mercoledì 8 febbraio 2012

Parlando di "Digerseltz" e della voglia di sopravvivere alla morte

Open Space Teatro/ Voci dalla Soffitta incontra Elvira Frosini allo spazio Atelier SI di Bologna.
“Perché l’esperienza non è semplicemente ciò che viviamo, ma anche  - e soprattutto - la sua riappropriazione. Insomma, per rendersi conto (elaborare) bisogna rendere conto (cioè, letteralmente, raccontare)”. ( L’illusione difficile, Federico di Chio, Studi Bompiani, 2011)


Parlare di teatro è importante tanto quanto vederlo. Probabilmente è con questa idea che Fiorenza Menni - Teatrino Clandestino pensa a Sì*metrica: un progetto che si compone di commissioni di opere, collaborazioni creative, residenze artistiche e presentazioni di spettacoli alcuni anche in anteprima nazionale, che arricchiscono ciascuno con la sua specificità lo spazio creativo di Via San Vitale 67. E quest’anno, alla seconda edizione, rilancia ulteriormente la proposta aprendo le sue porte anche ad artisti e compagnie teatrali attivi non solo a Bologna ma sul territorio nazionale e che animano la nuova sezione dal titolo Pas d’Habitude.
Ed è nel foyer che noi - come blog di critica teatrale - siamo stati invitati a confrontarci con Elvira Frosini alla fine dell’anteprima della sua nuova produzione Digerseltz. L’ex danzatrice romana, della compagnia Kataklisma, arriva a Bologna in una freddissima serata di inizio febbraio, ma riesce a riscaldarla con la sua parlata, con la sua ironia e con la voglia di confrontarsi con il suo pubblico. Non tutti gli artisti sono disposti a essere intervistati pubblicamente, per cui merito all’attrice che di questo lavoro è stata anche drammaturga e regista.
Per noi è stata una palestra, un modo per “giocare” a fare seriamente i critici. È stato un bel momento per mettersi in discussione. Osservare e poi trovare le parole per raccontare il teatro del nostro tempo è una bella scomessa per noi che siamo solo un gruppo di studenti e di studiosi che si interrogano sul significato e sui modi per poter essere critici di teatro oggi, momento dopo momento, spettacolo dopo spettacolo.

Cominiciamo dall’ultima scena dello spettacolo: lo schieramento del presepe bidimensionale.
Perché una barricata? Cosa rappresenta? Perché dividere i due mondi?

Durante il primo studio dello spettacolo presentato a Roma lo scorso inverno, questa strategia voleva essere un modo per creare una barricata tra il palco e il pubblico: nel tempo si è trasformata da un enorme cumulo di cibo - idea iniziale - a sagomine dei personaggi - nella versione definitiva-. Quel momento è anche “l’ultima cena” dello spettacolo. Ho voluto creare una barricata con i personaggini del presepe, dove io stessa assumo i panni di Maria che mostra il bambinello accanto a Giuseppe, perché in quella scena finale ci si può in qualche modo specchiare. Si percepisce la distanza tra me, attrice e autrice, e i miei personaggi, si prende coscienza dell’ironia dello spettacolo e si intuisce che nessuno è immune da queste visioni perché tutti abbiamo una bocca, ovvero tutti in qualche modo divoriamo e consumiamo. Ho voluto al mio modo ristabilire uno spazio dove celebrare il rito del teatro come luogo di incontro e di condivisione.

Lei è autrice di questo lavoro. Qual è il suo stile di scrittura?

È una drammaturgia spezzettata. Molto spesso ho in mente prima delle immagini e suggestioni. Poi cominciano a prendere forma scritta. Inizialmente sono scene singole e non hanno un ordine preciso, non hanno un inizio o una fine. Possono essere spostate, cambiate di posto. Solo dopo acquistano forza mettendole insieme e raccordandole con il filo comune del lavoro.

Si può dire che la sua è una “drammaturgia dei corpi”?

Assolutamente sì. Scrivo avendo in mente due cose: il corpo degli attori e il corpo del pubblico. Sono due cose con le quali mi tocca fare i conti costantemente. Non riesco ad arrivare alle prove dello spettacolo con un testo chiuso e definitivo, ho sempre bisogno di confrontarmi con gli attori.

E infatti avendo difronte delle sagomine…

Faccio in fretta a chiamarle “figuranti”. Ma la cosa che più mi è sta a cuore è la presenza costante del pubblico nel buio della sala. Non posso seguire una strada facendo finta che non ci sia. È il senso del mio lavoro, è uno scambio continuo di energie: da loro prendo e a loro do.

Si è già discusso su questo lavoro e lei ha sottolineato l’idea di “sopravvivere alla morte”. In che senso?

È un’idea che mi ha spinto a perseguire la strada del cibo e a ragionare su esso. Tutti noi vorremmo allontanare il momento della morte. E paradossalmente tutti noi mangiamo per vivere il più a lungo possibile, ma nello stesso momento in cui lo facciamo ci avviciniamo alla morte. E non solo perché il cibo potrebbe essere avvelenato, ma semplicemente perché non potrebbe essere diversamente.

Perché il titolo Digerseltz?

Vuole essere un rimendio e un sollievo alla grande abbuffata che la vita ogni giorno ci propone.


Josella Calantropo

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