calantropo

venerdì 27 gennaio 2012

Una narrazione da sogno: alla scoperta delle terre africane con Pietro Floridia

C’era molta curiosità alla libreria Coop Ambasciatori di Bologna lunedì 23 gennaio. Pietro Floridia avrebbe presentato il suo nuovo libro Teatro in viaggio-lungo la rotta dei migranti. Qualcuno aveva letto in precedenza il suo diario pubblicato quotidianamente su Repubblica, qualcun altro era venuto per pura curiosità intellettuale.
Quella che sembrava dovesse essere una semplice presentazione si è trasformata in un racconto del viaggio di Pietro in Africa.
Ma la sua non era una semplice narrazione: nelle sue parole c’era l’emozione dei ricordi, delle sensazioni provate, nei suoi occhi la volontà di chi ha ancora sete di sapere, di scoprire.

Ha cominciato a raccontare e mentre parlava la folla, già numerosa inizialmente, continuava ad aumentare. Sempre più gente cercava un posto a sedere o si stringeva sulle scale che portano al piano superiore della libreria.
Abbiamo viaggiato con la mente, immaginando anche noi il Caffè Hafa di Tangeri, con i suoi muri a strapiombo sull’oceano, Casablanca, il deserto del Sahara e le sue dune di sabbia. Abbiamo sentito le dita di Issam suonare e intonare una canzone marocchina con la sua chitarra, abbiamo sofferto per Said, e per la sua necessità di abbandonare gli studi.

Abbiamo visto le foto di Pietro e il Gabbo (suo compagno di viaggio, anche lui presente ieri sulla scena per farci vedere foto e ascoltare le musiche che hanno accompagnato il loro percorso),  a bordo del Lando, il loro mezzo di trasporto, non proprio una jeep ultimo modello, ma che è riuscito a resistere alle strade sterrate, ai vandalismi e alle dune del Sahara.
Chiudendo gli occhi potevamo sentire l’afa, ma anche il freddo delle notti del deserto e la paura di rimanere a piedi, senza benzina, soli in una terra sconosciuta.
Il racconto di ieri è terminato in un oasi del deserto del Sahara, in viaggio verso il Senegal.
Ma il viaggio non è finito. Abbiamo ancora tante cose da imparare, da scoprire.
Pietro ha detto: “Il resto del viaggio lo scoprirete nella prossima puntata”.
Ma credo che nessuno di noi avesse voglia di aspettare: a fine presentazione la maggior parte delle persone sono corse a comprare una copia del libro. Com’è continuato il viaggio in Senegal? E Said, Issam, dove sono adesso? E i laboratori in Senegal, le esperienze con Mandiaye N’Diaye, quante altre cose ti hanno fatto scoprire? Queste sono solo alcune delle numerose domande che mi sono posta dopo aver sentito questa narrazione.

Cercherò di darmi una risposta leggendo questo libro, ma spero davvero che Pietro Floridia possa regalarci presto il seguito di questa storia, facendoci nuovamente sognare con un altro racconto di questo suo lungo viaggio alla scoperta delle immense terre africane.



Giulia Mento

mercoledì 25 gennaio 2012

Errata Corrige sul pezzo dello spettacolo "Atto finale - Flaubert" di Mario Perrotta



Mettiamo in evidenza che sul pezzo Con “Atto finale – Flaubert” la disgregazione del mondo in scena pubblicato il 24 gennaio su questo blog, abbiamo fatto confusione sul nome dell'attrice che interpreta il ruolo della Muta nel nuovo lavoro di Mario Perrotta con il quale si chiude la "trilogia dell'individuo sociale". La brava attrice - che catalizza l'attenzione per la sua capacità nel recitare, ballare, mimare e cantare - si chiama Paola Roscioli e non Claudia Proscioli come invece avevamo scritto sulla recensione. Abbiamo provveduto repentinamente a correggere il nome sul pezzo originale e questo appunto vuole essere un omaggio all'attrice.

La redazione

martedì 24 gennaio 2012

Con “Atto finale – Flaubert” la disgregazione del mondo in scena

Una stanza buia. Pian piano si accendono le luci e vediamo due personaggi seduti di spalle che guardano uno schermo gigante. Vogliono scoprire la ragione della loro esistenza. Eccoli qui, Bouvard e Pécuchet in versione moderna, interpretati da Mario Perrotta e Lorenzo Ansaloni, così come ce li descrive Perrotta stesso nella sua riscrittura dell’omonimo romanzo di Flaubert. Due uomini che vivono da decenni un isolamento volontario, in fuga dal mondo. Non hanno alcun contatto con l’ esterno, se non tramite Internet.

Durante lo spettacolo ci accompagnano una serie di battute veloci, taglienti, comiche, ma allo stesso tempo terribilmente drammatiche, perché Bouvard e Pécuchet rappresentano il nostro presente, ma anche il nostro futuro (il loro isolamento parte infatti dal 2010, ma arriva fino al 2078).

Rappresentano gli uomini di oggi completamente alienati dal mondo reale, un mondo dove non esistono sensazioni e rapporti autentici, dove ogni azione si ripete ogni giorno alla stessa maniera.

Digitano ossessivamente sulla tastiera, che hanno come protesi attaccata al collo, parole e parole, per cercare di imparare nozioni di medicina, di astronomia, di biologia, continuamente alle prese con i loro bislacchi esperimenti, tutti non riusciti, compreso quello del suicidio.

Ecco l’uomo del presente e del futuro, capace allo stesso tempo di sapere tutto e non sapere niente, solo e smarrito davanti a un mondo dove l’aspirazione maggiore di una donna è diventare Miss Chirurgia Estetica.

All’inizio sullo schermo, poi in un angolo del palcoscenico vediamo anche il Muto e la Muta, i due servitori, interpretati da Mario Arcari e Paola Roscioli.

Essi in realtà parlano un altro linguaggio, fatto di gesti, di sguardi, di sensazioni reali e di contatti fisici. Un linguaggio che ci appare meraviglioso sulle note delle variazioni di Goldberg di Bach, ma che i nostri personaggi non comprendono, completamente catturati dal loro mondo virtuale.

E non comprendono neanche alla fine, quando Paola Roscioli tenta invano di spezzare l’incanto nel mondo del Web cantando Edith Piaf. Tutto si dissolve in un’orchestra di flatulenze, simbolo della disgregazione e del dissolversi della realtà umana.

In Atto Finale - Flaubert , ultimo capitolo del suo progetto Trilogia dell’individuo sociale (composto anche da  Il Misantropo - Molière e I cavalieri – Aristofane cabaret), Perrotta non vuole darci consolazioni. Ci mette davanti alla realtà nuda e cruda, in cui l’illimitata stupidità umana e il nostro chiuderci in una realtà virtuale composta solo da rapporti e sensazioni fittizie stanno prendendo il sopravvento, portando alla nostra completa disgregazione.

Un’ ottima interpretazione di Mario Perrotta e Lorenzo Ansaloni, in completa osmosi, abilissimi nel ridicolizzare o drammatizzare gli aspetti più decadenti della vita e del pensiero contemporanei.

Uno spettacolo capace di farci riflettere, poiché al peggio non c’è mai fine, e i valori veri e autentici del vivere umano sembrano ormai letteratura.

Una riscrittura originale e profonda, dall’impatto forte, tale da meritare il prestigioso premio UBU 2011 per l’intera trilogia.



Giulia Mento

venerdì 20 gennaio 2012

MERCUZIO NON VUOLE MORIRE. La terza giornata di laboratorio di Armando Punzo

«Tocchiamo qualcosa che ha a che fare con noi». Comincia così la terza giornata di laboratorio di Armando Punzo regista della Compagnia della Fortezza con gli studenti dell’Università di Bologna.
«Tocchiamo qualcosa che ha a che fare con noi». Ripete e lo ripete ai ragazzi. Accidenti, Armando Punzo non si accontenta di predere in mano il testo di Romeo e Giulietta e di rappresentarlo. Non gli importa di far imparare un copione a memoria. Accidenti!

«Tocchiamo qualcosa che ha a che fare con noi». Perché costringe a pensare, a guardarsi dentro, a scavare in cerca delle paure? Sarebbe stato tutto molto più semplice se Punzo fosse già arrivato con delle idee da assegnare, ma lui no! Vuole parlare, vuole sapere, vuole cose vere! Uffa! Ma quanto vuole questo? Ma perché non gli basta mai? E perché indagare sulle cose che ci fanno soffrire? E poi sul coraggio di superarle? Ma perché non mettiamo in scena un bel Romeo e Giulietta e basta?

Qualcuno dei partecipanti si è arreso ed è andato via. Molti invece sono rimasti: non tutto gli è chiaro, ma sono rimasti. Sono a tratti smarriti, ma ci provano. E Punzo è lì che cerca di spiegare che la creazione è una cosa complicata. Che per fare uno spettacolo teatrale bisogna perdersi.
«Tocchiamo qualcosa che ha a che fare con noi». Non vuole parlare con frasi fatte, non vuole esperienze finte. Stuzzica e spinge sui bottoni che fanno male. E qualcuno finalmente esplode.

«Ma dopo la laurea? Che faccio? Dov’è la mia Itaca? Come fai a sapere qual è la traiettoria giusta? Quante persone sanno dove devono andare? Sanno da cosa si stanno allontanando? Un rumeno è stato picchiato a sangue davanti al portone della fabbrica dove lavorano i miei. Mia madre, mio padre mi insegnano a non rubare, a non fare cose cattive, ma quando uno viene picchiato a sangue perché loro non fanno niente? Perché stanno con le mani nelle mani a osservare senza muovere un dito? Perché non si spendono? Mi fa arrabbiare il fatto che io sono più coraggiosa di loro, io devo imparare ad ammettere che la mia onestà me la sono guadagnata da sola. Devo ammettere il fatto che i miei genitori non si ribellano. Mi fa rabbia che non mi dicano di cercare un’alternativa. Che mi dicano di adattarmi a questo mondo e non di cercare un’alternativa. Questo mi fa rabbia, rabbia, rabbia! Tutti mi dicono: “Perché non fai l’insegnante? Perché non ti prendi il tuo posticino e ti fai una famiglia tranquilla?” Ma io non la voglio una famiglia tranquilla! Io voglio leggerezza! Mercuzio è leggerezza!»

E a fine serata arriva anche il punto di vista di Armando Punzo dalla sua pagina facebook: “Bologna. Laboratorio. Cerco di coinvolgerli a partire dal proprio vissuto. Non li voglio come scimmie ammaestrate e divertite e riverenti e curiose e rinchiuse in una mia ragnatela. Voglio vedere un fuoco che si accende. Cerco l'unione di fragilità vissute, sentite, elaborate, consapevoli costruttori di un destino diverso. Voglio vederli sognare senza paure, senza limiti, fiduciosi mentre esitano e danno corpo ad una visione condivisibile...”

Josella Calantropo

giovedì 19 gennaio 2012

Le interviste di Pietro Floridia e Luana Pavani: scenografi di Report dalla città fragile





L'intervista di Gigi Gherzi da Report dalla città fragile

Mercuzio non vuole morire. Seconda giornata di laboratorio con Armando Punzo

Il laboratorio di Armando Punzo con i ragazzi dell’Università di Bologna  ha cominciato a muoversi. Quale direzione prendere non si sa ancora bene, ma il punto di arrivo dovrebbe essere quello di avere centinaia di persone riunite in una piazza con una valigia con dentro una lacrima. Simbolo di persone che vogliono lasciare un genere di vita per spostarsi verso la città ideale. Una lacrima per abbandonare le cose che fanno soffrire, le paure, le angoscie che inevitabilmente costellano le nostre esistenze. Andare verso un luogo migliore, proiettarci verso un altrove luminoso. “Lascerò questo palazzo di oscura notte!”  si dice nell’ atto V scena III del Romeo e Giulietta.

Ed è così che si comincia a prendere una bella strada in salita: i ragazzi iniziano a sciogliersi. Anzi iniziano a cercare dentro le proprie paure e le tirano fuori. La paura, in questa seconda giornata, è stata anche al centro dell’improvvisazione di una ragazza del laboratorio. Il clima è solenne, il silenzio da i brividi. Una telecamera riprende il momento e diventa uno specchio con il quale confrontarsi. La tensione sale e la commozione è nel tono, nel modo e nell’attegiamento di questi studenti che provano a sognare ma che vengono bloccati dalla paura. “I sogni non esistono più quando hai paura”. “Vivi un’esistenza tormentata quando hai paura”. “Quando hai paura i ricordi diventano incubi”. Come si fa ad avere il coraggio di sognare?  Come si fa a difendersi senza attaccare gli altri? Le confessioni più intime vengono registrate dall’occhio e dalle orecchie attente di Punzo che ascolta e fondamentalmente ama chi ha difronte. “Se ho paura sono già morta”. Le domande sono tante e i dubbi ancora di più. “Sono disposto veramente a perdermi? Cioè a spingermi verso qualcosa che non conosco?”


Mercuzio aleggia come presenza silenziosa, ma adesso si inzia a capire cosa rappresenta questo personaggio. Quanto costa la leggerezza? Bisogna fare i conti con le pesanti coscienze che sembrano essere attaccate per mani e per piedi a macigni di roccia. Bisogna trovare il coraggio di scendere in profondità, di mettersi a nudo e mostrare tutta la fragilità. Sì, già, ma come? Punzo prova a dare indicazione ai ragazzi: “Al teatro non c’è altra possibilità se non riesci a giocare con te stesso”.

Dice Frate Lorenzo: “Romeo, vieni fuori, vieni fuori uomo pauroso! Il dolore si è innamorato delle tue doti e tu sei sposato alle calmità”. Voglio “essere”… non voglio più “non essere”…! Questo è il monito che esce da questa seconda giornata.

Josella Calantropo

mercoledì 18 gennaio 2012

Mercuzio non vuole morire. Prima giornata di laboratorio con Armando Punzo

È iniziato con dubbi, domande, provocazioni e silenzi che pesano una vita di esperienze. Si presenta così Armando Punzo al laboratorio con i ragazzi dell’Università di Bologna. Il regista della Compagnia della Fortezza varca il mondo accademico per ragionare di Mercuzio. Il poeta, il disilluso della ben più nota (forse) storia dei due fidanzatini della “bella Verona” così tragicamente raccontati in Romeo e Giulietta del bardo inglese.

E noi, come blog di critica teatrale, cerchiamo di raccontare quello che succede in questo workshop. Cerchiamo di seguire il percorso che Punzo ha già intrapreso con la sua compagnia dentro il carcere di Volterra e che ora approda nel mondo dei “liberi” (chissà poi quanto!).
Sono in trenta gli studenti che osservano il maestro in silenzio, mentre lui racconta l’antefatto iniziato lo scorso anno sulle orme del sognatore shakespeariano, presentando la prima fase del lavoro durante il festival VolterraTeatro. Perché Mercuzio?  Perché per Punzo e i suoi diventa il centro della storia? Perché Shakespeare, il suo padre-autore, lo condanna? Perché non vuole morire? Cosa vuole diventare allora? Dove vuole arrivare? Ma chi è Mercuzio? Perché fa tanto i capricci in questa versione? Perché non si limita a far andare avanti la storia che tanto bene conosciamo? Perché non lascia spazio ai protagonisti?
Dubbi, domande, provocazioni e silenzi. I ragazzi del laboratorio sono perplessi. Osservano, cercano di entrare nel mondo di Punzo. Qualcuno interviene, prova a dire la sua. Gli stimoli messi sul banco sono tanti. Ma l’attenzione viene catturata da un’immagine: la giornata della partenza.
È la scena su cui Punzo vuole lavorare con questo laboratorio bolognese. Un bozzetto di questa intuizione è già stato presentato a VolterraTeatro la scorsa estate, con un solo attore: una valigia in mano e una lacrima conservata dentro.

La sfida con gli studenti è di radunare tante persone con una valigia piena della lacrima che ci portiamo dietro. E poi provare ad allontanarsi da questa per raggiungere insieme una città ideale. Lasciare la pesantezza del nostro quotidiano per avvicinarsi alla “leggerezza pensosa” dell’essere, parafrasando Italo Calvino. L’utopia a cui, malgrado tutto, si vuole credere è che possano esserci ancora tante persone che sostengono Mercuzio. Che non possono arrendersi al “Basta, basta, Mercuzio, tu parli di nulla!” inflitto da Romeo alla fine della tirata sulla regina Mab al quale il poeta controbatte con un “È vero io parlo dei sogni!”
E un donchisciottiano che si rispetti cosa fa? Instituisce un “partito del nulla”, di un nulla che richiama sogni e possibilità. Che si raduna insieme per stuzzicare l’immaginario collettivo. Una grande scena teatrale per coinvolgere tutti coloro che vogliono prendere in mano la propria vita e che vogliono provare a cambiarla.
L’appuntamento è per giovedì 26 gennaio alle ore 17.00 ai laboratori DMS  di Via Azzo Gardino, 65/a. Siete tutti invitati a partecipare con una valigia e la voglia di mettersi in gioco.

Josella Calantropo

Corpo e poesia: basta l’essenziale. “Il giardino dei ciliegi” diretto da Paolo Magelli

Se sul palco non ci sono quinte, non ci sono arredi, non ci sono scene, cosa rimane? I corpi atletici degli attori sottoposti a ritmi frenetici e la poesia di un Anton Pavlovič Čechov che, dopo più di un secolo, sa ancora essere attuale. Visto all’Arena del Sole di Bologna, Il giardino dei ciliegi messo in scena da Paolo Magelli fa emergere l’essenziale.
È la terza volta che Magelli mette in scena questo spettacolo. Ma non è una rivisitazione di quelle precedenti è una nuova versione: “Sono mille i modi di affrontare Il Giardino e cento volte di più i modi di parlarne. Eppure la voglia di realizzare questo testo non cessa mai” – dice nelle note di regia – “credo che sia il tempo perduto della vita che è irrimediabilmente trascorsa a cambiare noi e i testi che mettiamo in scena, a rendere tutto diverso da come lo avevamo pensato, a trasformare la nuova lettura spesso nell'opposto di quello che si era "sentito"prima. E Čechov pare essere il campione della trasformazione: ti parla sempre in modo diverso”.
Le vicende di Ljubov' Andreevna Ranevskaja, proprietaria terriera, in questa versione interpretata da Valentina Banci, e della sua famiglia, dei servitori e di coloro che girano intorno a quel giardino sono raccontate su un palco completamente nudo. Gli unici oggetti ammessi sono delle corde che si alzano mano a mano che la trama si infittisce, creano ostacoli allo sguardo dello spettatore. La crisi che si abbatte sulla famiglia, i debiti contratti, i soldi sperperati, sono la causa della vendita dell’unico bene che ricorda un tempo andato che non può più tornare: il giardino dei ciliegi. La scenografia minimalista mette al centro la parola che fa da padrona nella messa in scena di Paolo Magelli. In questo spettacolo la regia si vede e si sente.
Muovendosi tra sogno e realtà, tra un “come eravamo” e un “come siamo diventati”, i personaggi sono come bambini viziati, ricchi senza averne il merito e incapaci di custodire un’eredità. Fanno finta di non vedere la crisi che si avvicina. Come struzzi mettono la testa sotto la sabbia, non riescono ad affrontare la realtà. Hanno tutte le potenzialità per capire, per elevarsi e diventare persone migliori, ma si arrendono alle loro piccolezze. Hanno l’intuizione del sogno ma non riescono a sfruttarne la potenza. Sentono la musica di un ricordo lontano, ma non prendono posizione. Sono sognatori senza averne le capacità. Come circensi dilettanti hanno i piedi per aria: saltano, giocano, ballano, ridono come galline, piangono come coccodrilli, corrono, se ne infischiano, aspettano un miracolo (forse) che qualcosa succeda (sicuro). Eterni adolescenti sono esagerati e esasperati nei modi di condurre una vita dissoluta. E il poeta si allarga: nel testo ci ricorda che la tragedia del giardino riguarda tutta la Russia. Solo il maggiordomo, Firs, stanco, di una vecchiaia disarmante, riesce a essere lucido, a capire e a percepire la tragedia imminente. Le sue battute tuonano come le massime di un “saggio ignorante”.
E se Čechov ha messo la poesia, gli attori questa volta hanno messo il corpo e la voce. La regia non è andata a cercare il lato psicologico dei personaggi, non ha voluto mostrare un naturalismo di altri tempi, si è dedicata agli esercizi di training vistosamente messi in mostra dalla compagnia bella e giovane composta da quella del Teatro Stabile della Toscana e da quella del Teatro Stabile di Sardegna. La regia gioca con la bassezza della carne in opposizione alla leggerezza della poesia. Gli attori hanno davvero un fisico bestiale non si fermano un attimo e corrono per spostarsi da una parte all’altra del palco. La loro bravura si percepisce da ogni singolo movimento, dalle maschere facciali, dalle voci e dal corpo. Azioni fisiche in evidenza, quindi, in questa messa in scena è la forma che diventa contenuto. 
 E poi il lungo addio alla casa e al giardino. Anche in questa occasione il dolore per l’addio viene gestito in modo infantile: è sincero, o almeno sembra, ma si trasforma in ridicolo dato che si dimenticano del fedele maggiordomo Firs che sfinito si accascia e aspetta la morte. Ma Čechov non smette di stupire e affida a un paio di stivali cigolanti il compito di puntellare di ironia la tragedia.

Alla fine è la poesia che prende posto in teatro e ondeggia sulle coscienze con un monito per tutti diretto e sincero: “ Che ci andate a fare a teatro? Invece di andare a teatro dovreste guardarvi intorno! Che ne avreste bisogno! La vita che fate, così grigia… La quantità di cose inutili che dite!”

Josella Calantropo

lunedì 16 gennaio 2012

I 60 battiti della Compagnia della Quarta

Quarant'anni di onorato lavoro per il Teatro delle Moline, che dal 1973 ospita spettacoli di ogni genere, stimolando scrittori e attori a innovare e rinnovare. Venerdì 13 gennaio calca la scena la Compagnia della Quarta, con lo spettacolo 60 battiti.
Il complesso di attori che dal 2001, propone eventi che integrano musica, teatro e arti visive, teatro danza.

In scena sono seduti in fila i quattro protagonisti interpretati da Simone Maurizzi, Emiliano Minoccheri, Fabrizio Molducci, Patrizia Proclivi.
Sembrano spazientiti. Sono affiancati da riflettori, ingombranti, invasivi, artificiali. Illuminano il personaggio, anzi, lo accecano.
Rumori misteriosi, rimbombanti, lugubri. Interferenze di macchinari in azione. E poi ritmo, accenti, battiti. Sessanta battiti, o forse di più.
Un dinamismo di forme e colori, un ritmo di danza celere distrugge ogni logica.
La scena non solo tende a partecipare, ma a identificarsi con l'azione; dà luogo a trasformazioni a vista, a compenetrazioni di corpi e fughe di proiezioni colorate sul pavimento.
Un linguaggio ridotto alla visualità pura, carico di echi sociali ed esistenziali.
L'idea di un teatro svincolato dalla parola, "in una realtà di oggi estraniante, in cui viene scardinata ogni regola del rispetto, del dovere e del diritto, dove le persone vengono spesso ridotte a semplici statistiche, a documentate percentuali"- commenta il coreografo Mario Coccetti.
Denunciano una società opprimente e oppressa da codici convenzionali. Denunciano la parola.

Tutto rappresenta qualcosa, nulla è. Un'intesa tra l'attore e lo spettatore, efficace evidentemente. Il pubblico acconsente, applaude soddisfatto.

Angela Sciavilla

domenica 15 gennaio 2012

Garibaldi e De Andrè, eroi dello stesso Mondo: l'Italia

Il Testoni Ragazzi propone Garibaldi non è una statua in onore dei 150 anni dell'unità d'Italia. Cosa accomuna De Andrè e Garibaldi?
La voglia di cambiare la storia del nostro Paese, ognuno a modo suo, ovvio.
Un'arguta dimostrazione l'ha data il Testoni Ragazzi -Teatro stabile d'innovazione per l'infanzia e la gioventù - che da anni porta in scena spettacoli dai linguaggi e contenuti il più possibile vicino ai bambini e ai loro interessi. Parole d'ordine: imparare e divertimento!
Lo spettacolo è scritto e diretto da Giovanni Boccomino, Valeria Frabetti e Fabio Galanti, riproposto per il ciclo "Accade di sera" a "La Baracca" il 12 gennaio, dopo il successo dell'anno precedente.
Ancora una volta un tutto esaurito.

Entriamo in sala. É inesistente il sipario. Non c'è una quinta o una mantovana, nè una teletta o un soffitto. Anche la ribalta è assente.
Il piccolo pubblico, acccompagnato da mamma e papà, è a stretto contatto con gli attori. Seduto sui gradoni, aspetta di ascoltare la storia di un ragazzo, che da bambino adorava cercare nel mare il sogno di uno Stato solido e unitario.
La maestria di due attori come G. Boccomino e F. Galanti, efficaci e semplici oggetti di scena - due praticabili mobili, delle lavagne con gessetti, due camicie rosse, una statua di Garibaldi, un ritratto di Anita - hanno permesso in tuffo in un Risorgimento, in cui Garibaldi è un indiscusso protagonista.
Il nostro amico Beppe (diminutivo di Giuseppe) non è solo una via, una piazza o una statua.
É innanzi tutto un bambino che adora il mare, e preferisce il gioco allo studio. Cresciuto, verrà promosso capo della marina, diventerà un valido condottiero di eserciti, ma anche un buon padre e un marito per Anita.Sarà anche muratore, pastore, contadino, allevatore!

Una vita fatta di incontri: da Mazzini a Vittorio Emanuele; insurrezioni, come quella a Genova; esili in Brasile. Costituzione di un corpo italiano (le camicie rosse); scontro con austriaci; armistizio di Villafranca e la cessione di Nizza poco voluti; spedizione dei Mille, sconfitta dei  Borboni in Sicilia; la prosecuzione verso Roma e il Trentino.
Settantacinque anni di storia raccontati con brio da esperti di teatro che sfruttano ogni vibrazione dell'aria, ogni muscolo del corpo, linguacce, gargarismi, rincorse, colpi e contraccolpi.
I bambini si divertono, le loro risate rimbalzano qui e là per il teatro, animano il teatro di buon umore! Dinamicità e sorrisi, è unanime l'applauso finale.
2 giugno 1882: muore Giuseppe Garibaldi, non la sua memoria. Grazie anche al Testoni Ragazzi di Bologna!

Angela Sciavilla