giovedì 9 febbraio 2012

“The End”: niente di nuovo per i Babilonia

La voce di Valeria Raimondi riempie il palco illuminato di Teatri di Vita. Alle sue spalle, solo un presepio di morte - un Cristo in croce con ai lati le teste mozzate di un bue e di un asinello - che l'attrice issa attraverso un marchingegno di carrucole. Non batte ciglio mentre, immobile, davanti al pubblico e in un abito d'oro paillettato che riluccica a ogni respiro, spara parole sulla morte, cadenzando ogni singola battuta di una litania rappata che l'orecchio dello spettatore rifiuta, indotto a un infastidito estraniamento.
Il suo corpo non elemosina attenzione, tant'è che il suo sguardo è diretto altrove, fissando un punto in lontananza che trapassa le mura del teatro.

The End è il vincitore del premio Ubu 2011 come miglior novità italiana/ricerca drammaturgica ed è l'ultima evoluzione di un progetto dalla lunga genesi che parte da una dieci giorni di residenza-laboratorio a Santarcangelo 2010. Ne uscì un montaggio di voci e movimenti derivanti dalle riflessioni e dai pensieri sulla morte dei dieci partecipanti reclutati tramite YouTube, ridotti a due nella seconda presentazione dello spettacolo al B-motion di Bassano del Grappa dello stesso anno.
Assottigliato, snellito, impoverito fino all'estremo, il risultato finale, che ha debuttato al Teatro CRT di Milano nel 2011, fa della parola, ben limata e incisa nel tempo e nello spazio, l' unica valvola di sfogo. Un solo momento corale rimane sulla scena, un hully gully di grande solitudine, sotto le note di Ciao Amore Ciao, ultima canzone di Luigi Tenco prima del suicidio.

Non c'è nulla di nuovo sotto il sole ma solo le consuete riflessioni sul tabù per eccellenza, su cui la Raimondi  insiste prepotentemente: prendendo in prestito brani da Cecco Angiolieri e da Salvatore Quasimodo, martella contro la nostra debole società, condannata dalla paura a credersi eterna e indistruttibile. Amiamo così poco la vita da rinnegare la morte o, peggio, eliminarla dalle nostre certezze future, troppo impegnati a curare l'immagine della superficialità.
Chi di noi non è mai stato sfiorato dal pensiero della propria morte? Chi di noi non è illuso dall'eterna giovinezza? Chi non ha mai pensato a come vorrebbe morire?
Allontaniamo in fretta dalla mente questi pensieri, come se stessimo commettendo un errore, come fossero sporchi. Badiamo bene a evitare che raffiorino perchè ci attirano verso il basso, verso la concretezza della vita, verso l'unica cosa naturale che ci è rimastala morte - oltre alla nascita.

Ed è proprio la nascita che si fa simbolo della perpetuazione della vita. Quest'ultima, infatti, sembra tendere all'infinito, rinnovandosi continuamente attraverso i nostri corpi, nel continuo alternarsi di morte e vita. L'immagine dell'attrice che abbraccia il figlio nato da poco è la consolazione definitiva. Una stella cometa, prontamente innalzata sulla testa dall'attrice, ci accompagnerà in questo cammino di (ri)nascita.
Tutto ciò quasi mi permette di accettare la morte. Dico quasi perché sono uscita dal teatro con l'aria irritata di chi ha già pensato troppo alla morte poiché ama così tanto la vita.

O forse ho solo creduto di pensare alla morte e ho sentito lo sguardo della Raimondi deviare su di me, come un rimprovero alla mia menzogna, spingendomi in un baratro in cui io non voglio cadere. Parlare della morte è tanto semplice quanto fastidioso e lo sanno bene i Babilonia Teatri che, accecando di luce la platea, ci fanno stridere le orecchie con This is the end, my only friend, the end, in un finale che sa di terapia d'urto.

Carolina Ciccarelli

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