mercoledì 30 aprile 2014

Emozioni di un mimo nella Russia di Evgenij Onegin

L’arte del Teatro riesce sempre a diffondere una scia d’incanto, tanto tra il pubblico seduto comodamente in poltrona quanto dietro le quinte del palcoscenico. Lasciarsi trascinare è, dunque, inevitabile, soprattutto quando si ha l’emozione di essere stati scelti per farne parte.
La mia recentissima esperienza di mimo all’interno dell’opera Evgenij Onegin, in calendario al Teatro Comunale di Bologna dall’1 al 9 aprile 2014, ne è stata la dimostrazione: quando ricevetti da parte del Responsabile dell’Ufficio Regia Gianni Marras la telefonata di convocazione per un’audizione in qualità di figurante, avvenuta a seguito di un’accurata selezione tra i curricula vitae archiviati, stentai a credere alle mie orecchie.


Le prove, iniziate intorno alla metà di marzo, riservarono sin da subito delle piacevoli – e al contempo disarmanti – sorprese. Emil Wesołowski, stimato coreografo polacco di tradizione classico-accademica, introdusse la sequenza di passi della prima entrata in scena avvertendo me e i miei colleghi che avremmo dovuto interpretare il ruolo di tre contadinotti, goffi e scoordinati, selezionati per danzare al cospetto dei gentiluomini, protagonisti del dramma. Ovviamente la risata faceva da padrona in quella minuscola sala da ballo, ma il velo d’ironia di questa piccola scena del secondo atto aveva solo il compito di smorzare lievemente la tragicità delle circostanze, allietando gli sguardi del pubblico in sala con abiti dai colori sgargianti, luci fosforescenti e le simpatiche note dell’aria di Triquet, egregiamente interpretato dal tenore Thomas Morris.
Difatti, i suggerimenti ricevuti dall’eclettico regista Mariusz Treliński votavano perpetuamente a enfatizzare il meno possibile qualsiasi linguaggio corporeo, prediligendo di contro un forte senso di austerità e magnificenza, incorniciato da ammiccanti sorrisi e ringraziamenti verso gli astanti.
Se questo primo ingresso in scena appariva poco impegnativo, il secondo richiedeva una dose di concentrazione e precisione dei movimenti tale da confondersi con quella impiegata in una performance di danza butō, evocata più volte dallo stesso regista polacco come valido exemplum.
Si trattava dell’ultima scena del secondo atto, quella del duello tra il protagonista omonimo dell’opera e il suo più caro amico, Vladimir Lenskij, sopraffatto dal Destino di morte. A loro si affiancavano Zareckij, secondino del moriturus, e Guillot, giovane servo di Onegin e testimone della sua vittoria. Proprio di quest’ultimo personaggio ho indossato le vesti, quasi fino al punto di cucirle addosso al mio spirito. Nell’interminabile camminata d’ingresso in scena, lenta ma vigorosa, penetrava in me la consapevolezza della tragedia che stava di lì a poco per verificarsi e, soprattutto quando i ruoli dei duellanti erano interpretati dalla coppia Artur Rucinski/Sergej Skorokhodov, mi travolgeva una tale valanga di emozioni da sentire il bisogno di sostenermi davvero col bastone del costume di scena.


E persino nel momento dello sparo, seppur consapevole della finzione teatrale, il mio respiro veniva comunque smorzato dall’intenso pathos dell’azione scenica, alimentato dal candore – oserei dire – opprimente dell’ “occhio di bue”, del vestito del defunto e della neve che accarezzava dolcemente le maniche del mio cappotto.
Pregno di cotanta gravità d’animo, mi apprestavo a svolgere il compito più faticoso, quello di restare in scena per tutta la durata del terzo e ultimo atto, il più drammatico e angosciante.
Insieme coi miei quattro colleghi, vestiti interamente di nero e imbevuti di un’aria cupa e tenebrosa, mi muovevo sempre intorno al protagonista, accerchiandolo più volte per issarlo e poi lasciarlo crollare sul pavimento: noi cinque eravamo la sua coscienza, annerita dalla colpa di aver rinunciato all’affetto di Tat’jana, unica donna in grado di accettare il suo stile di vita dandy. A guidarci, come un abile manipolatore di burattini, era “O”, la vera novità di questa produzione lirica: un personaggio fortemente eloquente nel mutismo del suo ruolo, interpretato dallo stesso coreografo Wesołowski e meritevole delle ovazioni ricevute alla fine di ogni recita.


La vocale del nome equivaleva a quella di Onegin: era il suo alter ego, ma anche il suo fantasma; il suo passato, ma anche il suo futuro. Lo yin e yang di un uomo perennemente tediato dalla vita, ma nello stesso tempo scosso da incontrollabili paturnie amorose, giudici del suo Destino fino al tragico epilogo. Avvolto in una pesante tovaglia di velluto purpureo e illuminato da cinque deboli fiammelle, il “vecchio” Evgenij si lascia morire tra le braccia dei suoi scagnozzi placando per sempre i rimpianti della vita.
  

Marco Argentina

venerdì 18 aprile 2014

Senz'aria da vedere: il desiderio di vita di Maisia Teatro

Lo spazio stretto, quasi mentale, in cui lo spettatore si ritrova a essere catapultato, fa dello spettacolo Senz’aria della compagnia Maisia Teatro una pièce psicologica. Ci accomodiamo in una piccola sala, in via De’ Malcontenti a Bologna, che solo dopo scopriremo contenere segreti impronunciabili.
Dalle parole del foglio di sala conosciamo le sorelle De Montis: Addolorata detta Ada (Elina Nanna) e Immacolata detta Imma (Francesca Bagnara). Forte e severa la prima, debole e sorridente la seconda. Una indossa vestito e trucco total black,  l’altra uno spezzato bianco e nero. È un rapporto ambiguo che affonda le radici in un passato nascosto, ma che emerge lento e tormentato. La storia procede con gesti lenti, solenni, e dialoghi funerei, che smorzano qualsiasi accenno di vitalità della secondogenita.


La dimora è rappresentata sul palco da un tavolo e sedie rivestiti di stoffa bianca, con un set di tazzine da tè: uno scorcio che con le sue piccole quinte allude ad angoli della casa che devono rimanere segreti. Luci bianche e ombre fanno pressione a un’atmosfera macabra, accompagnata da strumenti a corda pizzicati e tamburelli salentini.
Ritroviamo le due protagoniste in sala da pranzo a disquisire della poca serietà di Imma, a cui dover imporre più rigore e arte del risparmio economico. 


Tra urla, pianti e imposizioni emerge chiaro il carattere psicolabile delle donne, in fondo ancora bambine. Comportamenti figli di traumi infantili che sono stati somatizzati e rinchiusi in un carillon (simbolo della spensierata fanciullezza) che le donne-bambine regalano a ogni ospite che le va a trovare. A varcare la soglia di casa è la giovane Bianca Nicolini (Irene Geninatti Chiolero), che cerca una stanza in affitto. Una presenza equilibrata, anche nei colori che indossa, tanto che incute quasi timore alle sorelle: coalizzate in una relazione ambigua in bilico tra amore fraterno e carnale, desiderano offrire l’invadente affetto anche all’ospite, che scappa spaventata.
Poi c’è Remo, il maggiordomo calvo. Il narratore vestito di grigio, interpretato dal regista Gianvito Pascale, apparecchia e sparecchia la tavola. Costretto a fingersi sordo muto, nella seconda parte svelerà la psicosi della vicenda: il carillon regalato a ogni ospite della casa simboleggia l’uccisione di questi ultimi, “loro non uccidono, ma è come se lo avessero già fatto”.


Tra le distese di ulivi centenari e nenie di chiesa, a cui le due fedeli non mancano mai una domenica, la sorella più piccola confessa al suo animo – e allo spettatore – il disprezzo per una madre presente ma prigioniera delle pasticche.  Incapace di badare alle figlie, di capirle, di giocare con loro, e nemmeno di ascoltarle suonare: le note del pianoforte suonate dai pargoli si infrangevano contro le pareti, invano, disprezzate dal mal di testa della madre, ormai senza forze. E ci confessa ancora di urla straziate, mentre accarezza le sue bambole.
Le mura della casa stanno strette, restituiscono soffocamento e inquietudine. L’unico barlume di luce sono le immagini proiettate sul fondale del palco, che raffigurano una foto delle bambine in tenera età e un muro di mattoni rossi.  La madre, incarnata ora nel corpo della sorella maggiore, fissa il vuoto e giustifica la sua scelta di murare vive in casa le sue figliolette per una vita intera. Intendeva proteggerle dalle maldicenze del paese, dalla sozzura del mondo.  Passano una vita senz’aria, ma protette: da cosa?


Così il teatro ritorna alla sua antica funzione, quella di ricordare i sacrifici umani: le due donne, uccise dalla madre, ritornano a presentare le loro vite tormentate solo tramite il racconto. Il delitto, compiuto tanto tempo prima, viene in questo modo espiato tramite l’incontro col pubblico. Sembra quasi che la morte, anche se terribile e per soffocamento, sia una liberazione da quella casa che toglie il respiro: la corda annodata al collo che “co-stringe” dunque alla libertà.


Visto all'Officina Teatrale dei Malcontenti, Bologna

A.S.

martedì 8 aprile 2014

La biblioteca ritrovata di Eleonora Duse: la ri-scoperta di Cambridge domani nell'Aula Magna Santa Cristina

"Vi invio l’invito a una manifestazione importante.
Riguarda infatti la scoperta a Cambridge della biblioteca di Eleonora Duse che si credeva perduta.
E, di conseguenza, la scoperta della sua straordinaria cultura (tutti i suoi libri sono stati schedati).
Un abbraccio,
Laura Mariani"

Professoressa all’Università di Bologna, Laura Mariani (assieme alla Centro delle Donne Città di Bologna e Orlando, Associazione di donne) ha organizzato un pomeriggio di studio per  avvicinare studenti, studiosi e curiosi all’ arte della grande attrice ottocentesca Eleonora Duse (1858-1924).
L’appuntamento è domani 9 aprile 2014 ore 17.00 nell’Aula Magna di Santa Cristina.


Mercoledì 9 aprile 2014 ore 17.00 
Aula Magna di Santa Cristina
Via del Piombo, 5 Bologna

La biblioteca ritrovata di Eleonora Duse
a cura di Laura Mariani




Presentazione del libro
The Murray Edwards Duse Collection, Mimesis 2012
alla presenza di Anna Sica e Alison Wilson.

Letture dal  libro di
Anna Amadori, Francesca Ballico, Laura Grossi, Silvia Lamboglia, Marinella Manicardi, Mirella Mastronardi, Francesca Mazza.

Piccola esposizione di libri su Eleonora  Duse posseduti dalla Biblioteca Italiana delle Donne