domenica 1 febbraio 2015

Le abilità del Disabled Theatre: non chiamatelo spettacolo sulle differenze

Undici sedie rosse accolgono, in un leggero semicerchio, l'occhio dello spettatore. Si resta trafitti da una lieve quanto lucida semplicità del palco, che schiude nelle undici bottigliette d'acqua poste accanto ad ogni sedia, l'accenno di un'attesa che già dice, sottovoce, qualcosa. Allora si tende l'orecchio e quel numero dispari, dato dall'unione di due numeri uguali, si trasforma: diventa la premessa, la chiave d'accesso a Disabled Theatre, spettacolo nato dall'incontro tra il pluripremiato coreografo francese Jérôme Bel con il Theatre Hora di Zurigo, compagnia composta da attori professionisti diversamente abili, che, dopo aver partecipato ai più prestigiosi festival e mostre internazionali, ha fatto tappa all'Arena del Sole di Bologna. Un numero, undici, che nella sua composizione anticipa quel che Disabled Theatre non è: uno spettacolo sulle differenze.

 
Appare fin dall'inizio, sul palco al lato della scena, la narratrice dello spettacolo che, destreggiandosi tra l'inglese e il tedesco-svizzero, ne delinea ogni fase. La pièce si struttura di fatto in una sequenza di domande, poste dal regista durante i mesi di lavoro con il Theatre Hora, a cui gli attori vengono chiamati di volta in volta a rispondere.
Come accade tra sconosciuti, per prima cosa, ci si guarda: lo spettacolo si apre con un lungo minuto di silenzio, in cui ogni attore spunta da dietro le quinte, appare sul palco, si ferma di fronte al pubblico e affoga lo sguardo tra le poltroncine della platea. Ci parla, tacitamente.
Segue il momento delle presentazioni: ogni attore riferisce il proprio nome, l'età e la professione. Ciascuno poi prende posto tra le sedie rosse. Gli attori vengono invitati a precisare la loro disabilità: c'è chi confida la sindrome di down, chi un ritardo mentale, chi risponde provocatoriamente con un “non lo so”. Quando ciascuno deve esprime il proprio pensiero rispetto alla propria disabilità, qualcuno ci scherza, qualcuno racconta le difficoltà provocate dalla lentezza, qualcun altro si sente dispiaciuto. Jérôme Bel non si ferma qui. Chiede a ogni attore di scegliere un brano musicale e di dare vita ad una coreografia: di danzare insomma, ognuno a modo suo. Il palco, travolto dalle coreografie, diviene un luogo altro: la musica, i movimenti, i gesti dei componenti del Theatre Hora scatenano danze a cui il pubblico assiste estasiato, quasi inebriato.
 
 
Gli attori, dopo aver messo a nudo un talento vertiginoso, danno il loro giudizio sulla coreografia: chi si dice contento, chi meno perché i familiari hanno trovato le coreografie “uno spettacolo da baraccone”. Uno degli attori si lamenta perché la sua coreografia non è stata selezionata dal regista per essere presentata di fronte al pubblico. E confida: “Io voglio divertire il pubblico, voglio farlo ridere e ballare perché sono il ballerino più bravo”. Un altro invece si domanda perplesso: “Dove sta il teatro dietro a tutte queste domande?”. E allora anche chi non aveva ballato fino a quel momento esegue il suo numero, quasi consumandosi e divorando le particelle di un palco che scompare in vortici d'aria danzante. Come passo finale di questo lungo viaggio del Theatre Hora, Jérôme Bel chiede un inchino. L'ultimo gesto che raccoglie i battiti di una danza oltre confine.

Si potrebbero dire molte cose su Disabled Theatre: che si tratta di uno spettacolo che sottolinea più la tematica della possibilità, piuttosto che rendere semplicemente conto di una diversità; che attori professionisti diversamente abili si svelano con talenti che trasformano mancanze in intervalli di poetica bellezza; che il palco diventa il non-luogo in cui quarta parete e barriere sociali standardizzate vengono meno.


Si deve dire però (non in quanto obbligo ma piuttosto sospinti da una certa impellenza) che l'elemento più pungente nella cornice scenica di Disabled Theatre è il suggerire, proprio nell'assenza di battute da copione, la rilevanza dell'interrogativo: “Dove sta il teatro dietro a tutte queste domande?”.

La scena, intesa nel suo termine più ampio, si trasforma qui in un deflagrante strumento per scardinare i piani, per scindere gli incastri sociali in cui spesso si resta incasellati come pedine. Molto probabilmente se venisse meno questa forza propulsiva dell'arte, non si conoscerebbe la possibilità di respirare un intimo senso altro, ovvero il semplice sentirsi in quanto spettatore di spaziare un altro “mondo”, in cui prospettive, longitudini e distanze assumono angolature differenti. Per quanto sfuocate, chiarificano con intima vicinanza le posizioni del non-considerato, del non-visto o mai sentito.
 
 
Uno dei rischi per uno spettacolo come Disabled Theatre sta però nel restare inghiottiti nella banalizzazione di diversità versus normalità, di abilità versus disabilità, della creazione di uno stupore euforico perché mossi dall'assenza di quel che ci si aspettava: la mancanza. Essa appare, vede gli attori mascherati da una schiettezza trasparente, non mediata. Ma non resta, non colpisce, non comunica. La mancanza evapora. Lo spettacolo di fatto la interroga, la problematizza come se fosse piantata nella radice sbagliata che tenta, per fragili tentativi, di ribellarsi.
Ritornano allora, come una lenta eco che nessuno sa dove rimbalzerà,  alcuni versi di Fabrizio De Andrè “Questa gente di cui mi vai parlando è gente come tutti noi, non mi sembra che siano mostri, non mi sembra che siano eroi...”. 

Visto il 27 gennaio 2015 all'Arena del Sole, Bologna.
 
Carmen Pedullà