giovedì 30 gennaio 2014

Bestie rare in Aspromonte

Al Teatro delle Moline, Angelo Colosimo porta in scena il male quotidiano di una cultura arcaica e cruenta. Il paradosso è che si ride, e anche di gusto, quasi fino alla fine.

 
Fa benee scordate, fa male e penzace. Oppure hai mu pati, mu 'mpari... ma la lista proseguirebbe all’infinito: all’uscita della piccola sala delle Moline, il cervello è invaso dalle massime più disparate, massime generate da quella cultura popolare che si offre nella sua brutalità semplice e affascinante allo spettatore di Bestie rare. Semi-dramma in lingua calabra. Un attore solo sulla scena, in compagnia di un’accetta arruzzata, uno sgabellino in legno e una storia non proprio facile da raccontare, metaforicamente animata dalla grande massima: chi è senza peccato scagli la prima pietra. La lingua calabra, ballata di suoni duri orchestrati in melodie antiche, è la formula che ricrea il sapore di una terra genuina, passionale, a volte accecata dal sole e incapace di distinguere il bene dal male.

 
È accusato di una marachella non proprio bonaria la piccola criatura che, con gli occhioni tristi di chi è in castigo ingiustamente, ci fissa sin dal nostro ingresso in sala, un misfatto che gli viene imputato senza processo né beneficio del dubbio da Micu u vigile, il pazzo del paese che, accecato di rabbia, con un’accetta gli tenta il collo e con una mano gli torce un braccio. Ma lo spettatore ride: il racconto non può che scatenare l’ilarità per i toni con cui è costruito, per i luoghi comuni e le gergalità di cui è arricchito; è uno spaccato consunto di vita vera quello che ci viene narrato, una quotidianità che si riconosce antica, passata, o almeno così si spera. La scrittura di Angelo Colosimo si nutre di una costruzione registica attenta, pulita, che si limita a “fare un po’ di ordine qua e là, lasciando che parole tutti gli incantesimi del caso”, come ci racconta Roberto Turchetta nelle note di regia. La circolarità del male, che il testo snocciola come le perle di un rosario, si traduce in scelte registiche mirate: è un movimento in tondo quello che guida l’azione di Colosimo, un cammino che richiama la tastiera di quei telefoni di una volta dove per comporre la sequenza dei numeri dovevi partire dall’inizio. All’inizio della storia del piccolo bricconcello di paese c’è una violenza inaudita, rara forse per chi oggi la vede in scena, e a mano a mano che la storia avanza, i cerchi di luce che segnano le stazioni della piccola via crucis illuminano manifestazioni del male sempre più brutali, forme di sfogo per una comunità che riconosce il perdono solo a chi è ormai morto in croce. Inizia il calvario, lo guidano centurioni dalle mani grosse e dure in sottogonna nera e croce al collo, lo animano motti di spirito tra i quali svetta per sarcasmo implicito: “tranquillo, ca mo ni facimu giustizia”.
 
 
È tutta in questa frase la tempra di Zia Lisa, simulacro dell’immagine tradizionale della donna: custode del desco, saggia depositaria del credo cristiano che in quelle terre fa tutt’uno con la legge, lei è la prima immagine di salvezza per il piccolo Cristo. Ma non risparmia dolori e accuse, quest’angelo del focolare, perché è vero che le anime dei bambini sono della Madonna, ma è pure vero che la giustizia, per farsi, ha bisogno di un colpevole. E allora via per le strade del paese, via per i sei cerchi che segnano il piccolo spazio scenico, con lo sgabello portato in spalla a mo’ di croce inizia lo spettacolo per grandi e piccini: venghino, signori, venghino, abbiamo un’altra bestialità da sottoporre ai vostri occhi e al vostro dileggio, fatene ciò che volete. I lupi si scagliano sul ricco pasto mentre il poveraccio disperato afferma la sua innocenza. Lo salva la mano del parroco di paese: il lupo più forte ruba il pasto al branco per goderselo nell’intimità della propria tana. Il cerchio del male potrebbe chiudersi qui, in questo climax disperato dove tutti i fili si riannodano, la salvezza cristiana è fagocitata dalla violenza più inaudita e i passaggi drammaturgici si increspano nel tragico (“lecca bastardo che per te è miele e per me è vergogna… io un me sentu nenti”), ma la storia non finisce così.
 
 
Il punto di chiusura è ben altro: l’omertà intimata dalla Madre, dalle mammelle che nutrono e consolano, ecco la fine per questo girotondo di mostri nascosti in abiti talari e donne dalle lacrime dure. Vince la cultura del silenzio, il sentimento di vergogna, la giustizia popolare che poco sa e poco vuole sapere. Vincono le bestie rare, perché se pecora diventi lupo ti mangia. Chissà cosa ne sarà della piccola criatura, chissà se si farà lupo per sopravvivere al branco o morirà da anima pura. Intanto il cristo è stato flagellato, e la strada della crocifissione per lui non è poi così lontana.

 
Bestie rare semi-dramma in lingua calabra
con Angelo Colosimo
Visto al Teatro delle Moline. Bologna, 28 gennaio 2013

Elvira Scorza

lunedì 20 gennaio 2014

Flamenco come voragine nella morte: Israel Galvan inscena l'eccidio gitanos a Barcellona

Confrontarsi con uno spettacolo di flamenco significa insinuarsi letteralmente tra le feritoie strette e intrecciate di una danza tradizionale, simbolo dell'Andalusia e della Spagna stessa, fatta di movimento, corpo, musica ed espressività che in scena crea un nuovo essere capace di scolpire con il proprio corpo la tessitura sottile e frammentaria di un racconto.



Se poi il titolo dello spettacolo è Lo Real e a librarsi sul palcoscenico sono i tacchetti impazziti di Israel Galvan, uno dei ballerini più talentuosi che la Penisola iberica, ad oggi, possa vantare,  il flamenco in questione non parla solo di tradizione ma si tinge poeticamente di contemporaneo.
Gli occhi dello spettatore, dal divoratore di flamenco, alla persona meno esperta e più profana in materia, si trovano così ipnotizzati da un corpo-calamita che trascende qualsiasi separazione e attrae su di sé ogni piccolo segmento di espressività, fino ad annullarsi completamente in essa.
Si materializza così in scena un corpo che risucchia, ingoia e trasforma tutto quanto lo circonda, toque, (chitarra) jaleo (incitazioni a voce) palmas (il battito delle mani) cante (canto) compresi, fino a risucchiare sé medesimo, fino a scolpire ogni tratto del proprio essere materia viva in flamenco. Fino a divenire “il” flamenco.
Appare così, fin dal primo istante, uno spettacolo che Israel Galvan crea e propone per narrare ciò che forse risulta più difficile raccontare: l'eccidio nazista dei gitanos, antenati dello stesso ballerino.
Un racconto immerso in uno spazio essenziale e minimalista: i musicisti e cantanti sul fondo, separati tra loro da piccole panchette in legno da cui si diramano poche luci, alcuni pannelli in cartone sparsi nella scena, e alcuni oggetti che entrano in contatto, via via durante lo spettacolo, con la danza di Israel Galvan.
Il filo che si annoda nel corpo del bailador diviene dunque quello di una pregunta (domanda) costante che assume via via tratti distinti.


Piccole lanterne si accendono sul fondo della scena e sembrano così evocare l'inizio di una festa-rituale, o forse piuttosto il ricordo di essa, come se questo apparente inizio corrispondesse in realtà a una fine: il pannello recitante la scritta Se corta el arie (Si taglia l'aria) esplicita il presentimento che qualcosa di profondamente devastante sta per accadere.
Nella semioscurità ecco apparire il corpo di Israel Galvan, che nel silenzio più profondo inizia a scolpire linee sagomate in una danza vortice in cui si precipita in fretta. Il suono deciso dei tacchetti delle scarpine da ballo vanno a costituire l'unica partitura musicale, insieme al rumore violento di due fruste fatte schioccare con ritmo sul palco da un musicista. Poco dopo, le fruste vengono sostituite da due pietre che, fatte sfregare l'una contro l'altra, accompagnano e dialogano con la danza frastagliata del ballerino.
Il corpo di Israel inizia a tagliare letteralmente l'aria, insinuandosi negli strappi d'essa, nella voragine che sta per inghiottire tutto.
Ecco il primo e lancinante sguardo sulla morte verso cui sono destinati los gitanos.

Con Un hombre: de los muertos crecen flores (Un uomo: dai morti nascono fiori), il passo immediatamente successivo dello spettacolo, Israel Galvan inizia a dialogare con la morte, ovvero con il destino del suo popolo.


Sulla scena appare la carcassa di un pianoforte: dai suoi tasti distrutti, dagli accordi che non esistono più, si diffonde la polvere della morte stessa, di una sofferenza straziante con cui il ballerino non smette di dialogare, accompagnato, da questo momento in poi, da tutti gli elementi fondanti del flamenco, ovvero cante, toque y chaleo. Senza contare gli altri strumenti, tra cui il clarinetto, il violino, la tromba che danno vita a un linguaggio musicale, che, fondendosi a quello della danza di Israel Galvan, produce una partitura multisensoriale a cui lo spettatore non può sottrarsi.
Partendo da un piccolo tocco stonato del piano suonato con la scarpina da ballo o con la mano, il ballerino cerca di produrre da questo gesto un movimento portato fino all'estremo, affinché ciò che appare agli occhi di tutti come qualcosa di estinto torni ad avere parole, ritorni a essere materia viva nel qui e ora. Ritorni a essere appunto quei flores che Israel Galvan fa nascere dalla disperata ricerca di un contatto con ciò che è stato, dall'interrogarsi frenetico di un perché, dal sentirsi segnati, marchiati da un destino di sterminio e di morte.
Il corpo del ballerino diviene il punto di contatto e il tramite tra la morte e la vita.

Durante lo spettacolo si insinuano anche le storie di due donne gitane: la prima, Una mujer: el cielo tiembla y se cae, (Una donna: il cielo trema e cade) vede una ballerina tracciare con il proprio corpo una danza fatta di linee discontinue. Quelle stesse linee che poi si ritorcono contro di lei, visto che la giovane donna si ritrova materialmente imprigionata nei fili stessi che si diramano dal pianoforte rotto fino al centro della scena. Dopo averli scrutati con sospetto, la tentazione di insinuarsi e danzare con quei fili la porta inevitabilmente a cadere alla fine di questo passo.


La seconda donna, Carmen - dal titolo del passo Carmen, la chince y la pulga (Carmen, la cimice e la pulce) - rappresenta forse l'animo e i caratteri gitani per eccellenza: la ballerina danza attorniata e incitata da cantanti e musicisti mentre lo sfondo che la circonda si tinge di rosso. Il flamenco ritorna qui al suo alveo più tradizionale, segnando all'interno dello spettacolo uno dei passi forse più giocosi.

Si giunge così al momento culmine dello spettacolo, in cui Galvan ritorna sulla scena per la prima e ultima tappa del genocidio de los gitanos: il viaggio verso i campi di sterminio, il viaggio verso la morte.
In scena, quattro colonne giacciono a terra: sono i binari su cui viaggiano i treni dei deportati.
Nella danza successiva Israel  inizialmente si destreggia sui binari, in equilibrio precario, fino a guardare frontalmente, mentre continua nella sua danza vortice, una luce abbagliante, il faro di un treno: la luce che acceca, la luce che segna il destino, il termine ultimo, la tappa di non ritorno.
Il corpo del ballerino scolpisce fin nel più piccolo movimento una danza della morte, in una ricerca continua del contatto con quello che percepisce profondamente come il proprio destino.
E in questa danza serrata, un'altra ballerina, che sembra portare con sé il velo nero della morte, si unisce alla danza di Israel: i due corpi iniziano a inseguirsi, a ricercare un contatto, entrambi microparticelle di un disegno già tracciato, mentre una voce continua a pronunciare freddamente parole in un tedesco senza senso. Mani, gambe, piedi si intrecciano nell'ultimo, straziante fremito di vita.


Una semioscurità ritorna, come nel momento del prologo, ad avvolgere l'intera scena. Tutti, musicisti, cantanti e ballerini si riportano in fila, al centro del palcoscenico, insieme a Israel Galvan. E poi scompaiono oltre un muro che viene innalzato frontalmente nel proscenio da alcuni inservienti di scena. Pochi istanti di luce e poi di nuovo il buio.

Non ci poteva essere epilogo differente, se non quello di una barriera che separa, divide, cela ciò che resta aldilà delle sue costruzioni. Non solo il muro dei campi di concentramento: la materialità dura e sfrenata della criminalità umana. Ma anche il muro dei perché, il muro della ricerca di risposte, il muro dei paradossi con cui sono stati legittimati interi genocidi.
Il muro non esclusivamente del passato ma anche dell’oggi: la ricerca del perché dei mille stati di eccezione che l'umanità è stata ed è in grado di creare e giustificare si scontra inevitabilmente con quegli stessi muri nell'impossibilità di risposte.

Uno spettacolo, quello di Israel Galvan, che traccia in maniera lucida e definita un racconto difficile. Non solo. Nei movimenti sinuosi, negli strabilianti tacchettii impazziti di quello che pare essere un flamenco intessuto sul suo corpo, Israel non descrive semplicemente fatti, ma piuttosto una condizione, un destino, una natura, un modo d'essere che appare profondamente appartenere all'oggi.
L'essere “Israel Galvan”, l'essere profondamente gitano insieme a quella comunità di persone, di anime, di passioni, di dolori, che ha richiamato continuamente sul palco.


Il flamenco del ballerino andaluso riesce inevitabilmente a trasudare, nel più piccolo granello di plasticità, la durezza, la forza, il dolore dello scontrarsi con qualcosa di così grande e terribilmente perverso. Nessuna risposta, certo. Ma resta un corpo, quello di Galvan, materia viva, pura che riunisce su di sé la ricerca di un dialogo continuo tra passato e presente.
Le parole, le lettere, le sillabe si uniscono tutte in quei tacchetti che a tratti paiono divenire magici, nel vortice sfrenato di un flamenco che non solo parla, ma disegna, tratteggia, scolpisce, scopre, insinua. Faticosamente ma con caparbia, coraggio, generosità.
Questa forse rappresenta l'unica e più profonda tra tutte le risposte possibili: un toque, un palmas, un baile, un chaleo. Un mondo che nella sua strabiliante, multiforme capacità espressiva, continua a vibrare e a diffondere un'eco inequivocabilmente gitana.


Per vedere un video con i tratti più salienti dello spettacolo, clicca qui.

Visto al Mercat de Les Flores, Barcellona il 17.01.14

Carmen Pedullà 

sabato 18 gennaio 2014

I fantasmi del passato del Servitore senza maschera: l’Arlecchino di Latella

Il Servitore di due Padroni di Antonio Latella, ancor prima di approdare a Bologna, portava con sé critiche, dalle più feroci e tradizionaliste, alle espansive e lungimiranti.


Balza subito all’occhio la proposta di un Goldoni non convenzionale, ambientato di fatto in un albergo anni Sessanta. Una parapettata con porte numerate, lampade da muro, un ascensore e un televisore sul fondo sempre acceso su programmi inglesi faranno da cornice alla celebre commedia che dal suo primo debutto del 1745 ha acquisito non poche novità.
Merito (o colpa) anche del drammaturgo attore Ken Ponzio, il quale sfida i puristi per tentare di smuovere le fila di un teatro italiano che, più che stabile, sembra fossilizzato in un tempo non più attuale. A investire sul progetto, tra l’altro, sono proprio i teatri stabili (Emilia Romagna Teatro Fondazione, Fondazione Teatro Metastasio di Prato, Teatro Stabile del Veneto) che condividono l’impresa della  totale riscrittura dell’opera; perseguire il dovere di parlare con la forza della tradizione all’uomo per lanciarsi in avanti, nel tempo che verrà.


Il racconto è stato destrutturato tanto da non riconoscere il testo originale. Le luci della ribalta presentano Brighella Cavicchio (Massimiliano Speziani), vestito di tutto punto in frac, che sgambetta da una parte e l’altra del palco, impegnato a rincorrere le due personalità che incarna: il proprietario del lussuoso albergo che accoglie gli ospiti, e il narratore che legge le didascalie del copione con voce amplificata dalla cornetta di un telefono, preannunciando atti e azioni dei protagonisti. Questi parlano tutti in italiano corrente, all’infuori di Pantalone che non abbandona il dialetto veneziano. Indossano tailleur, gonne e scamiciati tranne Silvio Lombardi, pretendente di  Clarice, figlia di Pantalone De Bisognosi, in parrucca e braghe settecentesche. 


Le  ambigue geometrie di relazioni intessute tra i personaggi forniscono all’opera di Latella un mélange di commedia e dramma borghese, di antico e quotidiano. Anche le relazioni sociali e identitarie sono destinate ad essere modificate. Il rapporto servo-padrone che lega Arlecchino e Beatrice diventa fraterno: egli diventa suo fratello, quel Federigo Rasponi che si credeva morto, e il legame tra i due viene caricato di un’ambiguità incestuosa insistente, marcata anche dagli indumenti maschili di Beatrice, presenti già nel testo originale, ma ora ancor più accentuati. Florindo entra in scena con la gonna e accompagnato da una musica pop assordante. Smeraldina, la serva spensierata, è elevata a portavoce dei diritti delle donne, Pantalone è il perfetto ritratto dell’uomo d’affari moderno. E poi Arlecchino, sin da subito sdraiato morto e nascosto per metà dietro le quinte, che nega se stesso (infatti si presenta come “Arlecchi-NO, Arlecchi-NO”), nega la sua maschera, tanto da non indossarla neanche. Rinuncia al vestito a rombi colorati per un bianco totale e cerca il suo vero volto: “Morire per non morire, morire per mettere un punto e andare a capo” annuncia Latella in un’intervista. 


Dopo questo lungo preambolo, la seconda parte dovrebbe mostrare il senso vero di tutta l'opera. Il regista e il drammaturgo svelano cuore e radici del dramma. La macchina scenica viene sventrata completamente; tutto viene smontato pezzo-pezzo, mentre vengono trasmessi i rumori e i dialoghi delle prove, registrati e amplificati. In scena Arlecchino, Florindo e Beatrice, o meglio, gli interpreti Roberto Latini, Marco Cacciola e Federica Fracassi. Lei in preda a convulsioni frenetiche si spoglia delle vesti disperate, destinata allo smascheramento dal ruolo. Latini ripete con strazio crescente la Pantomima della Mosca. E poi si invoca la Resurrezione biblica come auspicio vitale.

Il parere del pubblico si spacca in due, chi condanna e chi osanna.

Di sicuro il Servo di Latella è stato un pretesto per ragionare sulla teatralità, sul  rapporto con la tradizione che viene messa in discussione, decostruita e svelata lungo tutto lo spettacolo. Per progredire bisogna osare. Non sempre è facile ammetterlo.

Visto all'Arena del Sole. Bologna, 16 gennaio 2013.

Angela Sciavilla