martedì 30 luglio 2013

Sguardo sul festival di Avignone 2013 | Giorno XIV (26 luglio)

Lear is in town
Mise en scène Ludovic Lagarde

«Lear è in città», la città della follia, dell’esilio fisico e mentale: «the bannishment is here», l’esilio è qui, recita la scritta a caratteri cubitali stile Hollywood che campeggia sulla Carrière di Boulbon. La città di una landa completamente deserta, forse anche troppo, visto che l’allestimento si riduce a quella scritta e a una grande cassa acustica nera in centro scena, più altre casse più piccole che circondano l’area scenica. Il minimalismo è presente in scena anche nella scelta di affidare questo testo a tre attori, e così la scelta di un luogo così imponente non si spiega, per una regia che invece sembra voler indagare i risvolti più intimi e psicologici del Re Lear. Solo il rapporto di Lear con le forze della natura presente nel testo giustifica questa scelta, ma non la nudità troppo opprimente di questa regia. Anche affidare il testo a soli tre attori sembra rispondere per lo più a un brutale fattore pragmatico: la scelta testuale iniziale era un’altra, ma i diritti d’autore su Don De Lillo non sono stati concessi, e così il gruppo già composto ha ripiegato su Lear, affine pare per certe tematiche con il testo di De Lillo. Una buona recitazione, ma non eccelsa, e un interessante uso del suono non bastano a salvare una riscrittura inutilmente complessa del testo. Lagarde e la sua drammaturga Marion Stoufflet mantengono del testo originale solo il nucleo essenziale della follia di Lear, estendendola anche a Cornelia e al fool che accompagna il re nel suo esilio. Viene perciò tagliata tutta la parte più politica del testo, e tutta la trama che riguarda Gloucester. Le due sorelle malvagie appaiono solo come voci dalle casse acustiche – diventando un’ossessione nei ricordi delle tre menti malate. L’elemento più interessante dunque di questa regia è l’idea dell’utilizzo del suono, per evocare il passato e renderlo un’ossessione per i personaggi shakespeariani. Funziona soprattutto per la scena iniziale della condanna di Cordelia, che parte dalle casse acustiche ed è poi ripetuta come un loop dal vivo dal re Lear e dalla figlia. Tuttavia una sola idea originale non basta a sostenere tutto questo montaggio complicato del testo, che si rivela perciò debole, come dimostra una fine fin troppo brusca. Eliminando la trama del testo, esso crolla e il finale non ha ragion d’essere perché non lo ha nemmeno nel suo divenire. «Sono l’ombra di me stesso» afferma Lear nella sua follia: ecco, potremmo dire che quest’allestimento è in fondo un’ombra del Re Lear shakespeariano.

In scena alla Carrière Boulbon.

Fabio Raffo


Sguardo sul festival di Avignone 2013 | Giorno XIII (25 luglio)

Kabaret Warszawski
Conception e mise en scène Krzysztof Warlikowski

Il titolo dello spettacolo indica alquanto efficacemente la sua forma e concezione: ha un andamento assolutamente non lineare, proponendo delle scene che si collegano tra loro per via tematica, personaggi a volte ricorrenti, e il collante dell’immaginario visivo. Ciò è estremamente chiaro fin dall’inizio, dove sono proposte in versione parodica le conversazioni da cassetta audio per imparare l’Inglese. In realtà il tema di queste conversazioni, come poi tutto lo spettacolo, è il sesso, scandagliato nei suoi risvolti più scabrosi e provocanti. La descrizione del foglio di sala introduce lo spettacolo e informa che l’allestimento proporrà inizialmente un ambiente anni trenta della Germania nazista, per passare, dopo l’entracte, al mondo di oggi, post attacco Torri Gemelle. In effetti il primo atto propone quest’indagine in un’onnipresente visione decadente, anche se a tratti ludica, del sesso, cosicché sembra che questa difficoltà nel dialogo tra i corpi sia collegata a un momento infelice della nostra Storia. La presenza del Nazismo e di Hitler diventa sempre più incombente nei dialoghi  e nell’immaginario della scena, fino a che il Führer appare fisicamente, una grottesca incarnazione che dirige tra le altre cose l’orchestra di accompagnamento per la cerimonia degli Oscar. Questo collegamento tra il passato e presente sembra far supporre la direzione che prenderà il secondo atto: una critica del sistema economico, sempre alla luce di un rapporto non risolto con il sesso. E invece no, il secondo atto si apre su un rapporto sessuale in una gabbia di vetro, e l’immaginario prende poi il sopravvento, tra la musica da concerto rock alla sinistra del palco, l’uso del video per ingrandire i rapporti morbosi e la lunga citazione di pezzi dei Radiohead interrotta a tratti dalla descrizione dell’attacco terroristico dell’undici settembre 2001. Dopo la distruzione, l’unica soluzione sembra essere il fumo collettivo di marijuana e di nuovo un finale debordante, tra musica, attori che uno a uno si buttano nella tomba portata precedentemente per la scena delle due torri, le paillette che cadono dal cielo e buttate poi sul pubblico. E poi ancora il presentatore androgino che sale in cielo trasformato da sirena, la donna in croce sul muro di sfondo che descrive l’orgasmo agognato finalmente raggiunto.
In sintesi la recitazione è ottima, eccezionale l’uso di video e luci, un po’ amorfo l’allestimento scenico, un semplice muro bianco che evoca un non luogo, forse una stazione di metropolitana. È da segnalare tuttavia una regia troppo divisa in due parti diseguali: la prima parte mantiene ancora una certa parvenza di trama, pur nel suo stile frammentario e surreale, ma sembra proporre un messaggio che va oltre la semplice imposizione di un immaginario scenico pur affascinante. Invece nel secondo atto questo immaginario prende il sopravvento e si perdono il debole messaggio iniziale e una certa coerenza dell’idea, pure nella sua forma cabarettistica. Non basta quindi far chiudere il secondo atto come si chiudeva il primo, con il lento abbassamento della luce sul volto di Hitler nel primo, su quello del presentatore androgino nel secondo. L’eccezionale performance degli attori e l’uso disinvolto dei video, della musica e delle luci, nonché il generale mondo visionario di alto livello di Warlikowski, non bastano ad allontanare una leggera noia per l’onnipresente, datato nella voglia di provocazione e quindi un po’ gratuito discorso-ostentazione del sesso.

In scena alla FabricA.


Fabio Raffo

lunedì 29 luglio 2013

Sguardo sul festival di Avignone 2013 | Giorno XII (24 luglio)

Et si je les tuais tous, Madame?
Conception e mise en scène Aristide Tarnagda

Il testo scritto dal regista Tarnagda evoca un monologo frammentario del protagonista Lamine, che ora si rivolge a una ricca signora su una macchina in attesa di un semaforo verde, ora evoca il suo passato, nel suo dialogo con l’amico artista Robert e con gli altri due attori-musicisti, che rappresentano suo padre, sua madre o suo figlio. La struttura del testo ha molte affinità con Shéda di Dieudonné Niangouna: ha una non linearità molto poetica in questa profusione di parole, un discorso che si trasforma continuamente da un attore all’altro in maniera molto fluida, aiutato anche dall’intromissione dell’accompagnamento musicale. Si tratta di una chitarra e della kora, che prendono a tratti il sopravvento nel loro ritmo violento grazie anche al canto-grido dei due musicisti: la musica perciò non è solo accompagnamento ma diventa a tratti protagonista. Molto significativa ed emozionante in questo senso il momento in cui Robert si trova «aggredito» dalla pressione dai due lati dei musicisti. Questa scelta registica, per il resto estremamente minimalista nei suoi propositi, ha chiaramente la funzione di sottolineare la musicalità e la poeticità di un testo molto bello e politicamente molto forte. La differenza più forte con Shéda consiste pertanto in una vera urgenza in questo testo, chiaramente percepita dall’energicità del jeu, che esplode più volte in picchi di urla, di strattoni tra gli attori, di lanci di bottiglie di birra. È evocata tutta la rabbia e la disperazione provocate dalle torsioni di un mondo violento, ingiusto e diseguale nel suo sistema sociale ed economico. La donna, che non trova risposte alle domande sempre più pressanti di un mondo che ha fame di vita, sembra rappresentare la decadenza del nostro mondo occidentale che non ha più nulla da dire. Invece il gesto finale di rompere le bottiglie di birra, mentre cala improvvisamente il buio sulla frase interrotta di Lamine, suggerisce un incanalamento di questa disperazione e rabbia nell’evocare il titolo dello spettacolo: “e se li uccidessi tutti, signora?”. A differenza dunque di Shéda, l’allestimento non si appoggia su una regia debordante nella sua immaginazione, ma che in fondo propone un immaginario artistico molto personale, senza una vera necessità. Qui la parola non ha bisogno di nessun arricchimento, perché in essa è percepita una vera urgenza, trae ogni sua giustificazione nella comunicazione di quest’angoscia e disperazione paralizzante, ma anche di una rabbia giusta, e vitale.

In scena alla Chapelle des Pénitents blancs.



Matières
Conception e mise en scène Wajdi Mouawad

Lo spettacolo di Mouawad si inserisce nel festival nella seria degli spettacoli gionalieri, degli artisti associati delle edizioni passate del festival, e fino a poco tempo fa il titolo previsto era Rendez vous avec (Mouawad). Questo per dire che il tema dell’allestimento è totalmente sconosciuto e il nuovo titolo indica perfettamente l’incompiutezza e la non totale linearità di uno spettacolo che propone appunto dei materiali in divenire del regista scrittore. Mouawad in scena da solo per due ore legge propri testi, li recita, li fa ascoltare tramite un computer, e propone delle performance, delle immagini dall’intensa poeticità, anche se a tratti forse troppo concettuali. Come strappare la tela di fondo su cui ha appena scritto una sua frase e avvolgervisi: un’idea già piuttosto datata, l’action painting. La forza dei testi di Mouawad è tuttavia indiscutibile, essi rivelano una loro profonda intimità: l’artista si espone con grande rischio in tutta la sua fragilità, proponendo testi in divenire e altre improvvisazioni, a volte gratuite, a volte estremamente significanti, come il video di sé stesso, angosciante, in cui abbaia come un cane rabbioso per un buon dieci minuti, oppure molto belle, come lo strabiliante e ipnotico finale del lento sollevamento del telo di plastica, accompagnato da una musica mozzafiato. Questa fragilità è chiara nell’incipit del testo guida che ritorna, in cui afferma che ciò che presenterà sarà un fallimento. O anche nel fatto di farsi intervistare in diretta, chiedendo a un giornalista nel pubblico di raggiungerlo. In questo momento Mouawad spiega il proprio desiderio di andare oltre le parole, di essersi reso conto di non riuscire più a esprimersi solo con esse, e giustifica quindi la necessità per lui di queste performance. E questa difficoltà e testimoniata in scena dal tentativo, ad esempio, di ripetere la stessa frase d’esordio con del cibo in bocca. Quello che colpisce in maniera forte di questo spettacolo è quindi il rischio che l’artista assume di mettere a nudo la propria fragilità, ma di mostrarne allo stesso tempo la sua forza, tramite una parola che nonostante tutto ha ancora una forza evocativa enorme, più di certe immagini proposte.

In scena al Gymnase du Lycée Saint-Joseph.

Fabio Raffo


venerdì 26 luglio 2013

Sguardo sul festival di Avignone 2013 | Giorno XI (22 luglio)

Germinal
Conception e mise en scène Antoine Defoort e Halory Goerger

Germinal è uno spettacolo-performance con quattro interpreti più una voce fuori campo, che trae dal titolo tutta la sua concezione. Il termine «germinal» ha infatti come etimologia il germe, il seme e pone come domanda basilare quale sarà il suo sviluppo. Gli attori infatti per tutto lo spettacolo si confrontano con la riscoperta dalla loro identità in quanto esseri umani, alla riscoperta della voce, della parola, dell’atto di rinominare e così via. Un’idea molto ambiziosa e curiosa, che ha come effetto principale un comico straniamento, di rendere sconosciuto o diversamente noto ciò che noi abbiamo già determinato e classificato in maniera automatica.
All’inizio fu la luce, non il verbo. E così questo spettacolo, invece di iniziare con il classico lento spegnimento delle luci di sala, parte spegnendole ma poi pian piano si riaccendono, e lo stesso gioco poi si trasferisce sul palco, suscitando prima il riso e poi quasi una visione onirica. Infine appaiono i quattro interpreti che, prima con l’aiuto di consolle e poi senza, si esprimono tramite degli schermi sullo sfondo, non senza creare divertenti problemi d’identità e del rapporto tra una parola senza il proprio corpo e viceversa. Poi, come in un appassionante videogioco, riescono a recuperare la parola, poi il canto. Il timore che si perda la forza dell’idea iniziale originale al momento del ritrovamento della parola è fugato grazie a un estro inventivo che mette in questione lo sviluppo dell’universo che i quattro hanno cercato di definire, ad esempio con il contatto via telefono a un’agenzia di creazione universi.
In generale, si tratta dunque di un’idea veramente interessante e originale che affronta i temi dell’identità in rapporto al virtuale, del corpo e del pensiero, in modo arguto e non superficiale. Il divertimento è assicurato e inoltre la mente dello spettatore è stimolata a seguire l’evoluzione delle invenzioni sul palco. Resta infine la curiosità e la speranza che si tratti solo di un inizio che possa essere ulteriormente approfondito. Per il momento un bell’esperimento da esperire, appunto.

In scena al Théâtre Benoit-XII.



Reise durch die nacht
Mise en scène Katie Mitchell

L’allestimento parte da un testo di Mayröcker, il cui titolo in italiano significa Viaggio attraverso la notte. E in effetti il palco rivela una costruzione che ricorda un treno, le cui cabine si aprono e offrono molteplici punti di vista sul passato pian piano svelato della protagonista. Questo cubismo manifesto nella costruzione, come afferma la stessa Mitchell nel foglio di sala al pubblico, attesta il suo trionfo nel grande schermo video su cui si può assistere in diretta e in primo piano alle azioni sul palco, e che presto prevalgono sulla diretta sottostante. La realtà infatti sembra dominare più sullo schermo che sul palco, il treno parte solo nel video e se a tratti le azioni si interrompono sul palco, nascoste dalla costruzione, il video è ininterrotto. L’allestimento sembra complicato, ma lo spettatore si adegua facilmente, forse fin troppo alla visione, come davanti a un grande schermo di cinema, e può godere a suo agio della magistrale introspezione psicologica degli attori. Splendida la toeletta del rigido marito della protagonista, dove l’analisi sotto lente d’ingrandimento fino al taglio dei peli ribelli dei baffi rivela la puntigliosità maniacale del personaggio, nonché la sua freddezza. Gli attori esprimono alla perfezione i risvolti dei sentimenti del testo, dato che nessuna parola esce dalle loro bocche: il testo è affidato interamente a una versione più giovane della protagonista che parla a sinistra del treno, in una sorta di cabina radio per speaker. Sembra paradossale affidare il ruolo della speaker a una donna più giovane dell’incarnazione del suo passato, ma ciò è giustificato dal testo, in cui la protagonista afferma di sentirsi come sua madre. Quindi questa scelta nei ruoli, così come l’apparentemente complicato allestimento cubista della scena, hanno una loro logica nel sottolineare l’inesorabilità del destino che ciclicamente colpisce madre e figlia nel subire un rapporto tormentato e violento con i loro partner. Il video e gli scompartimenti del treno aiutano a scandagliare meglio tutte le sfaccettature del passato della donna, a compiere questo viaggio nella notte del suo passato e presente turbolento. La musica quasi minimalista sottolinea peraltro l’angoscia della storia e del personaggio, ma a tratti emoziona anche per la sua improvvisa dolcezza, come a suggerire una possibilità migliore. Descrive l’ansia, ma culla anche l’oniricità di questo viaggio, così come anche le immagini della corsa notturna del treno. Infine, risulta necessario sottolineare nuovamente una recitazione di grande livello, eccezionale e ammirevole soprattutto per il fatto strabiliante che allo spettatore arriva ogni più piccola sfumatura del sentimento e del pensiero, pur senza una parola diretta dei protagonisti. Un viaggio emozionante che con la sua storia evoca anche la tematica attuale della condizione femminile.

In scena al Gymnase du lycée Aubanel


Fabio Raffo

martedì 23 luglio 2013

Sguardo sul festival di Avignone 2013 | Giorno X (19 luglio)

Amore e carne
Conception e mise en scène Pippo Delbono

Questo spettacolo è concepito come una lettura-concerto, accompagnata dall’esecuzione trascinante del violinista Alexander Balanescu e intervallata a tratti da momenti più cabarettistici. Questi ultimi non possono essere che definiti tristi, e probabilmente questo effetto è provocatoriamente voluto: esemplari le due barzellette non sense, di cui quella raccontata da Delbono ha anche uno sfondo lievemente antiebraico. Alcuni ricordi più intimi di Delbono, del periodo dell’infanzia, intervengono nello spettacolo, e introducono per esempio una dolce ninna nanna. Sono per lo più momenti di pausa che spezzano bruscamente l’atmosfera altrimenti poetica della rappresentazione, dovuta soprattutto alle intense emozioni del lacerante accompagnamento musicale. Pippo Delbono legge suoi testi che hanno un buon valore evocativo, insieme a una poesia di Pier Paolo Pasolini, una di Eliot e un estratto di Per farla finita con il giudizio di Dio di Antonin Artaud. Ora, quest’ultima scelta suona un po’ superficiale perché, visto il francese maccheronico di Delbono, egli sceglie giustamente di affidarsi alla traduzione italiana. Ma leggere la traduzione italiana di un testo poetico francese a un pubblico francese non è un’idea molto felice… Per il resto, la lettura di Delbono è disarmonica. Ha accenti molto giusti e intensi, soprattutto quando passa dal parlato al grido cantato, e anche se non possiede una tecnica canora propriamente professionale, riesce a trovare un’intesa con il violino di Balanescu, tanto che in quei momenti, e più in generale, non sappiamo se sia Balanescu ad accompagnare Delbono, o piuttosto il contrario, con un sostanziale risaltare del violinista rispetto al lettore. Se il suono della musica raggiunge la disarmonia, producendo l’angoscia, la disarmonia prodotta dalla lettura a tratti sopra le righe e fumettistica di Delbono provoca solo un imbarazzante sconcerto. Delbono strafà, ricordando in questi momenti più le abilità di un doppiatore di cartoni animati che quelle di un abile lettore di poesie. Soprattutto stonano brutalmente i suoi tentativi grossolani di ballo mentre Balanescu suona e qui non può fare a meno di ricordare l’orso Yoghi nelle sue movenze totalmente scoordinate. È un peccato che queste vistose sbavature rovinino la bellezza di certi passi poetici, e soprattutto la qualità della musica di Balanescu, che rappresenta l’àncora di salvezza di uno spettacolo altrimenti non adeguato al festival In di Avignone.

In scena a Opéra Théâtre




Fabio Raffo

domenica 21 luglio 2013

Sguardo sul festival di Avignone | Giorno IX (17 luglio)

Cour d’honneur
Conception e mise en scène Jérome Bel

Lo spettacolo Cour d’honneur è allestito alla Cour d’honneur del Palazzo dei Papi di Avignone e naturalmente il pleonasmo è voluto, in quanto il protagonista tematico dell’allestimento è precisamente questo luogo «sacro» per il Festival di Avignone. La corte infatti eccezionalmente ospita la presenza di quattordici spettatori seduti in cerchio, che aprono e chiudono lo spettacolo guardando a loro volta in un lungo silenzio la platea. Il cortocircuito prodotto è voluto e fecondo perché, uno a uno, gli spettatori animano il luogo con i propri ricordi soggettivi degli spettacoli passati alla Cour, da Inferno di Romeo Castellucci del 2008, a Médée di Jacques Lassalles del 1999, e via dicendo. Pertanto l’idea è originale e estremamente interessante, soprattutto per chi scrive, visto che fornisce uno sguardo fertile, nella sua metateatralità, sulla storia del festival di Avignone. Lo studio sullo spettacolo è chiaramente approfondito, anche nella recitazione dei partecipanti che, pur non essendo professionisti e quindi presi a tratti da un naturale nervosismo, riescono a fornire con semplicità il racconto-aneddoto preparato. Peraltro sono stati accuratamente scelti per il fatto di rappresentare più o meno la gamma degli spettatori ideali del festival: il professore, la giovane coppia, la ragazzina adolescente, un paio di donne in pensione, il medico di guardia alla Cour, il consigliere comunale alla cultura che ha visto tutto al festival e persino la ragazza che invece non ha mai messo piede all’In. I toni e ritmi cambiano sia naturalmente sia grazie a un’intelligente direzione di attori (esemplare la signora che cerca nei suoi lunghi e rischiosi silenzi di fornire la qualità del suo ricordo a proposito dello spettacolo di Pina Bausch del 1983), e questo elemento permette allo spettacolo di non essere piattamente aneddotico. Molto preziosa anche la presenza di attori che animano i ricordi dei quattordici spettatori, come ad esempio la mirabile scalata dell’attore acrobata di Inferno. La re-citazione in senso letterale di questi momenti-eventi del festival di Avignone fanno tuttavia venire il dubbio se la concezione registica non si poggi troppo a successi di altri registi. L’allestimento originale di Jérome Bel per questo spettacolo è infatti inesistente, tutto è affidato alla forza del testo o a momenti di citazione del passato, come il brano audio di Gérard Philippe-Prince de Hombourg restituito verso la fine dello spettacolo. Ricapitolando, l’idea è buona e originale, in questo interessante esperimento metateatrale, la direzione degli spettatori nei loro ricordi è ottima, e ammirevole lo studio sulla forma, che evita il rischio di appiattirsi su sé stessa grazie alla modulazione dei toni e all’intervento degli attori professionisti, in diretta o in video-conferenza (Isabelle Huppert dall’Australia via Skype riesce a fornire una versione più intima ma assai convincente della mostruosità di Medea). Tuttavia manca una vera concezione registica originale dello spazio, lasciato troppo alla sua nudità, e lo spettacolo risente un po’ di questa mancanza. Il sospetto che si appoggi come una stampella ai fasti del passato non riesce ad essere cancellato, anche se ciò può sembrare ingiusto nei riguardi dello sforzo pur ammirevole dei quattordici partecipanti.

In scena alla Cour d’honneur du Palais des papes


Fabio Raffo

lunedì 15 luglio 2013

Sguardo sul festival di Avignone 2013 | Giorno VIII (13 luglio)

Exhibit B
Conception Brett Bailey

Exhibit B in senso stretto non è uno spettacolo teatrale: può essere più definito come un’installazione o performance, anche se la sua concezione ricorda più un’esposizione speciale di un museo. La particolarità che lo distingue è il fattore umano che viene esposto. Infatti Bailey, sensibile alle tematica razziale, viste anche le sue origini del Sud Africa, allestisce quest’installazione citando esplicitamente gli zoo umani che furono moda corrente nell’Europa colonialista tra fine Ottocento e inizio Novecento. Accostando cartelli che ricordano le infinite torture e violenze degli Stati coloniali europei a dei performer vivi e immobili come gli artisti di strada-statue, Bailey sottolinea con crudeltà, per lo spettatore e l’attore, i crimini del colonialismo e la visione tutt’ora estremamente limitante delle leggi europee sull’immigrazione. Tra i performer-trofei, anche due attori i cui cartelli ricordano alcune vittime attuali della polizia europea. Come un pugno lacerante allo stomaco, colpiscono gli sguardi sofferenti degli attori del passato e del presente, che condannano senz’appello chi decide di visitare questo museo degli orrori. L’effetto è reso ancora più straziante dal sublime coro degli attori neri che ricordano un’esposizione di teste di schiavi decapitati. Il partecipante è lasciato solo alla sua riflessione e alla scelta di sedersi o meno per entrare nella sua parte di colpevole bianco del colonialismo, oppure di lasciare un messaggio - di redenzione, di speranza, di riflessione? - alla fine dell’installazione. L’allestimento della mostra-performance nell’Église des Célestins di Avignone risulta infine particolarmente azzeccata, in quanto si tratta di una chiesa sconsacrata e in rovina, senza pavimento e con macerie per terra, come a simboleggiare la crisi irrimediabile dei valori su cui si poggia l’Europa attuale. E infatti un cartello è ironicamente - sarcasmo amaro - titolato «le siècle des lumières» (il secolo dell’illuminismo). Ma quante tenebre in realtà circondano le poche luci che hanno eretto l’Europa di oggi.
In sintesi, si tratta di un percorso educativo estremamente doloroso, ma necessario, per cercare di ritrovare una luce della ragione che non accechi nella sua presunzione di superiorità. La crisi odierna dell’Europa non è solo economica, ma anche dei valori che costituiscono quest’unità. E opere come quelle di Bailey, pur nella sofferenza che provocano, inducono alla riflessione inevitabile che per costruire un presente-futuro migliore, è necessario non dimenticare il passato. Ma la domanda terribile che rimane senza risposta - o forse ancora più tremendamente suppone una riposta negativa - è se l’uomo sia veramente in grado di riuscire a non ripetere gli errori del proprio passato e di poter fornire una dimensione reale alla nozione di «civiltà».

In scena all’Église des Célestins


Fabio Raffo

domenica 14 luglio 2013

Sguardo sul festival di Avignone 2013 | Giorno VII (11 luglio)

Faust I + II
Mise en scène Nicolas Stemann

La regia di questo spettacolo si vuole segnalare come una novità di grosso calibro. Per più motivi. Si tratta del primo spettacolo ad animare la scena della FabricA, il nuovo edificio del festival di Avignone, ed è la prima volta che vengono proposte in Francia le due opere di Faust I e II di Goethe insieme. Lo spettacolo è in tedesco con sottotitoli in francese e dura otto ore e mezzo con tre intervalli. Il primo intervallo è dopo tre ore di spettacolo, alla fine del Faust I, pertanto la prima parte si caratterizza subito per la sua fruizione faticosa, una vera maratona (tanto più che i caratteri dei sottotitoli sono piccoli e scorrono velocemente). Tuttavia aiuta alla comprensione di una concezione alquanto complicata l’introduzione-spiegazione del regista in scena, con un fare molto arguto e brillante. Rende meno distante e freddo quest’allestimento scenico.
Vi è una sostanziale differenza tra le due parti, Faust I e II. Il primo Faust vede l’intervento di soli tre attori, che si passano i personaggi in maniera fluida e totalmente differente dalla ripartizione classica delle battute nel testo. Il primo attore tiene in maniera eccelsa per un buon trenta minuti i personaggi di Faust, Mefisto, Margherita e personaggi minori. Anche se interpreta per la maggior parte Faust, un po’ degli altri personaggi e del se stesso-attore entra nell’interpretazione del protagonista, fornendogli delle coloriture interessanti e originali. Lo stesso vale per gli altri personaggi, soprattutto per Margherita che, com’è stato sottolineato giustamente anche in conferenza stampa, diventa un personaggio più complesso e meno limitato al suo ruolo di vittima. Già in questa prima parte si assiste nella regia di Stemann a una lettura disinvolta del testo di Goethe, ma brillante, e a un gioco sul testo arricchito da una recitazione mattatoriale, nonché da un sapiente uso delle luci e degli schermi che sfruttano a fondo le potenzialità del nuovo luogo scenico.
Il Faust II, più del Faust I, vede un caos che si impossessa della scena, soprattutto a partire dal momento in cui Mefisto introduce il denaro come soluzione per salvare l’impero dalla crisi. È ovvio che Stemann ha scelto anche questa seconda parte per introdurre uno sguardo satirico sulla crisi economica attuale, e infatti il caos scenico ha precisamente quest’intenzione: soldi vengono lanciati, simboli economici scorrono sulla parete, e via dicendo. Il testo si ingarbuglia su sé stesso in quanto, ad esempio, è continuamente annunciato l’inizio di questa seconda parte dai personaggi che entrano per partecipare prima alla riunione economica e poi alla mascarade. Stemann propone in scena questo burlesque insistito, convinto di ritrovare nel testo di Goethe “il momento di delirio sotto droghe più potente della letteratura tedesca”. E forse si fa prendere un po’ troppo la mano, in questi primo e secondo atto di Faust II. Ritorna un certo equilibrio delle forme alla prima pausa, quando Faust incontra Elena di Troia. Anche in questo caso l’elegante seduzione di Faust viene continuamente interrotta in modo frustrante dai vari Mefisto in scena, ma infine riesce a formare la sua famiglia. Tuttavia ritorna la crisi, al momento della morte del figlio, e il finale si fa incandescente, con un coro generale degli attori nascosti dietro alle buffe marionette di Stemann.
In sintesi, l’allestimento è monumentale e complesso e risulta faticoso seguirlo, una vera maratona, per motivi oggettivi (la lunga durata e il problema della lingua) e soggettivi - una concezione registica nient’affatto lineare, ma che propone degli spunti di riflessione interessanti sui testi di Goethe e sul mondo circostante, anche se prevale sicuramente l’elemento ludico. Eccezionale il cast artistico, bravissimi gli attori, tra cui anche un bambino, rappresentante del coro degli angeli, commovente per la bellezza della sua voce bianca. Vigoroso e travolgente il movimento sul palco, tra le luci, gli attori, le visioni dello schermo, per una regia barocca e ambiziosa. Lo spettatore è lasciato a fiato sospeso, per un’onda travolgente di emozioni e suggestioni, che sono state testimoniate nel lungo e fragoroso applauso finale.

In scena alla FabricA




Fabio Raffo

sabato 13 luglio 2013

Sguardo sul festival di Avignone 2013 | Giorno VI (10 luglio)

King size
Conception e mise en scène Christoph Marthaler

All’entrata del pubblico il sipario del teatro all’italiana dell’Opéra Théâtre è chiuso. Si apre a spettacolo iniziato, su un allestimento scenico che ricalca la più classica ambientazione da dramma borghese stile tardo ottocentesco. I mobili e il letto - il King Size - sono di un celeste così smaccato che subito è rivelato l’intento parodistico dell’opera. In apertura, infatti, il classico annuncio di spegnere i cellulari viene trasformato nel suo contrario e proposto in varie lingue, con un effetto comico di leggero straniamento. L’attenzione e il lavoro sul linguaggio è visibile per tutto lo spettacolo: nei momenti in cui la parola non è cantata, si assiste a una scomposizione minuziosa del dettato verbale sillaba dopo sillaba. Questo linguaggio viene a tratti indagato anche in una scomposizione del corpo, per esempio nella proposta, a metà spettacolo, del linguaggio dei segni. In generale, per la maggior parte di King size i quattro attori cantano un repertorio stile lied tedesco, mischiato a canzoni francesi o pezzi anni Ottanta, come I go to sleep di The Pretenders, restituito tuttavia a un ritmo più rapido e straniante del normale. I go to sleep e i temi dei lieder sottolineano peraltro la tendenza degli attori di entrare e uscire dal letto King size, una loro tensione e desiderio continuamente realizzato ma anche frustrato. Sono azioni ripetitive e di una logica surreale compiute sulla scena, che scatenano il riso: come ad esempio l’aprire e richiudere dei mobili, dove si vedono cantare gli attori usciti dalla quinta, azione che mette dunque in crisi la finzione dell’allestimento scenico. King Size propone una comicità del tutto surreale che rende lo spettacolo buffo e lievemente grottesco, anche se l’effetto dopo un po’ risulta scontato e ridondante. I brani musicali sono molto gradevoli, ed è ammirevole il lavoro sulla scomposizione del linguaggio (corporeo, verbale, musicale) proposto da Marthaler. Una tecnica eccezionale e un jeu minuzioso rendono questo spettacolo interessante e divertente, senza molte altre ambizioni in più.

In scena all’Opéra Théâtre




Fabio Raffo

venerdì 12 luglio 2013

Sguardo sul festival di Avignone 2013 | Giorno V (9 luglio)

Remote Avignon
Conception Stefan Kaegi

Remote Avignon appartiene a quella serie di spettacoli ambulanti che Kaegi già in precedenza ha allestito in altre città, come ad esempio Berlino. A un primo approccio somigliano in tutto per tutto a una visita della città con cuffie audio, in cui tuttavia manca la persona fisica della guida. Inoltre già il punto di partenza scelto rivela la particolarità della concezione, e mette in crisi lo «spettatore» riguardo alle sue sicurezze sulla forma dello spettacolo a cui assisterà. La prima tappa è infatti il cimitero avignonese di Saint-Véran, e l’audioguida subito inizia un discorso sul tema tabù della morte, con punti anche morbosi, quando chiede per esempio al partecipante di immaginare la propria morte e quella delle persone interrate lì vicino. Il tono assunto ricorda a questo punto quello dei viaggi ipnotici. Inizia poi la deambulazione attraverso vicoli stretti e poco esplorati, mentre la voce spiega la propria origine, un’elaborazione artificiale dalle sillabe di altre registrazioni audio. Ciò potrebbe sminuire l’effetto sorpresa, ma introduce al partecipante la questione del reale e artificiale. Altre tematiche affiorano durante il percorso, come il rapporto tra l’uomo e la macchina (nel parcheggio, e riguardo ai macchinari del supermercato Carrefour), l’approfondimento di uno sguardo altro verso le persone che ci circondano, sia partecipanti, sia non. Il partecipante viene messo alla prova nel superare i propri limiti, nel fingere di manifestare, partecipare a una gara di corsa, ballare in pubblico e via dicendo. Si tratta dunque di un’esperienza piuttosto interessante, un gioco per mettere alla prova noi stessi e il nostro rapporto con ciò che ci circonda. Offre uno sguardo diverso dalla quotidianità, rispolverando in chiave contemporanea e meno seria il concetto brechtiano di distanziazione (verfremdung). Vi è inoltre un sapere tecnico notevole e non secondario, nel lavoro sulla voce-guida, sui suoni di accompagnamento che spiazzano il partecipante per la loro apparenza estremamente reale. Un’attrazione dunque di alto livello, che offre inoltre qualche spunto di riflessione interessante.

Percorso nella città – Punto di partenza Cimitero Saint-Véran




La Parabole des papillons
Conception e mise en scène Michèle Addala

La Parabole des papillons è un lungo lavoro della regista e i suoi collaboratori nelle periferie avignonesi per la realizzazione di questo materiale che ha un’origine profondamente sociale. Ciò è sottolineato dal fatto che attori non professionisti dei quartieri disagiati partecipino allo spettacolo, così come il dettaglio che il biglietto sia gratuito, proprio per permettere una maggior diffusione di quest’opera agli abitanti-amici della periferia, venuti a vedere i loro rappresentanti. Questo non significa affatto che il risultato finale sia carente qualitativamente, come può succedere se l’incontro con l’ambiente sociale non è stato preparato e coltivato con calma. Durante lo spettacolo non è stato possibile capire quali attori erano professionisti e quali no, tanto il gruppo funzionava nel suo amalgama omogeneo, e questo sicuramente caratterizza la sua più commovente qualità. Nel cast presenti anche alcuni bambini, dall’età di massimo dodici anni, che tuttavia recitavano con abilità ammirevole. Una piccola in particolare possedeva un’energia notevole e dirompente, com’è stato possibile notare in un urlo acutissimo come solo i bambini sanno fare. Per il resto, il testo scenico è composto di riflessioni sul rapporto tra l’uomo e la donna, tra le differenti culture e religioni, con esempi semplici e concreti. Allo stesso tempo la monotonia è evitata da alcuni frammenti molto poetici che sottolineano l’origine del titolo: il tema della farfalla che si brucia per aver voluto scoprire il fuoco tratto da un poema persiano. Così, come farfalle, i frammenti di vite quotidiane viste sul palco vengono a volte interrotti da balli accuratamente coreografati: molto significativo ad esempio il continuo passaggio di una valigia tra un uomo e una donna, che si rivelano essere padre e figlia, inizialmente molto leggero e scherzoso, ma finisce progressivamente per essere inquietantemente violento. Tuttavia, anche se racconta di temi a tratti tristi e bui della nostra società, come la violenza fisica e psicologica dell’uomo sulla donna, il testo non si attarda mai su essi con compiacenza, ma vola leggero come una farfalla, per proporre un messaggio di speranza, o almeno di consolazione.

In scena all’Auditorium du Grand Avignon–Le Pontet



Fabio Raffo



mercoledì 10 luglio 2013

Sguardo sul festival di Avignone 2013 | Giorno IV (8 luglio)

Les particules élémentaires
Mise en scène Julien Gosselin

Il giovane regista Julien Gosselin (26 anni) mette in scena, con la compagnia Si vous pouviez léchez mon cœur, il famoso (o famigerato?) testo di Michel Houellebecq Les particules élémentaires, che alla sua uscita nel 1988 scatenò molte polemiche e controversie per il suo stile molto particolare. Non avendo letto il testo originale, un giudizio è sospeso, ma sarà possibile fare un confronto con l’adattamento filmico di Oskar Roehler. Il film epurava gli elementi più provocatori e scandalosi del libro, rivelandone uno sguardo sinceramente angosciato sulla società contemporanea, e producendo quindi un’opera dignitosa, anche se non del tutto insensibile ad alcuni dettagli perversi del testo originale, difficilmente cancellabili.
Nulla di tutto ciò nell’allestimento teatrale, anzi l’esatto contrario, purtroppo. Se il film epurava gli elementi provocatori, la regia di Gosselin ci sguazza letteralmente dentro, con compiaciuta ostentazione dei dettagli più macabri, più perversi nell’argomento principale e onnipresente del sesso. Questa compiacenza è sottolineata da una regia che non mostra direttamente il malfatto, ma peggio vi allude, vi ammicca, come ad esempio la descrizione delle torture degli snuff movie in un’accattivante atmosfera da concerto rock: esse dovrebbero dimostrare il loro «intrinseco» e «oggettivo» legame con i primi movimenti hippies anni Sessanta. Titoloni sullo schermo di sfondo, effetti speciali, fumogeni - luci e musiche dal gusto discotecaro (non mancano naturalmente seni e pettorali nudi, toccate insistenti sul membro maschili) - servono a catturare il pubblico come il miele con le mosche. D’altronde, come dice il testo compiaciuto, «les masses aiment les images du mal» (le masse amano l’immagine del male), e allora questo teatro, di cui la sola scusante sembra essere la giovane età del regista, sembra avere l’unica funzione di rendere ancora più sfavillante e seducente il lato oscuro e malato della nostra società. L’unico salvataggio offerto sarebbe quello di accettare un’evoluzione fisica necessaria, di diventare super uomini. Ed ecco quindi come un insopportabile discorso para-pseudo scientifico che vuole rifarsi magari a pensatori come Nietzsche, ma sembra più ispirarsi a scrittori come Dan Brown, è posto a salvezza messianica delle vite meschine che si agitano in scena. La soluzione proposta è dunque un’illusione, uno specchio per le allodole, per far accettare allo spettatore la natura intrinsecamente perversa e malvagia degli uomini. Non si spiega altrimenti la condanna ripetuta e ossessiva nel testo del movimento culturale degli anni Sessanta, il cui proposito utopico originale era precisamente cambiare l’uomo. Certo, un’utopia, ma il discorso pseudo scientifico new-age che propone il libro - sostanzialmente la necessità di modificare la natura del sesso, determinante della crisi del nostro sistema sociale-economico - è ancora più utopico e mai realmente serio nei suoi propositi. Rivela un cinismo di fondo profondamente reazionario e in realtà compiacente nei riguardi del sistema sociale e economico che finge di condannare. C’è da chiedersi come una proposta del genere, così ambigua e ammiccante a un’estetica profondamente commerciale, possa rientrare nel programma del festival In di Avignone.

In scena alla Salle de spectacle de Védène.


Fabio Raffo

martedì 9 luglio 2013

Sguardo sul festival di Avignone 2013 | Giorno III (7 luglio)

Shéda
Conception e mise en scène Dieudonne Niangouna

Dieudonné Niangouna, secondo artista associato del festival di quest’anno, sceglie il suo testo Shéda per l’incantevole luogo della Carrière de Boulbon (un’ex-petraia allestita per la prima volta nel 1985 per il Mahabharata di Peter Brook). «Shéda» è una parola inventata, a metà tra «diavolo» e «truffa». Si trova dunque a sintetizzare piuttosto bene le impressioni ricevute da questo spettacolo. La scena appare infatti come un luogo immaginario, infernale, pieno di macchine astruse di un altrove o altroquando utopici. Un attore porta nell’arena una capra, mentre si cominciano a sentire le urla-richiami degli attori che arrivano dall’esterno: entrano, formano un cerchio magico, da guerra potremmo dire, urlano la parola «Shéda», e lo spettacolo ufficialmente inizia. Il testo scorre molto poeticamente da un attore all’altro per lo più in forma monologante, ma anche in versione di dialogo, mentre gli altri attori compiono azioni simboliche, prive di un preciso significato logico, sfruttando anche le costruzioni in scena. Evocano spesso giochi sportivi, o atletici – il loro è un teatro molto fisico – calciano  palloni verso il pubblico, salgono su un palo verticale, usano lo scivolo, nuotano in una pozza d’acqua e via dicendo. Da questo gioco continuo di azioni e dal testo che non ha un filo logico, si ha più l’impressione di assistere a una sessione di teatro-jazz (e infatti l’accompagnamento musicale in scena afferisce a questo genere), o appunto, a una bolgia infernale. «J’aime les incompréhensions du monde» (amo le incomprensioni del mondo), dice a un certo punto il testo scritto e diretto da Niaungouna. E in effetti, a cercare un filo logico nel testo e nell’allestimento dell’artista congolese, si rischia di rimanere delusi e infastiditi. Anche le rare tematiche politiche evocate - il colonialismo, la crisi finanziaria ecc.- sono in realtà un puro spunto ludico, un pretesto, e non devono quindi essere prese sul serio. Manca una necessità che non sia quella di sfogare un ego artistico, su un allestimento che oltretutto dura ben cinque lunghe ore. Peccato, perché forse il teatro potrebbe e dovrebbe avere una funzione più nobile, che il semplice collage di materiali magari anche molto godibili artisticamente, come in questo caso il testo, il jeu degli attori, la musica.

In scena alla Carrière de Boulbon.


Fabio Raffo

lunedì 8 luglio 2013

Sguardo sul festival di Avignone 2013 | Giorno II (6 luglio)

Orlando
Mise en scène Guy Cassiers


Il palco appare alquanto spoglio, tranne uno schermo frontale con immagini che sono riflesse anche per terra, formando un mosaico-puzzle che cambierà nel corso dell’allestimento. Due comodini inoltre fungono da supporto per l’attrice-adattatrice di Orlando, Katelijne Damen (anche costumista): in essi trova l’acqua da bere nei momenti indispensabili, per lei e per gli spettatori, di pausa nel testo, per subito riprendere con rinnovato vigore. Infatti la Damen sostiene integralmente da sola per tutto lo spettacolo il testo di Virginia Woolf, con una forte ma allo stesso tempo dolce energia. Non vi è incarnazione del personaggio, ma il testo viene narrato come un canto epico molto intimo. Il fraseggiato olandese e i pochi ma determinanti e significanti gesti dell’attrice, hanno per gran parte il merito di trasmettere in maniera commovente la bellezza poetica di Orlando. La stessa funzione assolve con minuzioso scrupolo il delicato accompagnamento musicale, una musica da camera classica, o accenni di arie da opere, o anche il vento burrascoso delle traversate marittime. E lo schermo, unico supporto di arricchimento scenico, ci offre delle composizioni suggestive, le carte geografiche dei viaggi di Orlando, o ancora dei dettagli rilevanti come la mano o il volto ingrandito della Damen, con un sapiente uso delle tecniche cinematografiche. Il viaggio di Orlando è dunque accompagnato in questa dolcezza mai ridondante fino alla fine, più intima, quando lentamente cala la luce e l’attrice si raccoglie in posizione fetale. Dolce, e indimenticabile.

In scena all’Opéra-Théâtre.


Par les villages
Mise en scène Stanislas Nordey

Stanislas Nordey, regista associato, insieme a Dieudonné Niangouna, dell’edizione 2013 del festival di Avignone, sceglie di allestire alla Cour d’honneur del Palazzo dei papi Par les villages di Peter Handke. Si tratta di un testo alquanto ostico già alla lettura, dal respiro più poetico che strettamente teatrale, in quanto composto principalmente di lunghi monologhi che descrivono stati emozionali e propongono una ricca composizione della scrittura, più che una vera azione narrativa e teatrale. La sfida dunque è difficile, e non sembra totalmente riuscita, anzi. La ricca energia di certi attori (tra cui una buona menzione merita lo stesso Nordey), mostrata nell’enfasi del gesto (a volte forse ridondante), o la modulazione variegata della dizione e dei toni usati nella recitazione, non riescono a tenere sulla lunga durata dello spettacolo (dalle iniziali tre ore e mezzo previste sono arrivati a ben quattro ore e mezzo!). Il pubblico è messo a dura prova e non resiste: chi va via prima della fine dello spettacolo, chi resta in paziente attesa, un po’ smanioso di fischiare, un po’ sbuffando. Il monologo finale, durato da solo più di mezz’ora, recitato in maniera totalmente monocorde, frontalmente al pubblico e per di più con le mani nelle tasche (!!!) dall’attrice che recita Nova (Anne Mercier), è stato la goccia che ha fatto traboccare il vaso. Il che è un peccato, perché fino alla fine del primo atto erano comunque ben visibili l’amore e la dedizione esibiti nei confronti del testo. Una condiscendenza alla poesia che ha limitato un po’ i mezzi scenici: nel primo atto viene mostrato il cantiere con cinque prefabbricati blu (un’immagine un po’ stereotipata), dopo la pausa i cinque fabbricati vengono girati e disposti a scudo, in modo da esibire degli alberi stilizzati che propongono l’atmosfera da cimitero. Un allestimento minimalista, che non sembra riuscire a sfruttare appieno le immense potenzialità della scena della Cour d’honneur. Una nota di merito va tuttavia riconosciuta all’accompagnamento musicale, una coinvolgente chitarra elettrica, la cui ombra gigantesca svettava a tratti sul muro della corte, grazie ad un sapiente gioco di illuminotecnica.

In scena alla Cour d’honneur du Palais des papes.
Fabio Raffo

domenica 7 luglio 2013

Sguardo sul festival di Avignone 2013 | Giorno I (5 luglio)

Ping Pang Qiu 
mise en scène Angelica Liddell
Le contraddizioni dell’amore

Sul palco in posizione centrale una tavola da ping-pong con quattro sedie, sullo sfondo uno schermo. Al tavolo siedono per la maggior parte dello spettacolo i quattro attori: un uomo e una donna vestiti da militari cinesi comunisti, Angelica Liddell in completo rosso sgargiante e parrucca azzurra, e un uomo con un costume di piume gialle, la cui funzione sembra limitarsi a portare all’inizio un cane in scena, a cui vengono insegnate le regole base del ping-pong. Il tavolo da ping-pong serve per l’interrogatorio politico-amoroso rivolto alla Liddell, mentre lo schermo viene usato un’unica volta per trasmettere l’assai noto (ma non in Cina) video di Piazza Tienanmen, in cui i carri armati dell’esercito vengono bloccati da un uomo solo. In quest’occasione i quattro attori mimano i movimenti dell’uomo, in una danza che ritorna anche in seguito senza video, con l’Orfeo ed Euridice di Gluck in sottofondo. La musica e la storia di Orfeo ed Euridice, il cui libro viene bruciato dal militare, testimonia dell’amore non corrisposto della regista per la Cina. Un amore incompreso, sottolineato a ogni piè sospinto, con fin troppa ridondanza dalla Liddell. Anche il finale anarchico e caotico, fatto di lanci di spaghetti cinesi, palline da ping-pong, baci e abbracci tra Angelica e l’attrice - prima militare, vorrebbe forse testimoniare la «bellezza controrivoluzionaria» incancellabile della Cina, ma in fondo rende più le contraddizioni di quest’amore, sottolineate nel testo dalla stessa autrice-artista. La Liddell sbatte in faccia al pubblico quest’amore che sembra così grande, ma alla fine ha la statura dei soldatini in miniatura usati in scena. Questi mostrano fin troppo bene il rapporto della Liddell con la Storia della Cina, conosciuta ed esibita come un campo di battaglia con pezzi da muovere. Anche la notevole padronanza del corpo degli attori, su cui si muove sinuoso il fluente dettato spagnolo, oppure la pur commovente testimonianza dell’attore-militare sulle violenze della rivoluzione culturale (un finale ideale, ma così non è stato), si infrangono purtroppo su quest’opprimente, ideologico e superficiale sguardo occidentale, giustificato in nome di un amore a questo punto poco credibile, e anche un poco ridicolo.

In scena al Gymnase du lycée mistral.




Ouvert! 
Conception Groupe F

L’intensa e commovente bellezza dello spettacolo di fuochi d’artificio, acrobazie aeree e di luci e disegni, in occasione dell’apertura del festival e dell’inaugurazione del suo nuovo edificio di residenza e sala prove per gli spettatori, la FabricA, hanno permesso di cancellare la fastidiosa impressione lasciata dallo spettacolo della Liddell, di cui bisogna comunque riconoscere la bravura e l’interesse per le tematiche sollevate. Per quanto riguarda Ouvert, soprattutto l’alternarsi di disegni molto intimi quali quelli dei bambini, proposti al fine di evocare l’edificio precedente (una scuola colpita dai tagli all’istruzione), e immagini-video invece folgoranti e a tratti anche angoscianti, hanno dato il respiro più ampio a questa mirabile opera multimediale. In sintesi, emozioni intense (positive e non) “chiudono” l’apertura del festival di Avignone 2013.

In scena alla FabricA.


Fabio Raffo