mercoledì 27 febbraio 2013

Le camere di Tondelli e l'avventura all'amore separato di Adriatico


Una ricorrenza tra le altre. Un personaggio scomodo e inquieto come altri. Pier Vittorio Tondelli muore il 16 dicembre 1991. Una vita spezzata a soli trentasei anni dall'Aids. Andrea Adriatico fa un omaggio a Camere separate, romanzo quasi autobiografico di Tondelli, pubblicato due anni prima della sua scomparsa. Lo spettacolo si chiama Biglietti da camere separate. Due interpreti, Maurizio Patella e Mariano Arenella. Ciascuno distante dall'altro. Ciascuno nella sua camera. Si parlano e parlano al pubblico. Si guardano e guardano il pubblico. Ciascuno dalla propria camera.


Un cerchio tratteggiato con mattoni da costruzione. Gli attori vestiti di camicia bianca e pantalone nero si spogliano quasi fosse il preludio a un atto d'amore. Nessun involucro a difendere le inibizioni. Nudi, si scambiano gli spazi, cercano un contatto in un bacio carnale e appendono le lenzuola a un filo teso, citando una pratica domestica tipica delle convivenze. I due attori raccontano, come in un salotto tra amici, la storia di Leo, scrittore omosessuale che dalla rielaborazione di un lutto inseguirà le particelle di sé disseminate tra i ricordi di una vita inquieta attraverso un viaggio per l'Europa. Le camere separate sono la proposta di un tipo di amore concepito come “solitudine e desiderio rinnovato dalla distanza”, “vissuto per prossimità e mai per convivenze troppo opprimenti”. Thomas ha voglia di vivere con e Leo di vivere senza. Un conflitto che porterà alla separazione e alla decisione, da una parte presa e dall'altra subita, di vivere in due città diverse. La morte del primo per Aids e la fuga in solitaria del secondo che attraversa il non luogo della propria solitudine. Tondelli non ha mai parlato pubblicamente della sua malattia. Omosessualità, silenzio, vita, emozioni. La fuga da un'idea di convivenza e oppressione.


 L'idea di un amore vissuto fuori da canoni stereotipati. Camere separate non è un romanzo sentimentale, ma mette a nudo la vita tra due estremi: l'amore e la malattia. Un teatro che ti guarda negli occhi. Profondità di sguardi. Parole languide e fluide come un torrente tra le due rive di pubblico. Lo spettatore si scopre dividuo nella sua individualità. Un teatro che fa piangere perché riporta a galla traumi e dolori di una vita. Un teatro intimo ed embrionale, vicino ed epidermico. Vicino. Così vicino da sorprendere quei particolari che solitamente sfuggono alla vista, per la distanza tra palco e platea. La camicia bianca griffata United Colors of Benetton, la cicatrice sulla spalla destra, i segni del laccio stretto al collo, i piedi, gli occhi, la nudità dei corpi. Tema centrale è l'amore che fugge dalla possessione di dividere lo stesso spazio.


Un romanzo narrato a due voci. Due registi, due paia di occhi con profondità diverse, due opposti che si equivalgono. Carne su carne, senza veli. Due letti, due camere separate. Buio. Un biglietto, offerto all'inizio dello spettacolo, dice:

“Love is Natural and Real
  But not for you, my love
  Not tonight, my love
  Love is Natural and Real
  But not for such as You and I, my love.”
(P.V. Tondelli, Biglietti agli amici, Biglietto numero 16)

In scena dal 23 al 26 Febbraio 2013 a Teatri di Vita (Via Emilia Ponente, 485, Bologna)
Biglietti da camere separate, uno sguardo di Andrea Adriatico su Pier Vittorio Tondelli.

Angela Grasso

Karamazov: la prova di come linguaggi diversi possano servire la stessa arte



“La solennità è nemica del teatro”. Forse basterebbe citare questa lapidaria riflessione, rubata alle note di regia tra un caffè solitario e un origliare nascosto nei mille brusii della mente intenti a ricostruire i fili conduttori della letteratura russa, per dare un assaggio della regia di César Brie e del suo Karamazov. Ma nulla può sostituire l’impatto con la scena, con la sua semplicità maestosa e possente: tavole di legno inchiodate formano panche che, all’occorrenza, diventano piccoli palcoscenici della narrazione e si trasformano in tavoli battuti dai bicchieri,


teatrini animati da burattini, luoghi scenici in cui l’immenso capolavoro dostoevskijano viene smembrato, sintetizzato, riscritto e assemblato. Per dirlo con le parole del regista, viene “trasformato in teatro”. A dare inizio allo spettacolo, la maestosa figura di César Brie: uno sguardo d’intesa con i suoi attori, una preghiera di rispetto al suo pubblico. “Spegnete i cellulari. Adottate occhi puri. Iniziamo”. E la scena diventa teatro, i personaggi vengono vissuti dagli attori che sin dall’inizio accolgono lo spettatore: non c’è passaggio tenuto nascosto nel lavoro d’interpretazione, non c’è crescita simulata, non c’è sipario a velare la finzione nei cambi di scena. Le luci sono a vista, gli abiti attendono i loro abitanti disposti su grucce simbolicamente modellate come croci cristiane


(e la mente divaga, ritrova legami con scenografie già viste, rivedendo in quell’impianto una certa somiglianza con il secondo episodio de La trilogia degli occhiali di Emma Dante), le azioni sono pulite e l’intreccio non perde il suo fascino, traducendosi da descrizione a svelamento, da racconto letterario a spettacolo teatrale. La storia dei tre fratelli Karamazov e dei milioni di personaggi orbitanti attorno alla loro vita rivive in piccoli e sapienti artifici registici, che permettono alla trama di dipanarsi senza soffocare l’attenzione del pubblico: i passaggi più arditi e tumultuosi vengono assemblati in blocchi animati da marionette agite dal racconto, fasci di luce collegano storie nello spazio e nel tempo della narrazione, funi vibranti coprono distanze letterarie e accorti movimenti scenici collegano il linguaggio teatrale a quello pittorico, velando la passione che anima l’intellettuale e dubbioso Ivan e la tumultuosa Katrina con Gli amanti di Magritte


senza dimenticare come la sofferenza per la morte della madre e l’angoscia per l’umano accomunano l’animo del pittore alla verve del personaggio. Lo spettatore vive ogni singola scena, ne sente la presenza, la realtà nei materiali usati, la fatica del lavoro che ha portato a usarli. Si sente il legno che scheggia le nocche, le funi che scoccano sul magnifico tappeto istoriato (non perché vi siano dipinti sopra scene o personaggi, al contrario i colori fusi sulla superficie scenica riescono a trasformarsi, di volta in volta, in luoghi perfetti per accogliere i passaggi e le ambientazioni del dramma) e non c’è brivido sulla pelle che non passi prima dalle sapienti mani di César Brie. Esemplare è la costruzione della scena dello stupro, genesi della sofferta genialità di Smerdjakov: l’uovo, simbolo della vita e della fecondazione, diviene metafora del grembo materno stuprato e sconquassato dalla violenza del lussurioso Fëdor. Nel rosso liquame si affoga il volto del corpo violentato e da quello stesso liquame è coperta la logica e impassibile crudeltà del quarto erede Karamazov. Non ci si dimentica del piccolo Iljuša, della sua sofferenza per l’umiliazione recata al padre da Dimitrji: non ci si dimentica in generale dei bambini, dell’infanzia come luogo primario nella formazione dell’individuo e nello sfogo della crudeltà umana.


 I manichini creati da Tiziano Fario ricordano la piccola Rosalia Lombardo nascosta nelle cripte palermitane, e abitano con gli attori la scena sin dal principio ricoprendone le stesse funzioni: con loro si prestano a dare vita a vari personaggi e con loro passano da un filone narrativo all’altro arrivando a raccogliere il silenzio della scena dopo la morte del piccolo Iliuša. Rimangono solo i tre pupazzi a guardare fisso il pubblico, mentre una voce lontana intona un canto. La magia continua, l’energia non si disperde, lo spettacolo tiene alta la guardia, quasi non volesse finire. Rimangono solo tre corpicini a raccogliere il sospiro del pubblico, il minuto di attesa, l’applauso, il pianto commosso di Clelia Cicero e il buffetto affettuoso di César Brie ai suoi attori. È un sospiro che dovrebbe salutare la catarsi e precedere l’uscita, ma l’uscita da che cosa?
Non si esce dalla realtà nel vedere Karamazov, semmai si entra in un nuovo modo di raccontarla. Si entra a far parte di una finzione scenica che non potrebbe essere più lontana dalla falsità e più vicina alla realtà.
17/02/2013. Teatro delle Passioni, Modena.

Elvira Scorza


lunedì 25 febbraio 2013

Diario di bordo per Un Otello altro - prima parte. Le premesse, Amleto a pranzo e a cena


Il nostro viaggio verso Otello ci ha regalato una prima gradita sorpresa: la visione di Amleto a pranzo e a cena, che ci consente di pregustare il sapore della prossima produzione shakespeariana di Oscar De Summa. La formula è magica quanto più è semplice: una base di legno su cui si muovono i quattro attori adattandosi con duttile estro ai vari ruoli dell’Amleto, un telo-fondale-arazzo (“un arazzo è per sempre!”, urla con ironia Polonio nella sua agonia), qualche povero strumento (anche musicale, tra cui l’accompagnamento, stile guerriero-cantastorie, del rullo dei tamburi), qualche costume (preso in prestito al generoso Nekrosius). Questa è la versione ufficiale di De Summa agli spettatori, ma chissà cosa c’è dietro.

Abbozzi registici di Oscar De Summa

 La fama e la bellezza del testo non necessitano di altro, solo di una piccola ora di divertimento, così da far riscoprire Amleto anche nella sua vena comica, presente in tutti i testi shakespeariani. Il merito sta proprio nell’aprire un testo forse troppo noto a un pubblico ancora desideroso di (ri)scoprirlo, grazie anche al lavoro sulle maschere della Commedia dell’Arte (Rosencrantz e Guildenstern come due Arlecchini un po’ surreali, con un pensiero-omaggio al capolavoro di Tom Stoppard, Rosencrantz e Guildenstern sono morti.
In sintesi, se queste sono le premesse, non ci resta che aspettare di rinnovare il piacere con Otello.

Fabio Raffo

mercoledì 20 febbraio 2013

Susn, una fiaba troppo meravigliosa?

Il fascino della regia poliedrica di Thomas Ostermeier si dispiega, come in suoi lavori precedenti, ancora una volta in un gioco di netti contrasti. Contrasto in una scena che appare allo stesso tempo ruvidamente spoglia e dissacrata più volte nel corso dello spettacolo da acqua, birra, un water smagliante in cui la protagonista rigetta e poi defeca, fino alla minzione del partner-spalla, ma anche raffinata nella sua tecnologia: tralasciando lo scassato box del videogioco anni novanta in fondo scena, risaltano i microfoni, lo specchio da camerino di diva, gli screen (stile Craig?) che inizialmente rappresentano un campo, ma poi si aprono a filmati quasi lynchiani (penso alla strada nella notte, inquietante overture di Mulholland Drive). Mirabolante per quanto riguarda la tecnologia e il richiamo cinematografico, l’apertura dello spettacolo sul dialogo-confessione davanti allo specchio, ripreso in maxi-schermo, destruttura tutto il discorso e lo rende falso. Non è un caso per altro che l’uomo diventi prete semplicemente indossando il collarino bianco: si svuota così tutta la sacralità della confessione.


 E di nuovo il testo viene messo in crisi nella fase di passaggio adolescenziale di Susanne, attraverso la recitazione in unisono dei due attori, in un rimbombo e distorsione del suono-video davvero suggestivi. Un altro contrasto, netto, si può certo sottolineare tra la parte preponderante di Susanne, una bravissima Brigitte Hobmeier, che si adatta con notevole trasformismo ai rapidi cambi d’età (eccezionale fino al grottesco la restituzione della senilità finale), e invece il ruolo di Edmund Telgenkämper, che restituisce con abile naturalezza e voluto sottotono vari personaggi quasi fossero semplici proiezioni e fantasmi di Susanne. Gli attori eccezionali, il testo di Herbert Achternbusch forte, dagli echi ibseniani (il che spiega la scelta di Ostermeier, basti pensare al suo precedente Edda Gabler): l’ora e mezzo di spettacolo in tedesco con sottotitoli è filata come ci si aspetta dagli spettacoli più emozionanti. 


Tirando le somme, il gioco di Ostermeier è vivo, certo, e molto rispetto a certo teatro nostrano, ma se pensiamo ad altre sue regie non sfonda, o forse sfonda troppo: il sovraccarico di percezioni ai sensi, dal cibo offerto inizialmente al pubblico, al pesante puzzo di fumo, anche se certo riprende il testo (“Tu ti nascondi dietro al fumo” dice Susanne al marito), i video e i sottotitoli, purtroppo a tratti poco funzionanti, non aiutano lo spettatore, e forse questo è voluto. O forse c’è una voglia di strafare, un eccesso non più giustificati dall’immagine diffusa di Ostermeier come giovane genio incompreso: volendo cercare il pelo nell’uovo, per riprendere il videogioco in scena, simbolo forse di una vita che si apre e chiude su se stessa ciclicamente (confessione da una parte, dall’altra chiesa sullo sfondo e cerini davanti allo specchio), su questo eccesso potremmo anche siglare un game over.
Susn, regia di Thomas Ostermeier 18 febbraio di Teatri di Vita (Bologna).

Fabio Raffo

domenica 10 febbraio 2013

Firefly: un viaggio nella mente umana


Il sipario non è ancora aperto quando una voce fuori campo pronuncia un conto alla rovescia, sulla falsariga di quello della NASA. Nel buio che regna sovrano sul palcoscenico ci sono cinque sfere di lattice bianco che, roteando su se stesse e illuminandosi dall’interno sotto forma pseudo-oculare,  prendono vita, come fossero cellule. Corpi umani festeggiano la loro «nascita» saltando, balzando qua e là per l’intero perimetro scenico, danzando singolarmente e in coppia per poi strisciare via dietro le quinte. 


Subito dopo questo primo quadro coreografico un passo a due femminile risalta una netta distinzione corporea: una ballerina è bionda, l’altra mora; una muscolosa, l’altra esile; una più protesa verso il pavimento, l’altra verso l’aere circostante. Solo un elemento comune irrompe nella loro disparità, il costume color carne, che rende nitida l’immagine di un unico corpo, avvinghiato su se stesso attraverso una sinuosa danza contact.


A questo punto, cala sul proscenio un telo bianco (proprio come quello usato per i videoproiettori), accompagnato da una dolce musica di sottofondo, in cui domina il tintinnìo di mille campanellini, che catapultano il pubblico in un’atmosfera quasi fiabesca. Il gioco di ombre e d’immagini proiettate, difatti, conduce verso un magico universo arabeggiante, da medio e, persino, estremo orientale: nelle sagome dei corpi dei danzatori ritroviamo il tappeto volante di Aladdin, la divinità indiana Vishnu, la posizione del loto dello yoga. Il tema musicale, poi, sfuma verso lo scroscìo delle onde marine, a cui il visionario coreografo Anthony Heinl decide di affiancare l’immagine simulatoria di una nuotata in mare aperto a più di due metri d’altezza dal pavimento. 
Le note della canzone Teardrop dei Massive Attack congedano il telo immaginifico, che ipnotizza il pubblico con l’immagine di un altoparlante multicolore su cui vanno a sovrapporsi le sagome moltiplicate di uomini e donne, posizionate su di un piccolo carrello scorrevole invisibile.
Il benvenuto in una nuova area di fantasia è affidato ad una ballerina che volteggia, rimbalza e gironzola per tutto il palcoscenico su di una struttura ad anello, molleggiante ed aculeata dalle fattezze vagamente simili a quelle d’un rovo rotolante del deserto.
Ne consegue lo scenario di una sorta di giungla fantasmagorica, dove vige palesemente la «legge del più forte»:  un essere dalla forma indefinita, caricaturizzato da due occhi verdi e il corpo ricoperto di piccole sfere luminescenti, viene divorato dalla bocca di un’altra entità informe, che vaga per il palcoscenico smembrandosi e ricomponendosi a suo totale piacimento.


I due momenti coreografici successivi giocano sull’alternanza del bianco col nero: il primo è il passo a due tra una figura nera e un lenzuolo bianco che l’accompagna in ogni movimento e posa; il secondo è l’assolo di una donna nera fasciata da testa a piedi con bande elastiche bianche, che levita da terra finanche a volare e compiere vorticosissime giravolte a testa in giù.
Si chiude il primo tempo dello spettacolo con l’apparizione di quattro coniglietti, vestiti di colori sgargianti e fluorescenti ma, soprattutto, umanizzati nella mimica gestuale e coreografica, promotrice tanto d’innovazione quanto di tradizione: lo testimonia la ripresa del famoso passo a quattro dei piccoli cigni, tratto dal celebre balletto classico Il lago dei cigni.


Il vero protagonista di tutto il secondo tempo è un materasso nero che occupa tutta l’area scenica. Su di esso i danzatori hanno modo di dimostrare le loro qualità acrobatiche, dilazionate in quattro ulteriori composizioni coreografiche. 
Nelle prime due cinque danzatori, come schegge impazzite, interagiscono attraverso un frenetico alternarsi di salti, capriole ed oscillazioni del corpo, memori della tecnica coreografica moderna di Martha Graham. Fa da sfondo a questo tipo di esibizione, dall’intenso sapore circense, tanto il buio pesto, su cui predominano le righe fluorescenti delle tute super-elasticizzate, quanto la luce più viva, espansa su tutto il boccascena, sotto la quale i ballerini mostrano le loro doti coreutiche rendendo spiritosissimo il contesto: indossano, infatti, dei costumi da bagno degli anni Trenta e ancheggiano coi passi tipici della Hula hawaiiana. 
Ci si avvia, a questo punto, alla conclusione dello spettacolo con la ricomparsa sul proscenio del telo bianco, che questa volta svolge il ruolo di una «quarta parete», sui valori del mondo.  La semplicità della Natura, l’autenticità dei sessi e le evanescenti sfumature del nostro io più profondo vengono letteralmente ritratte dai danzatori  come sulla tela di un quadro, regalando così al pubblico la più grande magia che si possa desiderare: disegnare con la luce.

Visto all’EuropAuditorium di Bologna
Data: 8 febbraio 2013

Marco Argentina


Vignetta del mese: Pupi o Pupari?


Edoardo Pitrè

sabato 9 febbraio 2013

Cuticchio, Eroe dei due Mondi: passato e futuro


Capello argentato e barba folta, braghe lunghe e camicia dalle maniche arrotolate. Un connubio surreale tra Mastro Geppetto e l’Eroe dei due mondi. Affabili mani di artigiano tratteggiano i lineamenti della storia d'Italia sulla sagoma di Giuseppe Garibaldi, dipinto su tela nella scena iniziale.
Drappi di velluto rosso incorniciano un modo di raccontare che affonda le radici nell'antica Palermo, affidato ai pupi che non sono solo marionette in noce o cipresso intagliate ma sono anche fratelli e figli dello stesso padre: Mimmo Cuticchio.
Un'impresa la sua, paragonabile in scala ridotta a quella di Garibaldi: ri-innovare senza tradire la tradizione pupara tramandata da Giacomo Cuticchio, il padre.


Rinnovare un repertorio impregnato di storie d’amore e battaglie per rafforzarlo con la potenza del Cunto, il saper cuntare, ovvero narrare  a ritmo di musica metrica l'epica.
Così la sala InterAction dell'Arena del Sole diventa, per due giorni consecutivi (6-7 febbraio) fucina di storie italiane, anzi della Storia italiana (in occasione della ricorrenza dell'Unità d'Italia), raccontata da U' Principal (Mimmo Cuticchio) che presta la sua voce per narrare le vicissitudini di una penisola che implorava unità; il cappellano Buttà che racconta l'avventura dei Mille vista con gli occhi dei Borboni e i Pupi “popolani” che patteggiano per Garibaldi.


Una voce pungente, a volte melliflua, del Maestro che scansiona le battute in sillabe, per frazionare le parole fino a frantumarne il senso: raccontano il Risorgimento della Penisola da quando un corpo di volontari comandato da Giuseppe Garibaldi parte dalla spiaggia ligure di Quarto (maggio 1860), sbarca presso Marsala in Sicilia, successivamente conquista il Regno delle Due Sicilie permettendone l'annessione al nascente Stato italiano.
Al racconto del Cuntista si sovrappongono diverse scenette che il figlio Giacomo Cuticchio, Fulvio Verna, Tania Giordano da dietro il teatrino dei pupi allestiscono (per esempio lo sbarco a Marsala, l'incontro fra Cavour e Vittorio Emanuele, o la battaglia) “coinvolgendo lo spettatore in una rappresentazione di teatro nel teatro”. 


- È uno spettacolo dove si parla di battaglie ma se ne vedono poche; è molto narrativo, un po' sui generis, lontano dalle rappresentazioni classiche dei pupi, ma secondo me ha anche una profondità epica – commenta il giovane Cuticchio.
E poi riviviamo Palermo bombardata dai Borboni, vediamo speranze rase al suolo e quotidianità fragili in foto originali proiettate su un valoroso tricolore che invade la scena.
Un applauso patriottico dilaga in teatro. Per Garibaldi e gli eroi che hanno lottato per l’unità, per Cuticchio e i suoi Pupi, per la passione con cui ha raccontato una fetta importante della nostra storia.

O a palermo o all'inferno – Lo sbarco di Garibaldi in Sicilia:è  la coraggiosa storia della penisola italiana, raccontata dal teatro dei Pupi siciliani, oggi iscritto tra i Patrimoni orali e immateriali dell'umanità dell'Unesco.

Angela Sciavilla
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Associazione Figli d’Arte Cuticchio presenta O a Palermo o all’inferno – Lo sbarco di Garibaldi in Sicilia
Ideazione scenica, drammaturgia e regia: Mimmo Cuticchio
Oprante – contastorie: Mimmo Cuticchio
Manianti e combattenti: Giacomo Cuticchio, Fulvio Verna, Tania Giordano
Assistente alla regia: Heidi Mancino
I pupi tradizionali sono stati costruiti da Salvo Bumbello, Gaspare Canino, Francesco Caruso, Peppino Celano, Guido Cuticchio, Mimmo Cuticchio, Antonino D’Agostino, Paolo Galluzzo, Enzo Moavero, Cola Pirrotta.
Le teste di Giuseppe Garibaldi, Nino Bixio, Colonnello Bosco, Vittorio Emauele II, Francesco II, Cavour, così come le sciabole e i fucili dei borboni sono stati realizzati da Nino Cuticchio, i vestiti dei pupi tradizionali da Pina Patti Cuticchio, i vestiti dei garibaldini, dei borboni, dei nobili napoletani, di Francesco II, Cavour, Vittorio Emanuele II, Maria Sofia e Giuseppe Buttà da Tania Giordano.


martedì 5 febbraio 2013

L'Origine del Mondo parte da Ravenna: sold out per il Teatro Rasi


Senza sipario, senza finzione: il due febbraio sul palco del Teatro Rasi di Ravenna vive la paura del quotidiano. Tra cambi a vista e tecnici impassibili, si torna all'Origine del mondo. O meglio, all’origine del male del mondo: la solitudine.
Un gineceo di silenzi che passano da madre in figlia e da figlia in madre, senza tormenti né ipocrisie, privo di frasi fatte e ricco di semplici realtà quotidiane vissute mille e mille volte ma rese incredibilmente vere e straordinariamente divertenti dall’incombenza di un palco, dalla bravura di Daria Deflorian, Federica Santoro e Daniela Piperno (a cui perdoniamo qualche frase ciancicata e dimenticata). 


L’Origine del mondo, ritratto di un interno supera la prova del vincitore, mostrando di meritare l’Ubu per il nuovo testo italiano: la fluidità dei dialoghi, la freschezza dei monologhi lunghi ma non per questo pesanti, l’ironia calzante nel trattare le disgrazie della solitudine vincono la pioggia battente che accompagna l'accesso degli spettatori al teatro ravennate. Tre atti che si scolano uno dopo l’altro senza problemi, tre momenti di incursione nella quotidianità di Daria (la Deflorian, vincitrice dell’Ubu come miglior attrice) affamata di felicità, o semplicemente di serenità, che cerca di saziarsi davanti a un frigo in piena notte mentre la figlia le sussurra la sua impotenza, la sua forza nel cercare di starle vicino senza pretendere di poterla aiutare, semplicemente cercando di esistere. Per lei, con lei, vicino a lei. Fino a diventare come lei. Alla tenue luce elettrodomestica ci grava sullo stomaco la clausura di una donna-madre-figlia insoddisfatta, apatica, collerica e beatamente cosciente di esserlo che rovescia il suo male di vivere, la sua paura di conoscersi troppo o troppo poco sulla piccola Federica (la Santoro, altro premio Ubu) che dapprima tenta di reggerla al limite del baratro, poi continua a vederla scivolare, lentamente, e si ritrova a sentire l’apatia galleggiarle nelle viscere. “Il dolore dell’origine non si ripeterà” scrive Lucia Calamaro, regista oltre che autrice, ma in realtà è proprio quel dolore la cesoia tra cordoni ombelicali che rimpolpa i dialoghi domestici, le fami notturne e si intrufola nel rapporto figlia-vocabolario-madre come unica risposta possibile ai tanti perché dell’infanzia. Ma non vi è nulla di drammatico, apoplettico o statico: si ride da matti a sentir parlare di depressione.
“Ѐ successo di nuovo. Sono tornata alla casella iniziale. Io non esisto più”.


Poi Federica chiude gli occhi e diventa l’analista, questo santone che alla luce improvvisa e accecante dei fari sembra voler fare un po’ di paura con quegli occhioni neri disegnati e quei gesti perfetti, cadenzati. Ѐ l’alter ego di Federica, è colei che riesce a dialogare con la madre o almeno l’unica con cui Daria parla credendo di essere capita, ascoltata. Vana speranza: nell’ultimo atto l’analista si prende tutta Federica, non solo i suoi occhi, ma usa tutto il suo corpo per urlare la sua fragilità routinaria, scostante e divertente. E per chiarire la sua più totale sordità alle paure di Daria. Nel mezzo, arriva la nonna (Daniela Piperno) che irrompe nell’intimità sonora madre-figlia. E urla tutta la sua incapacità di comprendere, di capire. Lei filosofeggia sui canovacci e sul loro rimuovere le tracce dell’esistere, ma per il semplice gusto di filosofeggiare, lei sbatte in faccia alla nipote in pigiama la sua teoria sull’andare avanti sempre e comunque sopravvivendo alla noia senza morirci dentro e non riesce a vedere sua figlia oltre le barriere del “pigra e viziata”; non vede il suo dolore. Al contrario della non più tanto piccola Federica, cerca di accollarsi il ruolo di salvatrice e porta in scena tutte quelle figure nominate ma non viste (il marito, la donna di servizio) che vivono sulla soglia dello spazio, tra dentro e fuori, tra esserci e fregarsene, tra aiutare e disperare. Assiste, basita, all’impotenza di una ragazzina che urla i pensieri sussurrati da sua madre tra uno sguardo attento e un gesto ripetuto, senza possibilità di salvezza, senza possibilità di ritorno.
“[…] io non faccio fatica a svegliarmi. Faccio fatica ad alzarmi”.
Sono battute come questa che ti fanno capire quanto labile sia il confine finzione-realtà vissuto sul palco senza sipario del Teatro Rasi, sono piccole scosse che ti salgono su tra un piattino e l’altro del buffet, tra un atto e l’altro della pièce, mentre stai lì a ridacchiare perché ti stai divertendo, ma stai anche pensando, terrorizzata, che quella frase l’hai pensata anche tu, una mattina, prima di scuoterla via nel tran tran quotidiano.
Tra frigoriferi realmente pieni, denti vivamente masticanti, lavatrici umoristicamente funzionanti e agrumi rotolanti, si arriva alla fine. Si arriva al testamento finale di una donna che sa di cadere e chiede scusa del suo cadere, del suo tardare a rialzarsi, del suo non saper amare. In realtà Daria continua, disperatamente, a ricercare la chiave di lettura per capire se stessa, il suo dentro ma anche quel fuori che la terrorizza con i suoi personaggi così perfetti, così bisognosi di salvare le apparenze e categorizzarle senza riserva e senza scopo: dichiara la sua lontananza rispetto all’“arte della torta ben lievitata” e si apre al disgusto nel parlare della vita e di tutte quelle micro cerimonie fatte di pranzi tra parenti, feste comandate e vacanze al mare. E mentre osserva sua figlia somigliarle sempre più, tra un piatto lavato e un bicchiere asciugato il suo sguardo di madre torna a governarle il volto: dopo lunghi monologhi a due, dopo ansie urlate e voci represse, dopo compleanni ignorati e affetti spezzati arriva la battuta finale: “dai, quanto ti serve?”.
Non se ne esce, da uno spettacolo così.
E mentre ti fai strada, all’uscita, tra spettatori frettolosi di recuperare il proprio ombrello e martiri a cui la pioggia battente l’ombrello l’ha già divelto, te ne stai lì a pensare su come sia difficile gestire, nella vita di tutti i giorni, l’infelicità con un sorriso. Sarà perché siamo tutti davanti alla stessa realtà, sullo stesso palco. E il più delle volte senza applauso finale.


Elvira Scorza

venerdì 1 febbraio 2013

Pas de Deux: il ritratto di due corpi speculari


Affabulazione di corpi. Una scrittura che non si interroga a voce, che si esprime a tratti profondi e gesti istantanei. Due corpi e una sceneggiatura di movimenti. Amore di corpi senza anima e passi che trasudano non vita. L'abitudine a esprimersi attraverso i sensi. Raimund Hoghe presenta in prima nazionale a Teatri di Vita il suo ultimo spettacolo Pas de Deux, accompagnato dal danzatore giapponese Takashi Ueno. Raimund Hoghe è stato per vent'anni drammaturgo e collaboratore di Pina Bausch. Premiato in Germania nel 2008 come miglior danzatore di Tanztheater. In seguito, la poesia corporea di Pier Paolo Pasolini e in particolare il verso gettare il corpo nella lotta, lo ha indirizzato a una ricerca sul linguaggio del corpo.


 Il suo corpo è minuto e segnato da una grave malformazione. Il suo volto contratto ricorda i ritratti di Egon Schiele. Pas de Deux è un'indagine al maschile, nonostante quando si parli di “passo a due” si pensi quasi esclusivamente al balletto classico tra donna e uomo. Una ricerca sofferta e autoironica sulle differenze che conducono al dialogo. Lavorare con Pina Bausch lo ha portato all'accettazione consapevole del suo corpo e delle potenzialità inespresse. Non è teatro di disabilità, non è arte-terapia. La ricerca, che parte dal corpo, ha per finalità l'arte. Due attori con formazioni diverse. Una pièce per due universi differenti ma complementari, due compagni di viaggio, uno alter ego dell'altro, per un medesimo cammino. Uno giovane e giapponese, l'altro anziano e tedesco.


 Uno ha un fisico da danzatore, l'altro no. Sulle musiche di Purcell e Bach lo spettatore si lascia andare a quel dormiveglia che trasforma i segni in sogni. Una fatica per lo sguardo. Si oltrepassa la soglia, quel passaggio dallo stato di veglia al sonno. I sensi si acutizzano. Lo spettatore si addormenta. I movimenti diventano fluidi. Il corpo non è un meccanismo di agglomerati, non è un organismo. Ogni sua parte ha un ritmo personale, un'anima e un significato a sé stante. La mano si muove di vita propria seguita, in contemporanea, da braccio, spalla, gamba destra, gamba sinistra, bacino, viso.


Una sinfonia armonica di espressioni. Non sono previsti toni accesi, nessun gesto sconsiderato. Violenze acustiche di tonfi e tuoni inserite per pungolare lo stato di dormiveglia. Il buio scende all'improvviso, si spengono i riflettori. Rivoli d'acqua scendono le vaste pianure di un braccio teso, il rumore delle gocce sul suolo e i passi nudi. L'attore si spoglia e sembra dire: io sono questo, accettami così. Salti e corse in cerchio, un passo a due e l'affinità che lega i due corpi in uno solo. Una cura minuziosa per i particolari, linee perfettamente rette, passi coordinati, sguardi languidi. L'omaggio a Audrey Hepburn, il disastro di Černobyl' e i movimenti che citano gli insegnamenti di Pina. Uno spettacolo, lo spettacolo, che si assorbe fin dentro le vene, nella pelle, nella mente e nell'anima.
In programmazione giovedì 31 gennaio e venerdì 1 febbraio per i vent'anni di operato di Teatri di Vita (Via Emilia Ponente, 485, Bologna) Info. 051 566330

Angela Grasso

Studio per uno spettacolo presidenziale: Celestini e i suoi Discorsi alla Nazione


Dittatori parodiati, sbeffeggiati e alla fine eliminati con un colpo di pistola. Nel nuovo studio per un possibile spettacolo, Ascanio Celestini, attore ma soprattutto narratore, esamina gli uomini di Stato, i pontefici, i potenti, i governatori, i capi di Governo e di regime. Fa satira ma non cade nella trappola della banalità; non ha in mente questo o quel personaggio; non tratta questa Italia o quella passata; non si riferisce solo alle politiche di destra o solo a quelle di sinistra; non sono raccontati gli atteggiamenti solo della nostra cultura o solo i costumi di Paesi stranieri. Celestini, con Discorsi alla nazione - Studio per uno spettacolo presidenziale, è interessato a deridere ogni sistema di regime presente, passato e futuro. L'unica cosa che hanno in comune, i personaggi immaginati, è l’essere affacciati a una finestra o a un balcone e che tutti diventano, con le frecce dell'ironia, bersagli, con tanto di cerchi concentrici bianchi e rossi, da colpire.

Sul palco c'è solo una sediolina di legno e un microfono. E se è vero, come ci tiene a precisare il protagonista all'inizio dello spettacolo, che la condizione per cui ci sia teatro è la compresenza di “almeno un attore e di almeno uno spettatore”, è anche vero che teatro vuol dire vedere. E Celestini galoppando le parole è perfettamente in grado di far apparire immagini incollando al racconto il pubblico per oltre due ore.


Uno sketch dopo l'altro Celestini racconta i disagi del popolo dal punto di vista dei dittatori; racconta con il suo solito stile pieno di anafore lapidarie e confermatrici; ma questa volta come già aveva sperimentato con il precedente lavoro - Pro patria - prova toni di voce da dare ai personaggi; non è più il narratore onnisciente che tutto sa e tutto può, piuttosto incarna ruoli: e se lui è il dittatore, gli spettatori senza troppa difficoltà si prestano a essere i cittadini-sudditi.

I temi trattati sono molti: dal lavoro alla politica, dallo sfruttamento al capitalismo, dalla coscienza di classe alla guerra, dagli abusi e i soprusi a ogni forma di violenza. Critica tutte le forme di potere e di controllo.


 Studia Celestini, cerca di capire come reagisce il pubblico e fino a dove si può ancora spingere nella sua personale battaglia per la libertà. È un'operazione per interfacciare storie inventate con la Storia ufficiale. È un lavoro che ci mette allo specchio facendoci quindi prendere consapevolezza delle nostre stesse azioni.

Lo spettacolo, che è stato la punta di diamante della stagione dell' ITC Teatro di San Lazzaro di Savena, ribadisce ancora una volta il legame dell'artista con il teatro bolognese.

Celestini continua a essere presente a Bologna con la presentazione del libro Pro patria che si terrà giovedì 7 febbraio 2013 all'oratorio San Filippo Neri in via Manzoni 5, alle ore 18. L'artista sarà intervistato da Massimo Marino che curerà l'incontro.

Visto al Circolo Arci Bellaria a San Lazzaro (Bo) lunedì 28 gennaio.

Josella Calantropo