Come accade tra sconosciuti, per prima cosa, ci si guarda: lo spettacolo si apre con un lungo minuto di silenzio, in cui ogni attore spunta da dietro le quinte, appare sul palco, si ferma di fronte al pubblico e affoga lo sguardo tra le poltroncine della platea. Ci parla, tacitamente.
Segue il momento delle presentazioni: ogni attore riferisce il proprio nome, l'età e la professione. Ciascuno poi prende posto tra le sedie rosse. Gli attori vengono invitati a precisare la loro disabilità: c'è chi confida la sindrome di down, chi un ritardo mentale, chi risponde provocatoriamente con un “non lo so”. Quando ciascuno deve esprime il proprio pensiero rispetto alla propria disabilità, qualcuno ci scherza, qualcuno racconta le difficoltà provocate dalla lentezza, qualcun altro si sente dispiaciuto. Jérôme Bel non si ferma qui. Chiede a ogni attore di scegliere un brano musicale e di dare vita ad una coreografia: di danzare insomma, ognuno a modo suo. Il palco, travolto dalle coreografie, diviene un luogo altro: la musica, i movimenti, i gesti dei componenti del Theatre Hora scatenano danze a cui il pubblico assiste estasiato, quasi inebriato.
Si potrebbero dire molte cose su Disabled Theatre: che si tratta
di uno spettacolo che sottolinea più la tematica della possibilità, piuttosto
che rendere semplicemente conto di una diversità; che attori professionisti
diversamente abili si svelano con talenti che trasformano mancanze in
intervalli di poetica bellezza; che il palco diventa il non-luogo in cui quarta
parete e barriere sociali standardizzate vengono meno.
Si deve dire però (non in quanto obbligo ma piuttosto sospinti da una certa impellenza) che l'elemento più pungente nella cornice scenica di Disabled Theatre è il suggerire, proprio nell'assenza di battute da copione, la rilevanza dell'interrogativo: “Dove sta il teatro dietro a tutte queste domande?”.
La scena, intesa nel suo termine più ampio, si trasforma qui
in un deflagrante strumento per scardinare i piani, per scindere gli incastri
sociali in cui spesso si resta incasellati come pedine. Molto probabilmente se
venisse meno questa forza propulsiva dell'arte, non si conoscerebbe la
possibilità di respirare un intimo senso altro, ovvero il semplice sentirsi in
quanto spettatore di spaziare un altro “mondo”, in cui prospettive, longitudini
e distanze assumono angolature differenti. Per quanto sfuocate, chiarificano
con intima vicinanza le posizioni del non-considerato, del non-visto o mai
sentito.
Ritornano allora, come una lenta eco che nessuno sa dove rimbalzerà, alcuni versi di Fabrizio De Andrè “Questa gente di cui mi vai parlando è gente come tutti noi, non mi sembra che siano mostri, non mi sembra che siano eroi...”.
Visto il 27 gennaio 2015 all'Arena del Sole, Bologna.
Carmen Pedullà