domenica 29 aprile 2012

“Anche l’occhio vuole”: il nuovo spettacolo del Magnifico Teatrino Errante tutto da vedere

Una riflessione sull’occhio profonda, viscerale e impudente fatta quando l’occhio vorrebbe solo chiudersi e non guardare. Il Magnifico Teatrino Errante obbliga ad aprire lo sguardo su una realtà che si farebbe volentieri a meno di vedere.
foto di Valeria Di Sciullo
Il nuovo lavoro della compagnia, Anche l’occhio vuole, diretto da Valeria Nasci, è un indagare le potenzialità dell’occhio con azioni teatrali, scioglilingua, modi di dire, proverbi e filastrocche. La diversità in scena viene guardata e mai nascosta, viene esibita, viene fatta danzare, cantare, ma al contempo ci guarda, ci canta e ci danza. È una triangolazione di sguardi: il pubblico che guarda la scena e gli attori che guardano in sala.
foto di Valeria Di Sciullo


È un teatro che parla di altri corpi. Diversi. Che si strascinano, che zoppicano, che a volte non camminano, che fanno fatica ad andare dritti. Ma tutti raccontano. Storie di vita vera vissuta sulla pelle. Semplicemente il corpo in scena è così come è. Diventa drammaturgia con tutte le sue mancanze, deficit, ma anche con tutte le sue capacità. Ecco perché il teatro del Magnifico è così potente. Perché le cose non le manda a dire. Non narra una favola, spalanca gli occhi su un altro mondo, che molto spesso fa paura solo perché è diverso, o peggio - molte altre volte - si vuole compatire solo quando si ha voglia di lavarsi la coscienza.
Sul palco ci saranno attori – ognuno con i loro pregi e i loro difetti – che suonano, ballano e guardano, insieme, nella stessa direzione.
Josella Calantropo
Il Magnifico Teatrino Errante è una compagnia composta da attori disabili e non. Nasce nel 2007, quando ancora non si chiamava così, da alcune collaborazioniimportanti con realtà bolognesi. Nel 2011, con la partecipazione del gruppo alla PAR TOT PARATA, prende il via l’importante collaborazione con l’associazione “Oltre” di Bologna la quale di fatto lo “adotterà” da quel momento in poi. Tra l’altro è stato proprio in occasione della celebre parata bolognese che il Teatrino deciderà di chiamarsi non solo Magnifico ma Errante, a simboleggiare una ricerca continua, una peregrinazione sia nei luoghi delal città che tra le sensibilità “diverse” dell’animo umano.
DEBUTTO
Anche l’occhio vuole
Teatro Dehon, via Libia 59, Bologna
Lunedì 30 aprile alle h 21
INGRESSO GRATUITO

foto di Valeria Di Sciullo

foto di Valeria Di Sciullo

venerdì 27 aprile 2012

Antonio Latella, un “Don Giovanni” che infastidisce

Mentre si entra in teatro non si può fare a meno di canticchiare Mozart: il titolo dello spettacolo risuona nella pancia con la voce, profonda e spettrale, del Commendatore. Don Giovanni, a cenar teco è lo spettacolo che nasce come l'esito finale della collaborazione tra Antonio Latella, direttore durante la stagione 2010/2011 del Nuovo Teatro Nuovo, e Andrea De Rosa, allora direttore del  Mercadante, Teatro Stabile di Napoli.


La drammaturgia di Latella scritta a quattro mani con Linda Dalisi si articola come un romanzo di formazione. All’inizio si vede un piccolo Don Giovanni nella sua stanzetta con una piccola Donna Elvira mentre giocano con dei dinosauri di gomma che impersonificano i personaggi delle avventure del dissoluto punito. Donna Anna che viene insidiata durante la notte dall’uomo mascherato che cerca di possederla; il servo Leporello che sogna di diventare signore; il Commendatore, padre della sventurata che si batte per proteggere la figlia e Don Giovanni che uccide senza pietà il vecchio. Con questa trovata il prologo della storia è narrato. E fin dalle prime battutte il filo conduttore è ben delineato; Don Giovanni viene sempre richiamato all’ordine con un: “Giovanni, la cena è pronta!” I due bambini fanno naturalmente finta di non sentire ed è proprio a questo punto che la piccola Elvira strapperà a Giovanni la promessa di matrimonio.
Il regista mescola la musica di Mozart, i versi di Da Ponte e la drammaturgia di Molière. Testi e linguaggi diversi sono riuniti insieme per ri-creare un unico mito. Il Don Giovanni di Antonio Latella ha un po’ l’aria da misero: non è bello, non è seduttore, non è affatto palestrato; anzi è piuttosto anonimo e per i canoni di bellezza della nostra società passerebbe inosservato. Ma ha qualcosa per cui le donne si innamorano perdutamente di lui. È spietato e razionale, calcola tutto come un teorema, parla come un libro stampato, gioca con i sentimenti, pensa e costruisce geometrie di amori, ma soprattutto sfida la sorte e Dio. È un libertino senza vergogna e senza pudore.


Le donne, in questa versione, hanno un ruolo fondamentale. L’abbandono che vivono amaramente viene indagato e raccontato come in una commedia di Aristofane o come in una puntata di Sex and city; le sventurate si consolano a vicenda chi sedotte, chi tradite e chi abbandonate passano in rassegna tutti i vizi, tutte le colpe, tutte le deplorevoli azioni di Don Giovanni che però non possono non amare. Tutte - da Donna Elvira mancata suora alle puttane di un bordello - amano il dissoluto. Ed ecco che la regia interviene nuovamente con una trovata di alta sensibilità:  Maurizio Rippa, attore e contraltista, è strategicamente sempre in scena per cantare l’animo disperato delle donne, ora in disibilio per la passione, ora in profondo sconforto per la delusione. Il cantante non si riserverà di prestare la sua voce sia per arie mozartiane che per canzoni della Carrà.
Ma fondamentalmente il Don Giovanni di Latella è uno spettacolo che infastidisce. A partire dalle luci sparate in pieno viso sul pubblico che cerca di farsi ombra con il programma di sala. Per continuare con la scena del bordello troppo spinta per taluni che evidentemente non riescono a soffrire il bravissimo Giovanni Franzoni che interpreta Pierrot, un travestito in perizoma che ondeggia il suo culone in scena. Ma a quel punto dà fastidio qualunque cosa, anche la più banale discesa in platea da parte degli attori alla ricerca di un Commendatore. Ma già che ci sono, Latella e i suoi, prendono un po’ in giro gli spettatori paragonandoli a statue di pietra di un cimitero, immobili e per nulla partecipativi. Evidentemente per qualcuno è troppo: insulti, sconcerie e trasgressioni fanno fuggire a metà del secondo atto due vecchietti tra il mormorìo di chi resta e il crogiolìo degli attori.

Chi invece non convince sono proprio Don Giovanni, Daniele Fior e il suo servo Sganarello, Massimiliano Loizzi. Sbiechi e immaturi per il ruolo, nella versione vista al Teatro Testoni di Casalecchio di Reno, facevano fatica a ricordare le battutte a memoria per cui perdevano ritmo che altri dovevano poi recuperare.
Il finale è naturalmente un gran finale con tanto di colpo di scena. Don Giovanni non sarà trascinato all’inferno dalla Statua del Commendatore che in verità non compare mai, visto che è stato scelto uno spettatore che fa fatica a reggere lo sguardo degli attori figuriamoci ad alzarsi per andare sul palco. Sarà invece Donna Elvira a infliggere la condanna eterna e come una diabolica femmina gli promette mezza ala del castello, denari in quantità e tutta la libertà che ha sempre desiderato, l’unica cosa che vuole in cambio è che Don Giovanni si impegni a cenare con lei ogni sera. La trasformazione è immediata: il libertino dal giubbino di pelle passa a un abito di un polveroso settecento. Con la mano vecchia e tremante Don Giovanni finisce i suoi giorni mangiando un triste brodino di coriandoli.

Josella Calantropo

giovedì 26 aprile 2012

Diario di bordo di una compagnia: osservando il Magnifico Teatrino Errante

Verso il debutto dello spettacolo “Anche l’occhio vuole”
Come un pinguino a primavera: Il Magnifico Teatrino Errante rompe gli schemi per stravolgere la quotidianeità.
di Angela Sciavilla
foto di Valeria Di Sciullo

GIORNO PRIMO

Miao! Bzz... zzzz... Ciaf! Psss... Ciaf! Eh eh eh... Ciuuf!
Cosa ci fa un pinguino a primavera in un catafalco di gente viva, una processione di infedeli in un orchestra di schiocchi, un scarpa volante e un bersaglio mancato?
La primavera guarda stupefatta il Magnifico Teatrino Errante a lavoro dal 2008: una compagnia teatrale composta da attori disabili e non, che si impossessa della voglia di “errare” i giorni della part tot bolognese dello scorso anno, senza più fermarsi.


Un nuovo “work in progress” per una nuova produzione: Anche l'occhio vuole è il quarto spettacolo della giovane compagnia, dopo Laterra libera tutti (2008), Il ritmo della Terra (2009) e Senza vento (2010).

Una decina di ragazzi, ognuno con una propria realtà. Di giorno si cimentano con lavori manuali in qualche cooperativa del posto. E un pomeriggio a settimana le porte del teatro si aprono.

Valeria Nasci, regista della compagnia, Mariagrazia Bazzicalupo e gli attori non disabili, che svolgono un ruolo fondamentale nel gruppo, conducono l'infaticabile ciurma sull'isola che non c'è. Un viaggio in un posto lontano, dove la diversità non è data da un assetto genetico impazzito o da un incidente di percorso.
Si mette in scena la loro creatività, attinta dall'esperienza, con un pizzico di brio.

“Noi non siamo i loro assistenti sociali, né dei volontari che li accudiscano. Pietà e pena qui non esistono. Sono qui per fare teatro”- tiene a precisare la regista. Valeria Nasci adopera il suo sguardo artistico per parlare inevitabilmente delle differenti abilità e evidenziare che non sono più interessanti le une o le altre.
Chiuse le tende della sala messa a diposizione dall'Associazione Oltre, nel Quartiere San Donato.
La magia ha inizio!
È un lavoro di squadra e di intesa quello dei Magnifici Erranti. Si cercano, si respingono, si rincorrono.

Un laboratorio a forma di abbraccio che rafforza le debolezze, disintegra le incertezze.
In cerchio invocano solidarietà e solidità. Valeria e Maria Grazia stuzzicano la loro fantasia con gorgheggi, sussulti di voci, singhiozzi, suoni gutturali, nasali.
E poi corsette, improvvisazioni, training, contatto di corpi e la danza coi piedi scalzi!

Come sono i piedi? Profumati!
Imparano a fidarsi l'un l'altro, a fidarsi di loro stessi. A stare in scena.
La timidezza pian piano si fa da parte; lascia spazio alla persona che diventa personaggio.

Il buio nasce nel 1929. É entrato in me nel 1976. Sai che hanno è? L'anno della mia venuta al mondo. I medici erano convinti che non avrei mai camminato, né suonato. Io invece cammino e suono.
Un copione attinto, in parte, dal vissuto dei ragazzi, il resto è scritto dalle insegnanti.
La musica accompagna il duro lavoro, dà carica!
E poi un urlo, all'unisono. Più forte della discriminazione, più forte della paura di sbagliare.
Più forte dei forti.
Lei (Valeria) è la luce e ci ha riportato al mondo – recita Marcello.
E poi l'annuncio dei ruoli. Mercoledì prossimo il copione. Cosa sarà?


GIORNO SECONDO

In alto mareee,
per poi lasciarsi andareee
liberi
LIBERI!
Riprendono i lavori dei Magnifici, sulle note della cantante Donatella Rettore. Rincontrarsi una settimana dopo nel Luogo del sogno é sempre una gran festa! Il Magnifico Teatrino Errante si rimbocca le maniche.
Piedi saldamente ancorati alle nuvole, allacciate le cinture di sicurezza...
Partenza... via!
CLAP. PAUSA. PAUSA. CLAP. CLAP. CLAP. PAUSA.

A suon di percussioni scrollano da dosso l'emarginazione sociale. Vanno in scena l'integrazione e le differenze di ognuno di loro, disabili e non.

Si dice che la fotografia intrappoli l'istante; la scrittura catturi l'evento nel ricordo. Solo il vissuto, peró, rende giustizia all'energia contagiosa del gruppo. Energia ruggente. Eruzione di vita; è un mercoledí di marzo. Il sole splende e il Centro Zonarelli di Bologna con i Magnifici non è solo un centro interculturale. Eh no!

Oggi siamo stati in una foresta di fiati. Tra fusa e gracchiati, cori ululati, spifferi di voci intermittenti. C'erano ballerini di hip-hop. Forse erano pirati coraggiosi.


I ragazzi abbandonano la realtà per costruirne un'altra, parallela e invisibile agli occhi.

-Siamo arrivati a Itaca!

-Itaca non c'é.

-Non sarà la maga Circe a ingannarci. Vogliamo coccole.

-Dacci carezze, dolcezza. Fragole.

Risate.

-Ride bene chi ride ultimo, se non ci fosse Mazzini a fare l'Italia...

Coi Magnifici non serve cappello e scalpello per costruire l'Italia.

Le insegnanti Valeria Nasci e Mariagrazia Bazzicalupo li accompagnano in un mondo senza barriere, accarezzano la loro fantasia per infondere coraggio.

-Dove eravamo finiti?- chiede Valeria.

-In un pianeta africano. In una giungla marina. In un libro della giungla. Si ballava e ascoltavamo musica- rispondono - Eravamo con la Fantasia. Alcuni dormivano, altri coccolavano.  Io coccolavo. Eravamo in una giostra senza giostra.

Cercavamo Afrodite la dea dell'amore, che ride! Ride!

E noi eravamo su un altro pianeta, e vedevamo tutto da lassú.

E'un teatro povero quello dei Magnifici. Come quello di Grotowki.

Eliminiamo gradualmente tutto ciò che è superfluo, scopriamo che il teatro può esistere senza trucco, costumi e scenografie appositi, senza uno spazio scenico separato (il palcoscenico), senza gli effetti di luce e suono. Non può esistere senza la relazione con lo spettatore in una comunione percettiva, diretta. Questa è un'antica verità, ovviamente.

Cosi scrive il regista teatrale polacco nel 1970.

E così il Magnifico Teatrino Errante lavora oggi. Potenzian l'espressività dell'attore, unicamente con l'esperienza viscerale col pubblico. L'importante é cosa l'attore puó comunicare col corpo e la sua voce, senza scenografie sforzose. Gli allestimenti non sono trascurati, ma fungono da complemento alla già esistente eccellenza degli attori.

Vedranno uno spettacolo senza scena... recitano i ragazzi nello spettacolo Anche l'occhio vuole. La nuova produzione del Magnifico Teatrino Errante per la rassegna "Diverse abilità in scena" che debutterà il 30 aprile al Teatro Dehon.

GIORNO TERZO

Un’instancabile corsa del tempo. Porta via ore e giorni. E il tempo stringe. Il giorno dello spettacolo è sempre più vicino.Qualche altro giorno di prove e si va in scena.

Lunedì 30 aprile 2012 alle 21 il Magnifico debutto.

Dove?

In via Libia 59, al Teatro Dehon di Bologna.

Ma come “Chi va in scena”??

Il Magnifico Teatrino Errante!

Lo spettacolo Anche l'occhio vuole è tratto da Non sono stata Anna, terzo classificato al Premio Drammaturgia e Disabilità 2011, di A. Frascari e V. Nasci.  É l'urlo schietto e frizzante dei Magnifici che vogliono essere, più che guardati, ammirati nelle loro diversità. In mostra abilità e disabilità di un gruppo compatto che è gioia, sorpresa, ansia nello stesso tempo.

Da qualche giorno è l'Aice - Associazione Italiana Contro l'Epilessia Emilia Romagna a ospitare il lavoro dei Magnifici. Un ambiente confortevole, ben attrezzato di servizi sanitari e luminoso.

Sono in un angolino della sala, seduta sul parquet. Da qui si respira meglio l'energia contagiosa del gruppo.

Scavare, curiosare, oltrepassare per poi rientrare  nei bordi di una cornice fotografica. Scattata dalle note di un organetto, dal vivo. Note lunghe e rarefatte. Fluttuano come satelliti i Magnifici, divertiti dal ritmo esilarante dello strumento musicale. Nei momenti di pausa la sala sembra una piazza di  donne e uomini in festa: bolle che danzano in una quadriglia di applausi. La musica sembra riempire i vuoti della scena, scacciare le inibizioni degli attori e impastare gli umori.

Gli occhi sono testimoni più precisi della scena?
I limiti sono negli occhi di chi guarda
Dillo alla gente se è pericoloso essere felici
A volte a occhi aperti si fanno sogni...

Le scene si provano uno, due, tre, quattro volte. I Magnifici prendono confidenze col testo, le azioni, gli attacchi. Manca solo il filo rosso che amalgami tutto. Ma il tempo incalza. La paura di non essere pronti, di sbagliare c'è.
Mancano solo due giorni di prove intensive, e poi il debutto. C'è tensione, addolcita dall'allegria travolgente della regista Valeria. Ha portato del cioccolato per tutti! Migliora gli umori evidentemente!
Credo nelle loro capacità. Credo nel lavoro della regista. Credo nella magia del pubblico.
Sazia di co'tanto brio, credo che non si possa rinunciare a vedere lo spettacolo. Stupiranno anche voi!

“Him” dei Fanny & Alexander: come prendersi gioco del potere con intelligenza e ironia

Un mago, un’affabulatore, una speranza mistificata, un ventriloquo, una sonora delusione, un buffone camuffato da una voce suadente, un buontempone, un cialtrone nel suo castello di smeraldo, un ciarlatano, un fanfarone a cui troppi danno ascolto, un pagliaccio e un imbonitore. Visto all' ITC San Lazzaro di Savena in occasione dei vent’anni della compagnia, ecco cosa racconta o meglio di chi racconta Him, lo spettacolo dei Fanny & Alexander.


Inserito nel progetto O-Z, la compagnia di Ravenna si interroga su chi è il famoso mago di OZ. Dopo un percorso fatto per scoprire chi è veramente Dorhoty, in questo lavoro, Marco Cavalcoli mette in scena proprio il mago. OZ viene messo in ginocchio di fronte al pubblico per tutto il tempo e prende le sembianze di Hitler con in mano una bacchetta da direttore d’orchestra. Dirige la colonna sonora del film Il mago di OZ, che scorre alle sue spalle mentre lui, in preda a un ossessione, si lancia in un doppiaggio disperato: vuole dare voce a tutti i personaggi, a tutti gli effetti sonori e a tutte le musichette. Il risultato comico è immediato e finalmente permette al pubblico di ridicolizzare l’immagine del tiranno.

Grazie a un impeccabile tecnica di voce e maschera facciale, l’attore Marco Cavalcoli, con la drammaturgia di Chiara Lagani e la regia di Luigi De Angelis, diverte e stupisce. Ne risulta uno spettacolo esteticamente bello e contenutisticamente efficace che utilizza mezzi teatrali per svelare una grande menzogna. La piccola Dorothy che vuole tornare a casa nel suo Kansas, e i suoi compagni di viaggio: lo spaventapasseri senza cervello, l’uomo di latta senza cuore e il leone senza coraggio. La compagnia attraversa tutto lo straordinario paese per scoprire solo alla fine di essere stata ingannata da un mago da quattro soldi. Solo alla fine capiranno che non dovevano fare altro che guardare bene dentro se stessi, utilizzando le proprie capacità per raggiungere i propri obiettivi.

La trovata intelligente di dare le sembianze di Hitler a OZ permette un ironia sottile: non è più il grande e temuto mago-dittatore, ma solo un piccolo saltimbanco con degli stupidi baffetti che non fa paura a nessuno.
Josella Calantropo

Benvenuti a “Emerald City”: un’utopia nell’utopia

Emerald City: uno spettacolo costrittivo, incorporeo e biografico da bios "vita". Un viaggiatore esplora un vuoto verde: un prato verde smeraldo. Il verde è colorato, è la ricerca di felicità: la necessità del teatro. Quel viaggiatore cerca, in una frequenza disturbata di voci, un “io” in cui riconoscersi. Cerca in un cuore estetico, in un cervello rozzo, nel coraggio, nel potenziale di vita del ventre materno, nella violenza uterina, nel consenso carnale. Uno spettacolo che scava nelle biografie del singolo. Effetti di immanenza e trascendenza. Una partecipazione emotiva dello spettatore. Sorpresa, felicità, disgusto, paura, rabbia, tristezza, finzione: microespressioni di un attore-dittatore. L’universalità della mimesi facciale dell'attore diventa ipertesto e pretesto. Un teatro per pochi eletti. Il viaggiatore sceglie quel verde di felicità, sceglie di dire no, di dire sì, sceglie il coraggio, i limiti. Sceglie di non portare gli altri nel cuore perché un cuore vuoto e silenzioso è un cuore sano. In occasione del ventennale di Fanny & Alexander, e per la prima volta in Italia, Bologna ospita il progetto Oz appositamente concepito dalla compagnia per la città. Il progetto, ideato da Fanny & Alexander e Elena Di Gioia,  si ispira alla storia del Mago di Oz. Un percorso a itinerario: “Da O a Z”, “Who’s Dorothy?”, “West”, “Him”, “Emerald city”, in scena ai Laboratoti DMS, e, infine, “East”.

Un senso da ricostruire nell’insieme della visione. Il mago di Oz coincide con la figura di Hitler, personificazione del potere. Così come nel romanzo i personaggi rivolgono al mago i loro desideri, nello spettacolo è Hitler a svolgere questo ruolo. L’interprete è Marco Cavalcoli: è il suo volto ad assorbire le frequenze acustiche di voci, preghiere, desideri, confessioni intime, paure. Una sinfonia di linguaggi, volumi e rumori pungenti. Per ascoltare lo spettacolo lo spettatore indossa delle cuffie. Si creano micromondi: ogni spettatore ha la sua cella nell’alveare. Uno spettacolo performativo distante dalla relazione umana con i vicini, ma destinato al singolo soggetto. Una fantasmagoria di espressioni sul volto dell’attore: un dio umano tra gli uomini. Desideri che rimangono sospesi nell’aere. Lo sfondo colorato e sfumato di luci  richiama volutamente i quadri di James Turrell: diapositive illusionistiche. Nessuna parola, solo mimica facciale, colori, l’immagine 3D di Hitler sospeso in alto, scritte che richiamano la partecipazione dello spettatore. Un gioco: chiudere prima l’occhio destro, poi il sinistro. Immagini che tradiscono, le apparenze che ingannano. Le illusioni che prevalgono. “Silenzio! Non parlatemi di queste…piccolezze, ve ne prego! Pensate a me, e al guaio tremendo in cui mi trovo! Io sono un attore. Ecco. This is the question. I’m an actor. But at the same time I’m a ruler. Governo la terra di Oz, che io ho inventato. Io sono un attore. Ho ingannato tutti per tanto tempo che…” Benvenuti a Emerald City, un’utopia nell’utopia.

                                                                                                                                        Angela Grasso

domenica 22 aprile 2012

Dossier Premio Scenario 2011: recensioni, interviste e racconti

Recensione
I due vitelli di InFactory: giovani trentenni di oggi
di Josella Calantropo

È al vita che si fa teatro, ancora una volta. Sono le paure vere di due trentenni messe in versi. Sulla scena di InFactory vengono esplorate le vite di due vitelloni cresciuti tra il delirio di onnipotenza per la possibilità di sognare e il disicanto della realtà. Due ragazzi degli anni ’80 che avevano creduto nella speranza del futuro, con l’illusione che tutto sarebbe stato possibile, bastava volerlo fortemente. Due giovani, adesso trentenni, che si trovano soltanto un pugno di mosche in tasca. Ingannati, delusi, impauriti. Senza nessun orizzonte, che si accontentano di lasciarsi vivere, che hanno come unica prospettiva quella del macello che presto o tardi li vedrà  adagiati su vassoi di polisterolo confezionati con abbondante cellophane.
La Compagnia Teatro/Stalla Matteo Latino vince il Premio Scenario 2011 con la seguente motivazione:
“La condizione dei trentenni esplorata, allusa, svelata con crudeltà e poesia attraverso la metafora di due vitelli a stabulazione fissa prossimi al macello. Un dialogo che non avviene, che è esposizione frontale, danza riflessa su schermi virtuali, esercizio solitario di una poesia raffinata, di cui i due attori si fanno tramite per scoprire risorse lessicali, metriche, timbriche di una lingua che trova un’inedita cittadinanza sulla scena giovanile.
InFactory nasce al teatro per vie originali e impreviste, che rielaborano la biografia e la letteratura, il mondo delle immagini e le nuovissime risorse della comunicazione interattiva per farsi lente di ingrandimento su uno spaccato generazionale sul quale si sospende il giudizio ma si aprono molte domande. A partire dalla questione, implicita eppure lacerante, di come conquistare finalmente l’uscita verso la campagna aperta, ovvero verso un futuro di libertà e realizzazione personale.”


Matteo Latino, autore, interprete e regista, riesce a raccontare quello che molti suoi coetani non riescono a razionalizzare. Utilizza i mezzi del teatro, e lo fa con consapevolezza. Nonostante questa sia la sua prima vera regia, si intuisce, ancora in germe, sensibilità e destrezza per i mezzi del mestiere.
La sua scrittura è incalzante, poetica e concreta. Procede per frasi che non aprono un dialogo drammaturgico; rimane un monologo diviso tra due attori. Le parole come lance vengono lanciate in avanti verso la platea.  La scena è funzionale e coerente al racconto non usa fari o luci esterne, la illumina sempre dall’interno, e ci restituisce il punto di vista dei due vitelli chiusi nella stalla. Il suo compagno di palco è Fortunato Leccese, in sintonia e partecipe del lavoro. I due performer si muovono ritmicamente , accennando a movimenti di danza, che scandiscono la recitazione, ricordando gli scatti inconsulti dei vitelli chiusi nei recinti.

Intervista
InFactory prima e dopo Premio Scenario: una chiacchierata con Matteo Latino
di Josella Calantropo

Matteo Latino, giovane attore di 30 anni di Mattinata del Gargano e trapiantato a Roma, ha vinto il Premio Scenario 2011 insieme a Fortunato Leccese - suo compagno di scena – con lo spettacolo InFactory. Lo intervistiamo per cercare di capire come ha vissuto l’esperienza di Scenario e per farci raccontare la sua storia.

Come è nata la Compagnia? È nata ad hoc per il Premio Scenario?
Sì e il progetto della compagnia l’ho ideato io.

Ma lei recitava prima? Era attore in qualche altra compagnia?
Io e Fortunato (Leccese, ndr) avevamo fatto la stessa scuola.

Cioè quale?
Il Centro Internazionale La cometa a Roma.

E da chi è diretto?
Da Lilli Cesare e Gianfranco Isernia, e quindi noi ci eravamo conosciuti in quella occasione. Poi la Compagnia Teatro/Stalla anzi esattamente l’ Associazione promozione sociale non profit Teatro/Stalla  è nata a causa del Premio Scenario e infatti è successo dopo.

In che senso? Avete costituito questa compagnia per partecipare a Scenario?
Noi abbiamo partecipato a Scenario, come molti partecipano, senza sapere se avremmo vinto e senza neppure porci il problema. Solo che una volta vinto il Premio abbiamo dovuto sistemare burocraticamente questa condizione.

Quindi in pratica InFactory è la vostra prima opera?
Sì, sì!

E voi avete fatto tutto: drammaturgia, scene…?
Io ho prevalentemente curato la regia, il soggetto, le scene e ho scritto il testo. Poi insieme a Fortunato nel mettere in scena si cercava di capire più o meno l’utilizzo degli strumenti come potevano essere utilizzati. In più c’è un pezzo all’interno dello spettacolo che ho chiesto a lui di elaborare emotivamente sul suo percorso personale di vita. Lui ha buttato giù delle cose scritte e poi man mano lo lavoravamo insieme e subiva delle trasformazioni e degli adattamenti. Per quanto riguarda le scene abbiamo fatto un po’ di necessità virtù: venivano a mancare le persone, non potevamo pagare nessuno per mancanza di fondi e quindi eravamo noi stessi a dover mettere la musica, accenderci le luci. Questo autogestirsi però mi piaceva moltissimo esteticamente: un attore che si accende la lampada e attacca il monologo secondo me è molto teatrale.

Di cosa parla Infactory?
È la storia di due vitelli che vivono la condizione di stabulazione fissa, cioè una condizione di staticità, convinti che dopo questa costrizione, fermi a mangiare, un giorno arriveranno alla libertà, quindi al pascolo. Io però sono partito da un’altra suggestione ovvero: sono consapevoli che un giorno andranno al macello? Questo è frutto della mia esperienza personale: i miei genitori hanno un agriturismo con vitelli, con un macello all’interno delle stalle. Mentre passavo per vari motivi davanti a questi vitelli mi domandavo: loro sanno che un giorno saranno protagonisti di quella stanza? Da qui nasce l’idea. E ho iniziato a scrivere.

Come è iniziato il lavoro?
Abbiamo cominciato ad andare nelle stalle a fare un percorso di studio e di osservazione dei vitelli. È stato un periodo molto importante perché man mano che si stava lì abbiamo cominciato a riconoscerci al posto dei vitelli. Così si è capito che il vitello poteva essere una grande metafora della nostra condizione. Mi accorgevo che emergeva sempre di più l’immagine dei vitelli-ragazzi. Poi ci siamo bloccati, anzi ho sentito la necessità di bloccare. Mi rendevo conto di avere esaurito tutte le immagini e tutte le emotività che potevano servire a creare e dovevo fare una pausa lunga di riflessione per ripensare a tutto quello che avevamo fatto fino a quel momento.

Come e perché siete ripartiti?
Perché ero incuriosito dal linguaggio e proprio da lì ho ricominciato. Stavo andando a caccia di parole che ci dessero la sensazione di puzza nel momento stesso in cui si pronunciavano. Cercavo parole con un suono particolare, con una metrica che mi permettesse di imitare il verso dei vitelli; volevo cercare e trovare delle parole da far suonare in bocca all’attore che potessero dare la sensazione del muggire. Mettendoci in bocca le parole, ruminandole, digerendole, si capiva quale parola era meglio tenere, quale era meglio lasciare. Ero incuriosito di capire cosa si potessero dire due vitelli. Ed è una cosa che ancora ora mi accompagna, anche se sento i gabbiani - perché adesso in città ci sono i gabbiani - mi chiedo chissà cosa si stanno trasmettendo, e allora mi immagino dei dialoghi…
Ma di quale parte di Roma siete?
Pigneto, dove c’è il mercato, e lì ci sono i gabbiani che rubano il pesce.

Cercavate di capire cosa si potessero dire i due vitelli, ma in realtà non c’è nessun dialogo nella drammaturgia...
Esatto, perché mi sono reso conto che questi due vitelli vivevano una forte solitudine e così ho mi sono immaginato che questa solitudine si poteva raccontare con una forma monologante e non attraverso il dialogo, anche perché il dialogo non si riusciva a creare. Primo perché non mi sento pronto, maturo al punto giusto di gestire registicamente un dialogo; e poi perché accresceva l’emotività l’idea che questi due vitelli potessero stare in una condizione isolata, statica. Infatti tutta la ricerca che ho fatto di immagini, di musiche, di luci era in funzione del fatto che volevo raccontare due solitudini.

Come vi ha aiutato il Premio Scenario?
Con la costrizione dei “cinque minuti”. La prima fase da presentare al concorso è un pezzettino dello spettacolo che sia appunto di cinque minuti, poi si passa alla presentazione dei “venti minuti” che è la fase che verrà premiata e solo alla fine si arriva a poter presentare lo spettacolo finito. Il primo segno lo abbiamo messo quando ci siamo dati il limite dei cinque minuti perché sapevamo che lì dovevamo mettere un seme, dovevamo scegliere dei segni attraverso i quali poi comunque raccontare una storia. Quando mi sono trovato di fronte a questo limite-occasione sono nate le scatole, sono nate le lampade e le maglie scritte. Dopo aver passato la fase dei cinque minuti che il Premio Scenario ci aveva tra virgolette imposto, siamo andati avanti per progettare i venti minuti. Procedendo così ci rendevamo conto che stavamo scoprendo un linguaggio. Anche se potrebbe sembrare un lavoro molto individualistico in realtà non lo è. Perché attorno a uno spettacolo lavora tutta la gente che permette e mette in condizione chi scrive, chi fa regia, chi sta in scena di fare questo. Io scrivo il pezzo, ma capisco che il pezzo è completo quando ci sono una serie di persone che partecipano alla realizzazione di quel pezzo: non è un romanzo!

E il dopo Premio Scenario come sarà?
Scenario non ci mollerà mai, perché è nel loro interesse curare gli spettacoli. Ma forse finché siamo dentro Scenario siamo protetti, sembra che tutto sia possibile. Poi si esce e immediatamente bisogna fare i conti con la realtà: con i direttori dei festival che non hanno i soldi, con i teatri che hanno paura di investire in una giovane compagnia. Questo è un problema con il quale mi sto confrontando molto in questo periodo: perché finché c’è Scenario ci sono state delle date, degli spettacoli da poter vendere, delle persone vere a cui farlo vedere, ma poi come fare per diventare professionisti? Come diventare respondabile della propria professione? Queste sono le cose sulle quali una compagnia nelle nostre condizione deve cominiciare a ragionare.

E dopo InFactory? Quali sono i progetti per il futuro?
L’adattamento cinimatografico di InFactory, al quale sto già lavorando e che sarà completamente un’altra cosa: altri corpi che raccontano con una voce off tratta dal testo, ma nel Parco Nazionale del Gargano, riportare degli elementi che fanno parte dello spettacolo, ma pensando di coinvolgere anche persone del posto. È come se potesse precedere InFactory o seguirlo. E poi abbiamo il fumetto da pubblicare.

Recensione
Due passi sono: un candido balzo verso la felicità
di Rossella Menna

Un ritaglio di pavimento a scacchi. Due sedie colorate. Un filoncino di pane, un blister di pillole-cibo, giornali. Un fiore di velluto il cui gambo può essere allungato all’inverosimile. Una lampada, un cuscino.
Due passi sono, per balzare fuori dalla scatoletta in cui vivono Pé e Crì.  Due passi per uscire da un microcosmo in cui la natura non è che un fiore finto, in cui non si vedono le stelle, in cui abbracciarsi non si può perché non è igienico e accarezzarsi diventa un’operazione che necessita di guanti sterili, in cui per sposarsi non si deve andare in chiesa ma in banca. Ma se è vero che dai diamanti non nasce nulla, e che non si può apprezzare un mare che si muove se non lo si è visto prima da lontano piatto e privo di vita, allora il carillon che imprigiona i due piccoli amanti è una soglia, un’anticamera della vita vera in cui è possibile immaginare lunghe braccia che conducano fuori mani libere di toccare e in cui si sogna un figlio e un cane.


Due passi sono per “sognare davvero”, per infilarsi scarpe riposte da tempo e attraversare la soglia della felicità, per tirare fuori da un cuscino un velo bianco e un abito da sposa e scambiarsi inedite promesse d’amore al gusto di poesia.

Uno spettacolo delicatamente ironico. Minuto e perfetto come una bambola di porcellana dal viso levigato. La coppia Carullo-Minasi racconta la rivincita di chi, pur avendo visto la morte, si è tuffato nella vita. Una vera rarità nel teatro del pessimismo. Meritatissimo dunque il “Premio Scenario per Ustica 2011” che si sono aggiudicati i due artisti messinesi.

Il racconto di Carullo-Minasi per Voci dalla Soffitta
Due passi sono prima e dopo Premio Scenario
di Cristiana Minasi e Giuseppe Carullo

Il nostro incontro risale a circa sei anni fa a Messina, avendo collaborato entrambi con due compagnie di ricerca della città. Così, ci si è cominciati a frequentare in teatro e in quei suoi dintorni fatti di parole e poesia; così, per gioco ed incanto, si è cominciato a disquisire e a valorizzare l'uno la poetica dell'altro, a condividere desideri e voglie reciproche. Dopo diverse esperienze comuni –tra cui Fragile di Tino Caspanello- e gli instancabili confronti per i diversi spettacoli insieme visionati, è nata l’idea  di elaborare  un possibile gusto condiviso da mettere al più presto in "atto".

Per Due passi sono, prima nostra vera opera, siamo stati mossi dalla forte necessità di concretezza, di riscattare la voglia e la forza di essere vivi. Volevamo, tramite il limite in cui ci siamo trovati immersi per uno stato di momentanea difficoltà fisica di Giuseppe, raccontare l'indescrivibile forza di cui è portatore l'uomo. Più che per concetti, abbiamo avuto l'intuizione di operare per giochi di relazione, d' improvvisazione scenica che, poi, hanno costituito la base di elaborazione del testo.

In tal senso è stato fondamentale, oltre che estremamente formativo, il percorso di  elaborazione del lavoro per tramite delle tre fasi di Scenario. Il premio “obbliga” ad una continua  messa in discussione del materiale: passare dai 5 ai 20 minuti sino al raggiungimento della definizione dell’intero spettacolo, significa sorprendersi di continuo circa le potenzialità di un percorso che, se sinceramente vissuto come tale, deve nutrirsi dei principi del processo e non dei principi meramente risultativi. Abbiamo proceduto per sottrazione: più si è tolto, più ci è stato restituito dalla logica intrinseca allo spettacolo medesimo. In tal senso, nonostante si fosse partiti dal tema della malattia, della quotidianità patologizzata in vista di un’ipotetica salvezza fatta di prescrizioni e negazioni, lo spettacolo è misteriosamente  -quasi per opposizione- approdato  ai temi dell’amore, della creazione, della libertà, della conoscenza, del potere desiderare nonostante l’apparente impossibilità.

I molteplici confronti con la giuria, con gli spettatori  dei 20 minuti della finale di Santarcangelo, con il pubblico che ha visionato al Franco Parenti la prima dello spettacolo intero, con i giornalisti, con le interviste post spettacolo di questa attivissima tournée, hanno fatto sì che lo spettacolo crescesse sempre e di più non tanto nella forma, ma nei contenuti. Al livello orizzontale della vita/non vita  dei due protagonisti, si è reso necessario aggiungere una linea verticale “filosofica/clandestina” che creasse un congiungimento con le vicende dell’amore. Prendendo in prestito l’immagine della scala infinita del Simposio di Platone, il nostro testo passa in rassegna - frammento per frammento, scalino per scalino- piccoli ma infiniti varchi di luce, molecole di polvere di stelle che illuminano dando luogo, forma, diritto e giustezza all’aspirare ad un percorso di conoscenza condiviso. Amore non è vicenda personale tra due, sia pure formalmente appaia come tale, ma è vicenda universale, che deve attenere poeticamente ciascun uomo.

Quanto alla nostra vittoria di un premio dedicato all’impegno civile, è  motivo di grande orgoglio poter avere fatto coincidere il nostro impegno autorale con l'impegno del risveglio delle coscienze. Crediamo che solo questa sia la strada possibile in un'era quale la nostra, volta all'aggregazione acritica e al disconoscimento dell'attività del pensiero. Il teatro altro non è che impegno civile, il nostro è il più bel premio che il teatro ci poteva consegnare. Il teatro è per tutti, il teatro è di tutti.

Questo spettacolo è un inno alla semplicità, vuole glorificare la vita e lo fa parlando del desiderio. Ma figlio di questo spettacolo non è il desiderio dell’effimero, della cruda materia ma il desiderio fatto di valore, di quel valore unico che è la vita. Amore è creazione: ci son mille modi di creare, bisogna a ciò educarsi, bisogna trarre insegnamento dalla vita per giustificare la vita stessa, di ciascuno, per tutti.

È solo in questa direzione che stiamo compiendo il passo per la prossima produzione.

Recensione
Ritagli pop del bel paese
di Rossella Menna

Continua nel, solco già tracciato dalla coppia Carullo-Minasi e dal Teatro Stalla di Matteo Latino, la rassegna di spettacoli presentati in vari spazi teatrali bolognesi, nell’ambito del progetto Interscenario, che vede protagonista, per il terzo appuntamento, sul palco dei laboratori Dms, L’italia è il paese che amo, della compagnia ReSpirale Teatro. Lo spettacolo, che ha guadagnato una segnalazione speciale al Premio Scenario 2011, prosegue, infatti, la riflessione già avviata, in forme molto diverse, dalle altre due formazioni, sull’inadeguatezza della società in cui questa generazione di giovani si trova a vivere. Questa pièce, nello specifico, è una denuncia fortemente politica di un senso di spaesamento che opprime le nuove leve, costrette a una corsa sfrenata alla ricerca di qualche certezza cui aggrapparsi, che le intrappola in una fissità ancora più radicale.

La barricata di cuscini che accoglie il pubblico, metafora dichiarata del Muro di Berlino, ma anche di barriere metafisiche di qualsivolgia tipologia, cade quasi subito, infranta con entusiasmo dai quattro attori che vi erano intrappolati. Un entusiasmo destinato a spegnersi rapidamente perché lo sfondamento del simbolo di un’epoca ritenuta ormai superata non si traduce nel radicale cambiamento sociale in cui si sperava. «Si cambia faccia, si cambia colore. Tutto cambia perché tutto resti com’ è». È da questa riflessione, dal sapore già noto, che parte lo spettacolo del giovane gruppo bolognese.

Una messa in scena pseudo-dadà, in cui, da un cappello immaginario riempito di citazioni dell’Italia anni ’90, la regista, Veronica Capozzoli, pesca alla rinfusa frammenti ritagliati da tanti giornali diversi e li incolla, così come saltano fuori, sulla tela bianca del palcoscenico.

La metafora non è azzardata dal momento che lo spettacolo è proprio un collage multiforme di ritagli pop accostati per contrasto, senza alcuna linearità narrativa, e riempito da personaggi solo abbozzati, privi di tridimensionalità.


La scena è un frullatore a pieno ritmo che macina e rigurgita rapidamente un’immagine dietro l’altra. È un’infilata di luoghi comuni, dove la crisi dei partiti e il Craxismo s’intrecciano alla musica della soap opera Beautiful. Dove alla riflessione su Tangentopoli, segue una famiglia tipo, con tanto di madre che si spalma la crema alle mani, stravaccata sul divano e imbambolata di fronte alla televisione. E ridono, tutti, da copione, insieme a risate registrate. L’esultanza per un gol della nazionale di calcio sulle note di Notti magiche, il rumore delle bombe, la voce da telegiornale che racconta la guerra in Medioriente, e quella di Falcone che apre uno spiraglio alla speranza. E poi una palestra immaginaria per il fitness frenetico di automi sorridenti votati al culto imposto dell’estetica perfetta, trasformata, in un rapido cambio di scena, nello studio del noto quiz “Ok il prezzo è giusto”. Immancabile la scena della discoteca. Simbolo estremo dell’alienazione moderna, ospita un singolare dj-vocalist che incita le sfrenate danze con slogan da comizio e parole rubate a Berlusconi.  E per concludere, una canzone di Nino D’Angelo a fare da sfondo a un’inquietante Macarena ballata da corpi anonimi coperti in volto da maschere animali.

A puntellare qua e là la rapida sequenza visiva, alcuni squarci lirici: piccoli monologhi infarciti di retorica, amplificati da un microfono bene in vista, che rivelano tutta l’intenzione politica dello spettacolo.

Uno spettacolo che, pur reso piacevole da alcune originali invenzioni, vacilla sotto il peso dell’ingenua costruzione registica e dell’evidente acerbità di un progetto tenuto insieme, per un pelo, dall’urgenza espressiva di quattro giovani interpreti, i quali lasciano intravedere, in ogni caso, serie possibilità di evoluzioni future.

Recensione
Spic & Span di Foscarini-Nardin-D’Agostin: manichini danzanti di colori pop
di Enrico Rosolino

“Non facciamo pubblicità occulta, provate a vederci da vicino!”. I Teatri di Vita offrono spesso interessanti sorprese a un pubblico curioso e aperto. Un titolo insolito campeggia in questa piovosa metà di aprile sul cartellone informatico del teatro: Spic & Span. No, non è uno scherzo! Lo spettacolo tende sin dal suo inizio a farsi portavoce di quella forza propulsiva riconosciuta al notissimo detersivo inventato dall’americana Elizabeth McDonald e cioè “tirare a lucido”: lo spazio e la danza con le loro esigenze. Tre ottimi danzatori- performar, i giovani Francesca Foscarini, Giorgia Nardin e Marco D’Agostin, riempiono concretamente la scena con i lori corpi vigorosi e sapientemente agili. La loro giovinezza imprime all’intera visione un gradevolissimo impatto. Il candido palcoscenico funge da abbagliante set fotografico, ma il sentimento estetico va a collocarsi nell’uso traslitterante di una sgargiante moltitudine di colori pastello: svuotanti negli abiti alla moda dei tre danzatori, liberatori come bolle di sapone scaturite da un mondo di pensieri e sensazioni inespresse nei palloncini che gonfiati dai tre vengono lasciati impietosamente sgonfiare in lunghi ghirigori per aria.

Tre corpi belli e dinamici, narcisisticamente devoti al voyeurismo, e incredibilmente aizzati negli atteggiamenti e nelle pose divistiche si esibiscono in un divertissement nevrotico ed esagitato di movimenti. La materialità del loro moto scaturisce da auto costrizioni e impulsi del tutto esterni e votati a una resa esteticamente graziosa e ciò si palesa in ogni parte della “narrazione” coreografica: così nella rocambolesca dimensione – nella forma di una concitata toletta – caratterizzata da verticalismo parallelo al terreno, come nella ricercata dimensione “intermedia” (tra l’inginocchiato e il seduto) che da un lungo canone di spaccate laterali e camminate sui glutei - all’indietro e in posizione a squadra - sviluppa poi un inviluppante orgiastica serie di abbracci e sovrapposizionamenti plurimi. Infine, nella spiccante fase verticale dominata com’è dai vertiginosi grand developpé che aprono ulteriormente, e sempre più ritmicamente, le tre belle figure e dallo scalpiccio della corsetta nervosa (come individui stressati nelle loro pregevolissime routine lavorative) in girotondo associato, idealmente, ai conseguenti movimenti di braccia simili ad applausi, prima ridicoli e quasi isterici poi strategicamente cool.


La vita sussultoria e tormentata dei tre bellissimi in scena deve essere, per esigenze di marketing tirata ulteriormente a lucido, e non basta l’imposizione rigorosa e quasi brutale di una serie di movimenti ancora a terra accompagnati da una distorta marcia militare. Non è lecito intravedere un disagio psicologico tra le pagine patinate di un fascinoso servizio d’Haute Couture. Ecco dunque materializzarsi il nostro miracoloso detersivo che viene ingurgitato nervosamente e a canone (quasi fosse una coreografia da balletto classico) a lunghi e grandi sorsi dai nostri spossati, e sempre più svuotati, manichini danzanti. La ricercata pulizia e perfezione pare esser stata ritrovata. Lo stato di abnegazione al deteriorante ordine da esaurimento nervoso però conduce a un importante risultato reattivo. La vacuità si disperde; è nell’abbandono trascolorato di una penombra (fino a quel momento sconosciuta) che i tre, pur mantenendo un ricordo di ciò che sono e vivono, iniziano a intravedere scorci introspettivi di sé stessi. Dalle psicosi rotondeggianti, quasi rantoli pre-morte, nei movimenti sul fondo della scena, asserviti al clavicembalo elettronico di Matthew Herbert segue un intenso momento di riflessione corporeo-coreografica. Alle rapidità post-futuriste di un esterno sordo si contrappone l’immagine post-moderna di un dilatato movimento volto allo smascheramento. I tre danzatori, composti in triangolo, sfilano gli occhiali da sole che per tutto il tempo hanno nascosto i loro occhi e dunque la loro recondita interiorità. E ci guardano. Loro ci vedono e noi li vediamo (interamente, finalmente).

Il contrappunto musicale sembra inserire queste tre avvenenti corporature in altrettanti paesaggistici scorci d’umanità. Dai Tullipan del noto terzetto vocale femminile Lescano alla tribal house elettronica la descrizione dei danzatori si appiglia e accapiglia con la fenomenologia del trascorso, ritrovato e perso dell’umanità. Giorgia Foscarini con il suo caschetto biondo, le labbra in rosso fuoco da rossetto l’Oréal a lunga tenuta, e i fascianti occhiali da sole a mascherina appare vagamente emula della Lady Gaga del Pop. D’Agostin spicca per la sua longilinea prestanza e per il suo ottimo amalgamarsi, e al contempo risaltare, tra le co-interpreti. Francesca Nardin, seppur anche lei interessante e validissima nella resa coreografica, appare tuttavia poco appariscente nell’ambito delle tematiche portate avanti dalla performance. Sono comunque tre giovani talenti tumultuosi, ci aspettiamo buone nuove.