giovedì 31 gennaio 2013

Oscura immensità: un teatro che divide le coscienze


Vendetta o perdono? Un guazzabuglio di risposte dentro una oscura immensità che avvolge. Difficile astenersi da qualsiasi giudizio. Probabile la certezza di dover fare i conti con l'intima coscienza, i luoghi comuni e le verità velate di una giustizia, a volte giusta, a volte fin troppo crudele. Premettendo che giusto o corretto, buono o cattivo siano parametri adeguati. Una nube di idee, accuse, perdoni. Impossibile non schierarsi e rimanere neutrali. Oscura immensità nasce dal romanzo L'oscura immensità della morte di Massimo Carlotto, per la regia di Alessandro Gassman con la coproduzione di Teatro Stabile del Veneto e dell'Accademia Perduta Romagna Teatro-Teatro Stabile d'Innovazione.


È il racconto di un fatto di cronaca della provincia del nord-est italiano. È il confronto tra vittima e carnefice, entrambi straziati da tragedie personali. Rispettivamente Giulio Scarpati, in scena Silvano Contin, e Claudio Casadio, nei panni di Raffaello Beggiato. Quel che mostra la traduzione scenica del romanzo è il confine quasi impercettibile tra bene e male. La possibilità che si travalichi quel confine trasformando la vittima in carnefice, e viceversa. Un gioco di ruoli e di doppi. Due forme di prigionia diverse. La vendetta come razionalizzazione del lutto. Il dolore della perdita. La vendetta: l'assenzio dei disgraziati. Una donna e un bambino di soli otto anni vengono presi in ostaggio da due malviventi durante una rapina e muoiono. Rimane il padre, Silvano Contin, intrappolato in una oscura immensità, sopravvivendo i suoi giorni e premeditando la sua vendetta. Un dramma umano, epico, primordiale, antico. Chi si macchia di un reato ha diritto a una seconda possibilità? Chi perde i propri cari ha diritto a vendicarsi?


 Un caldo confronto sullo scenario di una contemporaneità che ci offre numerosi spunti e occasioni di confronto. Linguaggio crudo e fresco, quello della cella umida di una galera a vita. Una scenografia cinematografica. Sovrapposizione di scene e riflessi di figure virtuali. Una prostituta sfatta e grassa, la madre di Casadio invecchiata dalle preoccupazioni, la moglie e il figlio di Contin. Fantasmi rievocati su uno sfondo nero e oscuro. Prima l'appartamento di Contin, poi la cella di Casadio. Una consonanza di cambi di scena, una dissonanza di luci. Due drammi esistenziali, nella forma del soliloquio, che si intrecciano con i ricordi di un passato deturpato e i progetti per una morte serena. Contin vive l'oscurità. L'oscurità di un condominio anonimo di periferia, di un appartamento triste e desolato, di un vino in brick, di una professione banale. Il carnefice, affetto da un tumore, chiede il perdono che, una volta firmato da Contin, gli permetterebbe di passare i suoi ultimi giorni nella casa della madre con frigo e cubetti di ghiaccio sognando Brasile e libertà. L'alleanza tra vittima e carnefice si può? La debolezza del carnefice è quella di non poter fare a meno della vittima, e viceversa. Sia vittima che carnefice vivono nell'oscura immensità di una Sindrome di Stoccolma amplificata e reciproca. Ognuno vive vittima e carnefice di se stesso.
In scena il 29 e 30 gennaio al Teatro Arena del Sole (Via dell'Indipendenza 44, Bologna) Info.
051 224332
Angela Grasso

martedì 29 gennaio 2013

Tre premi UBU per un solo spettacolo: L'Origine del mondo. Ritratto di un interno


Ricetta del buon spettatore:
prendete tre tre premi UBU, affidateli a tre magnifiche donne; amalgamate originalità, ambizione e maestria; aggiungete un pizzico di sorpresa; pazientate altri tre giorni e lo spettacolo sarà pronto!
Daria Deflorian, Federica Santoro e Daniela Piperno calcano il palco del Teatro Rasi di Ravenna per portare in scena L'origine del mondo. Ritratto di un interno, sabato 2 febbraio ore 20.30.
La regista anticipa che la linea traccia iniziale è una crisi individuale che travolge un gruppo familiare, nella fattispecie la crisi di una madre Daria, che fagocita la figlia Federica. Crisi dovuta ad una depressione che si installa, e rende obbligatoria l’esplorazione psicanalitica ma anche drammaturgica-diciamo gestaltica- di dinamiche affettive e familiari.
Si indaga la coscienza di una Madre, quello che lei ne sa, di tutto quello che in fondo lei significa e a cui appartiene; si esplorano gli stati d’animo mortificati di una Figlia adultizzata, la sua assenza di modelli, la sua tenacia; tratteggia l’indifferenza, la rabbia e l'impotenza di tutti gli altri, quelli che si ritrovano a gestire una persona depressa, senza sapere come. Intanto, diversamente, ma certo si vive.

In occasione dell’unica data in Emilia Romagna, e in assegna di treni notturni per raggiungere Ravenna, è stato organizzato un autobus da Bologna.
PREZZO SPECIALE 18€ (autobus + biglietto spettacolo) durante gli intervalli verrà offerto un buffet.
Partenza dalla stazione degli autobus di Bologna sabato 2 febbraio alle ore 18.45. 
La prenotazione
è obbligatoria e va effettuata entro mercoledì 30 gennaio.
Informazioni e prenotazioni tel. 333 7605760 / 0544 36239
organizzazione@ravennateatro.com
Angela Sciavilla
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Ravenna Teatro / Teatro delle Albe 
Teatro Rasi
sabato 2 febbraio ore 20.30
Lucia Calamaro
LOrigine del mondo, ritratto di un interno
spettacolo in tre atti
 

scritto e diretto da Lucia Calamaro
con Daria Deflorian, Federica Santoro, Daniela Piperno
disegno luci di Gianni Staropoli
realizzazione scenica di Marina Haas
aiuto regia Francesca Blancato
produzione 369gradi

Premi Ubu 2012 come "nuovo testo italiano o ricerca drammaturgica";
a Daria Deflorian come "miglior attrice";
a Federica Santoro come "miglior attrice non protagonista"

Lucia Calamaro torna al Rasi con Lorigine del mondo, ritratto di un interno, una commedia umana al femminile in tre quadri, tre elettrodomestici e tre voci. Un viaggio dentro la solitudine umana composto di gesti, immagini e parole su uno sfondo bianco come un luogo dell’inconscio. Tre episodi, ognuno un elemento della vita quotidiana di una casa enorme, vuota, in cui coesistono tre età della stessa donna, o tre donne in successione di una stessa famiglia, poco importa: c’è l’universo donna in scena, questo conta. Tre attrici sapienti, guidate da una regista drammaturga tra le più interessanti del panorama italiano, ci proporranno l’edizione integrale dello spettacolo. 

durata 3h con 2 intervalli
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Note di regia

Di fronte al tempo, alle crisi alle mutazioni esistenziali
Magari sotto pressione, impotente, spesso isolato
Comunque inadeguato al rapporto ma lo stesso presente.
Decisamente depresso e si vede, uno fa fatica però vive, trova strategie, si inventa.
Si tratta di reagire.
O al meglio: adattarsi.
Come si sta di fronte alle cose, quando peggio del rapporto con Uno, c’è solo il rapporto con gli Altri?
Lo sappiamo? Lo possiamo sapere? Esiste un IO generico guida?
Non so. Non mi pare. Da qui non mi azzardo alla teoria.
Passiamo allora allo studio di un caso.
Daria non esce più. Da qui, dalla tana, constata che lei di umano ne conosce veramente solo uno, convivono nello stesso corpo, e a volte si distrae anche da lui. Se lo perde, non lo capisce.
Questa relazione fluttuante e disattenta spesso fa si che si ritrovi a non essere contemporanea neanche di se stessa.
Un convivente, anche lui suo malgrado familiarizzato con l’umano di Daria, visto che ne dipende affettivamente, la richiama a lei e al tempo: la Figlia.
È lei che mantiene il mondo. Lei, Federica, è il suo Atlante domestico.
Tanto che a volte uno si chiede chi ha messo al mondo chi, in questa faccenda.
Nella casa in cui si muove con sua figlia, temporaneamente rinchiuse in cerca di un senso ritrovato, appaiono figure della soglia, abitanti del dentro-fuori, che irrompono e agiscono. Figure queste, tutte animate dalla stessa volontà: tirarla fuori. Si avvicendano su scena strappandole alla loro intimità duettistica l’analista, sua madre, la cameriera, suo marito. Gente che sta più fuori che dentro, ma a volte anche troppo dentro o troppo fuori.
Insomma, ma che ne sanno loro della fatica necessaria a snodare gli intrecci traumatici nascosti nelle geometrie del profondo? Eppure.
L.C.

lunedì 28 gennaio 2013

KaraKasa Circus: eremiti in una discarica


KaraKasa Circus presenta Casa Dolce Casa, spettacolo di teatro acrobatico dell'Europa dell'Est.
Italia, Polonia, Romania, Russia e Ungheria sono i luoghi di origine di equilibristi, saltatori, giocolieri e clown provenienti da esperienze teatrali, di arte di strada, di circo sociale e di acrobatica. 


Si chiama KaraKasa Circus, compagnia con un'esperienza di dieci anni nel campo del circo teatro. L'azione si svolge in una discarica infestata da topi e oggetti senza vita. Un angolo di mondo ai margini della città. Un sottofondo di tuoni, pioggia e i rumori della metropoli. Questi barboni vivono dei resti, di quegli oggetti scartati e riutilizzati in modi sempre nuovi. Sono personaggi senza casa, eremiti sotto un tetto di stelle e nuvole al galoppo. Si accontentano di inventare una casa con la spontaneità con la quale la natura si cambia di abito. Si alternano le stagioni e si rende la discarica il più possibile abitabile. Una pioggia di lacrime, uno spettacolo tristissimo e ombrelli che fanno piroette in cielo seminando coriandoli, foglie secche e batuffoli di cotone. Finestre senza pareti e buste di plastica colorate animate dal respiro degli attori. Un mare si gonfia in lontananza e lo si attraversa con scope come remi e una cornice come barca.
Personaggi che si accontentano di avere come casa una discarica e, sopra, solo un cielo di speranze. Spettacolo di Marcello Chiarenza e Alessandro Serena. Musiche dal sapore dell'Est ad opera di Carlo Cialdo Capelli. Si alternano gags divertenti a una vena malinconica. Un cimitero di allegria. Capriole in aria, acrobazie e visioni riciclate. Un teatro a partecipazione. Un teatro per bambini e adulti.


 La disciplina acrobatica si mescola con il teatro di figura attraverso l'uso di scenografie che prendono forma davanti agli occhi del pubblico come numeri di magia. Oggetti senza vita e un tocco di comicità trasognata. Un teatro che stupisce. La produzione è il risultato di Homeless, progetto transculturale sostenuto dalla Commissione Europea e nato presso il Circolo della pace, rassegna di circo sociale di Bagnacavallo (Ra), che ha ottenuto dal Presidente della Repubblica la Medaglia di Rappresentanza. Giochi di forza, prese, coreografie fantasmagoriche. Finestre per vedere attraverso e uno specchio per far vedere il pubblico. Uno spettro caleidoscopico di luci e colori. Un teatro senza richiami. Una coreografia di muscoli e sudore. Forti sinergie, profonda complicità e legami di fiducia. Un calderone di emozioni. Il pubblico è chiamato ad agire. Non c'è azione senza improvvisazione e margine di casualità. Un teatro che supera le barriere linguistiche. Quintessenza di piacere. Un applauso vasto e umano: l'applauso di una folla di tutte le età.


In programmazione al Teatro Arena del Sole il 26 e 27 gennaio (Via dell'Indipendenza, 44, Bologna)

Angela Grasso

domenica 27 gennaio 2013

Saverio La Ruina tra le righe di un' intervista

Attore, drammaturgo e regista teatrale italiano, in tre parole: Saverio La Ruina.  Diplomato alla Scuola di Teatro di Bologna, prosegue la sua formazione con Jerzy Stuhr e lavora con Leo De Berardinis e Remondi e Caporossi. Vincitore di due premi UBU nel 2007 come Migliore attore italiano e per il Migliore testo italiano con Dissonorata e Un delitto d'onore in Calabria, è anche co-fondatore, con Dario De Luca, della compagnia Scena Verticale (1992).
Non meno importante il premio UBU 2012 come Migliore attore italiano con Italianesi.

-          Sappiamo che sei appena tornato dal Lussemburgo… Ce l’hai anticipato per telefono (in una delle conversazioni “di mediazione” per l’intervista, ndr)
-          Esattamente. Sono andato a vedere la messa in scena de “La Borto” (debuttato al Teatro India di Roma nel 2009) in giro per il Lussemburgo dal 24 ottobre fino al 22 novembre.
-          Cosa vuol dire per un regista, attore e autore, veder mettere in scena da qualcun altro i propri lavori?
-          È spiazzante. In Francia è stato già letto nel 2011 da una grande attrice, Valerie Dreville, che ha lavorato anche con Alain Resnais a Jean-Luc Godard. All’inizio aveva rifiutato per mancanza di tempo. Poi, a fine serata dopo la sua lettura, ci presentarono mi guardò con un’espressione stupita e mi disse: “Ma… ma sei un uomo!”. Era sicura che il testo l’avesse scritto una donna e questa sicurezza la legava all’interesse, alla forza che quelle parole avevano per lei. Anche una giornalista, intervistandomi, mi disse: “Sembra strano parlare con lei...sembra scritto da una donna”.

Saverio La Ruina in Dissonorata (2006)

-          Il fatto che a raccontare questa storia sia un uomo, in realtà, non toglie nulla allo spettacolo, anzi…
-          Perché fin dall’inizio ho cercato di interpretare la donna, già con Dissonorata nel 2006. Si ha davanti un uomo che dà voce a una donna vittima, e nel farlo si denuncia come carnefice. È la voce della donna, la sua esperienza, a venir fuori e a incantare lo spettatore. Solo se ci si nega a questo si vive il disincanto.
-          Adesso sei di ritorno da spettatore del tuo stesso testo, un vero e proprio spettacolo fatto da altri. Un’ esperienza… diversa!
-          Un’esperienza… stupefacente! È del tutto diverso da come l’ho fatto io: in questo spettacolo c’è una scenografia, impensabile nel mio La Borto. Il giovane regista ha pensato a lampadine calate dal soffitto che si illuminano e oscurano a seconda dell’evoluzione dello spettacolo.  Nel mio, invece, non c’è scenografia perché per me ognuno doveva riportare quel racconto alle proprie esperienze e viverlo nella sua realtà.
-          Altre differenze?
-          Beh, la protagonista qui è un’attrice di una certa età, anche abbastanza corpulenta. Appena l’ho vista ho detto: “Sì, può essere una probabile Vittoria” (è il nome della protagonista di La Borto, ndr). Poi nella loro cultura non esiste il termine “mammana”. In Calabria, è conosciuta anche come “la donna che fabbrica gli angeli”, perché, facendo abortire le donne dava vita a tanti angeli, a tanti bambini non nati. Probabilmente, questo concetto dei bambini trasformati in angeli può spiegare la scelta registica delle lampadine: possono sembrare delle stelle, legarsi all’idea del cielo... non so. Comunque la cosa più bella è che la scenografia non andava a muovere violenza allo spettacolo: non era descrittiva ma suggestiva, aggiungeva qualcosa in più rispetto al testo.
La Ruina in Italianesi
-          Anche Italianesi, lo spettacolo che hai portato in scena ai Teatri di Vita di Bologna, ha avuto successo all’estero
-          Sì… Valerie ha voluto farne una lettura in dialogo con me, presentata nel progetto Face à Face – Parole d’Italia per Scene di Francia al  Festival ActOral di Marsiglia. Festival internazionale delle arti e delle scritture contemporanee, e la traduzione è stata fatta da un’istituzione come la Maison Antoine Vitez di Parigi.
-          In Italia, invece, questo spettacolo è stato portato in scena all’interno di una vetrina particolare come quella del Teatro Valle occupato…
-          Ci chiesero di fare una residenza artistica al Valle durante la sua occupazione, in un progetto il cui obiettivo era dare visibilità ad artisti giovani, e così ci siamo “presentati” anche noi di Scena Verticale a gennaio, con Italianesi, per l’appunto.
-          Comunque si è creata una relazione particolare: una realtà teatrale, che cerca una società dove costruire un futuro, ospita uno spettacolo come il tuo, dove il protagonista cerca una patria reale a cui legare un passato: forse è una lettura un po’ contorta?
-          (ride) Beh, è contorta, ma ci sta. In effetti si cercava di dare un’identità teatrale al luogo: il Valle sarebbe diventato un contenitore commerciale; noi invece volevamo farlo diventare luogo del contemporaneo, casa delle drammaturgie, e la ricerca di identità è un punto forte in Italianesi. Quindi, non ci avevo pensato ma ci sta.
-          Parliamo del protagonista della storia: un altro eroe “laruiniano”, un altra persona sola alla ricerca di una comunità a cui raccontarsi.
Credi che questo aspetto si leghi anche ad una riflessione più o meno implicita sulla possibilità della tragedia oggi, concepibile finché vi saranno personaggi che cercano una comunità a cui parlare?
-          Quello che posso dire è che io cerco continuamente la comunità nei miei spettacoli. Qui Tonino (protagonista dello spettacolo Italianesi, ndr) cerca una comunità per raccontare di questa identità negata, e per costruire questo ho portato avanti un’analisi dell’invisibilità vissuta davanti alle istituzioni, alla gente e alla società. Il mio obiettivo primario è dare voce a chi voce non ha.
In Dissonorata ho voluto dare un’immagine della donna nel meridione diversa dalla piagnucolante dea del focolare: nelle società del sud Italia la donna è la vera forza della famiglia, e volevo che questo fosse chiaro.
-          I tuoi personaggi sono pensati anche grazie a un lavoro particolare sulla voce, sul tono: sonorità basse, sussurri che a volte fanno perdere la risonanza, regalando percezioni profondi, sentimenti. Tonino, in Italianesi, sussurra un “malinconia” da togliere il fiato...
-          La voce è cifra del personaggio. Le cose urlate non mi sono mai piaciute, non si capiscano. Preferisco lavorare in antitesi, usare il sussurro invece che i modi di esprimersi oggi diffusi nella società: insomma tutti sanno chi è Sgarbi, ma nessuno si ricorda mai cosa dice.
-          Dove hai conosciuto Tonino?
-          L’incontro con la realtà di Tonino è stato del tutto casuale: stavo guardando la tv e in un programma parlava uno di questi “italianesi”, tra l’altro sono pochissimi quelli rimasti in vita, molti sono morti addirittura nelle carceri.
-          Conoscevi già la sua storia o eri ignaro di tutto, come la maggior parte di noi?
-          Non ne sapevo nulla e sinceramente mentre guardavo la tv non ci credevo, mi sembrava tutto costruito. Allora mi sono incuriosito e ho iniziato a cercare il signore che avevo sentito parlare in trasmissione. Ho dovuto vincere ritrosie e sospetti, piano piano ho cercato di fargli capire che non volevo nulla, se non la sua memoria... i suoi ricordi, per poter divulgare.
-          È stato difficile convincerlo a raccontare?
-          Mi sono dovuto conquistare la sua fiducia. La vita di questa gente è stata sempre controllata. Certo, non siamo ai livelli di dittature come il nazismo ma le sottili vessazioni psicologiche e i continui spionaggi a cui era sottoposta la loro vita portano i pochi sopravvissuti a sentirsi eternamente sotto osservazione. E questo passato li porta a diffidare. Sono riuscito a superare queste difficoltà e a scoprire tante piccole realtà: le lettere che i figli scrivevano ai padri, i soldati e i civili che si ricostruivano una vita all’interno dei campi, le donne che si sposavano con italiani poi rimpatriati, costrette a vent’anni ad aspettare una vita fino al 1991, per rivedere i propri mariti. Poi ho conosciuto l’associazione A.N.C.I.F.R.A. e la memoria che gelosamente difendono dall’oblio.
-          Questo spettacolo quindi è nato da un bisogno di…
-          Capire. Volevo capire.
-          E far capire, aggiungerei. Anche perché il forte impegno civile di questo spettacolo è stato riconosciuto: ricordiamo che qualche giorno fa hai vinto il Premio Landieri come miglior attore.
-          Ricevere un premio oggi non fa notizia, anche perché di premi ce ne sono un’infinità. Ma il premio Landieri, come dici tu, è legato all’impegno civile e ti fa toccare una realtà che ha bisogno di coscienza, ha bisogno di sconfiggere l’omertà. Questo premio è legato alla morte di un ragazzo, Antonio Landieri, il cui ricordo sta faticosamente uscendo dalla merda che la camorra ci aveva buttato sopra: si era cercato di legittimare la sua morte costruendo il sospetto di un suo possibile legame con la malavita. Anche qui si parla di un’identità da ricostruire, anzi un’identità da restituire alla verità. Riceverlo mi ha fatto pensare al forte senso che il teatro ha ancora oggi nel sociale. Sono contento del valore che hanno legato a questa realtà . Ma abbiamo avuto un riconoscimento anche da un’altra realtà simile, il premio Teresa Pomodoro per il teatro dell’Inclusione che è sempre legato all’impegno civile, al dar voce agli ultimi... ha una giuria niente male: Ronconi, Barba…


-          Ancora un altro monologo, un’anima sola che parla a una comunità, accompagnato da una sedia.
-          È un monologo diverso. Volevo distaccarmi dai lavori precedenti rimanendo però in armonia con le esigenze del mio scrivere: riportare nella scrittura le linee geometriche della dittatura che imponeva una squadratura disumana alla vita degli internati. Tonino è un personaggio puro ed è anche vero che lo accompagna ancora una sedia, ma qui la sedia ha una funzione drammaturgica: è di ferro, ha una grata come seduta e la grata richiama la prigione; ha le rotelle e sostiene lo zoppicare di Tonino, lo sorregge, gli dà forza: ha una ragione nel suo essere in scena, non è semplicemente il posto dove si siede il personaggio, come invece era, per esempio, per Vittoria (si riferisce alla protagonista di Dissonorata, ndr).  Anche le musiche sono più lavorate. È un progetto che segna un’evoluzione. Tema nuovo, elementi nuovi. È vero che anche qui grande importanza è affidata ai contenuti, ma questa è un’arma a doppio taglio: spesso si confonde l’importanza dei temi trattati con l’importanza dello spettacolo e si giustifica l’uno con l’altra, così che molti spettacoli poco validi teatralmente sono, diciamo così, “fraintesi” nel loro valore per il contenuto che invece merita attenzione. Il contenuto è importante ma il lavoro si giudica attraverso la percezione e la percezione è forte solo se è teatrale, al servizio di regole e contenuti.
-          Anche qui sei partito da ricordi particolari, difficili da custodire. Come autore tu cerchi storie, racconti, scavi nei ricordi e a volte anche nei dolori.
Io non cerco, ho una sorta di radar sempre acceso. Quando sento la necessità forte di un argomento, la colgo. I miei personaggi sono popolari, lo capisci da come parlano: l’immediatezza sulla scena mi viene da questo linguaggio di strada ma anche dal lavoro che faccio su questo. Costruisco una struttura musicale nella mia scrittura, cerco ritmo e armonia per rendere questo “idioma” efficace. È un artificio che però non si deve sentire, e testo il mio lavoro leggendolo a persone che parlano quel “linguaggio della strada” da cui sono partito e su cui ho lavorato. Se arriva, se è seguito, allora il test è positivo. La forza del dialetto è incontrastabile: ci sono pezzi che penso in italiano e non mi suonano, poi li penso in dialetto e allora è tutto diverso, è tutto più forte ma questo a teatro succede da sempre: pensiamo a Goldoni, a Ruccello, a De Filippo. Poi in Italianesi la sfida è superiore: scrivere un testo in italiano e costruirci sopra un accento che sia capace di dare forza e potenza al parlato senza invaderlo.
-          Definiscici La Ruina studente del D.A.M.S. di Bologna...
-          Ma non solo del  D.A.M.S.. Sono diplomato alla Galante-Garrone e il mio maestro è Leo De Berardinis: il mio primo lavoro da attore è stato l’Amleto diretto da lui.
-          Ma il D.A.M.S. ha inciso anche sulla tua carriera da professionista, o sbaglio?
-          Sì, qualche anno fa Gerardo Guccini (docente di drammaturgia al DAMS di Bologna, ndr) e Dario Tommasello organizzarono in collaborazione con il Premio Riccione degli incontri per gli studenti tra Bologna e Messina, incontri che avevano come tema gli autori teatrali contemporanei. All’epoca mi ricordo che lessi quasi tre quarti di Dissonorata. Nello stesso periodo stavo pensando al soggetto di Italianesi, ne avevo un’idea.
-          E poi?
-          Ah sì, allora, in quel periodo avevo tra le mani Italianesi e lo proposi all’attenzione di Guccini. Mi disse: “Attenzione, questo personaggio ha una bella anima, ma dopo quest’esperienza del campo deve avere un’ala spezzata”. Sentire queste parole mi ha illuminato la parte buia di Tonino, ho iniziato a lavorare sulla parte nera dei colori, sull’amarezza del ritorno in Italia, sul dolore... sul suo essere zoppo. Guccini è per me un monito, un orizzonte di riferimento.
-          Ultima richiesta: una voce, un pensiero sul tuo teatro contemporaneo. Qualcosa da custodire gelosamente…
-          Oddio, è una domanda a cui è pericoloso rispondere… Credo che sia importante per il teatro contemporaneo ascoltare con il cuore. Certo, entra in gioco anche la ragione, ma non bisogna essere troppo autoriflessivi. È importante che il mio lavoro non lo capisca solo Franco Quadri, ma anche mia madre.
-          Non potevi dire cosa più bella. Grazie mille e buon lavoro!
-          Grazie a voi... Ciao gioia.

A caldo, chiuso il telefono, la prima cosa che mi viene da pensare è come sia importante, nel raccogliere voci dal teatro, il saper ascoltare. E questo è vero sia per chi il teatro lo fa, sia per chi il teatro lo osserva, lo guarda, lo pensa... e lo racconta. O almeno ci prova.
                                                                                                                                
                                                                                                          Elvira Scorza

mercoledì 23 gennaio 2013

Dalle pagine di un libro al palco di un teatro


Dal 16 al 20 gennaio Pietro Floridia lascia la cabina di regia e calca la scena dell’ITC Teatro di San Lazzaro per raccontarci il suo Teatro in Viaggio. Lungo le rotte dei migranti.

Sì, viaggiare. Lasciarsi guidare dalle storie che ti entrano nella pelle in anni e anni di lavoro con i rifugiati politici, con gli immigrati, con “quelli che vengono da...” che poi nessuno si chiede davvero da dove vengono, ma che adesso sono qui. 

O meglio, che sono quasi qui. Nasce da questo “quasi”, dal bisogno di capire perché un immigrato ti rimprovera di dimenticare la sua parte altrove, il viaggio di Pietro Floridia. Verso il Senegal, verso Diol Kadd dove ha casa Mandiaye, attore della Compagnia delle Albe che da quel villaggio era partito, da quella casa era scappato ma che adesso lì torna. Forse anche lui ha lasciato un “quasi” in sospeso dall’altra parte del mare? Non resta che scoprirlo, non resta che mettersi in cammino: Floridia, il Gabo e il Lando; l’uomo dal pizzetto, il contadino-guerriero maori parmense e il Land Rover trentenne si mettono in viaggio. O almeno il Lando ci prova, tra nuotatine nell’oceano e avventurosi combattimenti contro la lancetta del carburante degni di un mezzogiorno di fuoco nel Sahara. E mentre Floridia ci stupisce e si stupisce per la sua capacità di raccontare, di portarti dentro la storia, di farti ridere fino alle lacrime con la sua non-padronanza del francese e di farti commuovere un attimo dopo, davanti a una giovane che racconta di come un amore lontano l’abbia spezzata in due portandosi dietro una parte di lei, Gabo guarda. Ogni tanto fa si con la testa, Gabo, e ogni tanto se la ride, come i vecchi amici che quella storia non solo l’hanno vissuta pelle a pelle con te, ma l’hanno già sentita mille volte e ogni volta se la gustano con lo stesso piacere. Mentre scorrono immagini sullo schermo, mentre le parole si traducono in pensieri, il viaggio nello spazio diventa viaggio nel tempo e Floridia si mette al centro del cerchio, quel mitico cerchio che in tutti i laboratori teatrali richiede una persona coraggiosa da ascoltare, da interrogare o semplicemente da osservare. Ritorna bambino, 
Pietro, smette di essere il regista, l’uomo che guida e si lascia guidare dal tempo che sembra affondare, da Issan e dalle sue mani bruciate nel tentativo di spegnere i propri sogni, dal racconto di Said, sceso dalla propria vita per recuperare quella di un padre assente. E mentre ci osserva commuoverci nel sentire la storia del suo, di padre, e di come in questo viaggio forse non avrà ritrovato sé stesso ma ha riscoperto il sonno, gli incubi e i modi con cui si vincono, Pietro ci regala momenti di alta riflessione, ci regala la similitudine Madre–Casa e Padre-Viaggio: ogni viaggio nel mondo è un viaggio alla ricerca di un padre, e padre nella Bibbia è colui che sa partire. Come Telemaco viaggiamo e come Enea salviamo. Come quelli là, noi siamo un “quasi” spesso senza un padre da salvare. Pietro si trasforma nel piccolo Ercole e il Gabo/Lando diventa il centauro Chirone fatto di ferro e carne. Poi, come in ogni cammino che si rispetti, arriva lo sconosciuto dal sorriso buono a farti tremare le gambe e la voce: arriva il dubbio che in realtà gli anni passati a cercare storie, i silenzi in cui hai raccolto le tragedie di chi vive il teatro come una forma di salvezza dalla sofferenza estrema non sono altro che goffi tentavi di illudere te stesso e gli altri, spudorati meccanismi di autodifesa che metti in atto per non vedere il confine. 
Un vecchio sdentato ti racconta di suo figlio, chiuso in un campo circondato da un muro. Tu gli racconti di come un muro si può bucare trasformandolo in uno schermo su cui proiettare un intero festival cinematografico e ti ritrovi ammutolito davanti a una bocca urlante che ti mette davanti alla nuda verità: un muro è sempre un muro, se lo trasformi lo accetti e invece i muri devono essere abbattuti, non devono essere coperti, non devono essere dimenticati. <<Perché io non voglio un film, voglio riabbracciare mio figlio>>: in un attimo il nostro eroe muore affogato dall’ansia che forse quel vecchio non ha tutti i torti ma in un attimo ritorna la luce nei suoi occhi; torna alla mente Badolato, torna alla mente Sied che ha imparato a recitare per salvare la vita a sua nipote. Sherazad torna alla vita, e da quel nero assoluto sorge la scoperta di un “quasi”:eccolo, è quel muro di letteratura che protegge dalla vita il “quasi” del piccolo Pietro ora diventato grande. Si arriva alla terra di nessuno, si arriva lì dove non c’è identità perché non c’è diversità, dove tutto è l’opposto di tutto e vedi bambini vivere da grandi, dromedari brucare nelle caserme, macchine far da salotto. Qui, in pieno Senegal, ritroviamo Mandiaye e la storia di sua nonna e del baobab che decise di sposare una volta vedova. Qui troviamo chi è partito senza sapere che, un giorno, sarebbe tornato per salvare quella terra mangiata dal deserto, quel villaggio abbandonato dai sogni, quegli uomini che sono lì. E stavolta il loro stare non conosce “quasi”.

Elvira Scorza

All'Arena del Sole l’Amleto fa scacco matto


Il teatro è jouer. Si intende la duplice accezione di recitare e giocare. Il gioco, filo rosso che sottende lo svolgimento del dramma, è quello degli scacchi. Gioco pericoloso sul precipizio tra vita e morte. Maria Grazia Cipriani ha riscritto l’Amleto per il Teatro del Carretto pensandolo come il diario segreto del protagonista. Amleto ha, davanti a sé, un teatrino in miniatura con i personaggi del dramma riprodotti in carta pesta. Scene e costumi curati da Graziano Gregori. Una dimensione spazio-visiva orientata sul contrasto dentro e fuori. Uno spazio interno, intimo e suggestivo, che si mostra anche pubblico e collettivo. 


Suoni di lame, feste in dissonanza, echi di fantasmi, misfatti da vendicare. Si seguono le tracce musicali di Hubert Westkemper, sound designer. Sette attori e le rispettive marionette, pedine del gioco di Amleto. Ognuna, alter ego in un Altrove che è luogo inventato da una mente malata. Azioni doppie, puramente shakespeariane. Amleto crea un suo doppio, un altro Amleto, e uccide Polonio, padre di Laerte. Laerte assume la stessa posizione che Amleto ha di fronte a Claudio. Ci sono due padri da vendicare, come direbbe Victor Hugo. Un gioco di specchi e immagini riflesse. Il simbolo, ovvero la pedina-marionetta, spiega il perché del personaggio riproducendone il gesto. Attori vestiti di bianco su uno sfondo rosso di finti mattoni. Si aprono fessure. Entrano spettri, visioni fantasmatiche, personaggi di un dramma umano, fin troppo umano. Amleto è succube della sua mente contorta e turbata. Alle sue spalle il canto di Gertrude, interpretata da Elsa Bossi (che è pure Ofelia). Alle sue spalle, ancora, il ghigno del Re. 


Visioni spettrali e lugubri investono la sua immaginazione. Dimensione onirica e realtà si invischiano tanto da non distinguerle. I personaggi, ubriachi di vita, mimano feste e banchetti. La riscrittura scenica, con montaggi e tagli tipicamente cinematografici, infrange la convenzione teatrale, infrange Shakespeare iniettandogli nuova linfa vitale. Una scrittura ricreativa che si muove sui registri tragico e comico. Dramma e pantomima si intrecciano in un climax vertiginoso. Ofelia muore colpita da secchi di petali bianchi. Una danza di scheletri. La nudità dei corpi e della mente. Follia. Il duello finale. La partita a scacchi è quella che Amleto gioca con se stesso. Gertrude, figura ispirata dalla regina bianca del film di Tim Burton, è regina e madre ai limiti dell’osceno. Compare in scena bianca e candida all’apparenza ma con la gonna svoltata per intravederne la fodera rossa, simbolo di un sesso aperto. Ofelia, casta e docile fanciulla attaccata ad una corda, condannata alla cenere. Veleni e corde per suicidarsi e vendicare. Perché questo Amleto, introspettivo, grottesco e profondamente attuale, dice che cenere nasciamo e alla cenere indistintamente siamo destinati. Gli uomini sono fatti di carne e nient’altro. Amleto, con il dito puntato in aria, finge di scrivere a caratteri cubitali la parola carne. Polonio, servo impacciato. Rosencranz e Guildenstern, pedine del Re usurpatore che vanno incontro al destino saltellando come Pinco e Panco. 

Il dialogo manca e manca la comprensione. Nascono il conflitto e la sete di vendetta. Perfino la morte, rappresentata dagli scheletri che danzano, indietreggia alla vista di Amleto. Perfino la morte inorridisce alla vista del suo doppio. Paranoia e paura. Una moscacieca di verità messe a nudo e bugie velate. Una tragedia dal retrogusto antico che mette in scena la condizione esistenziale dell’uomo oggi, ieri e domani. Riecheggia nelle stanze svuotate dell’anima l’interrogativo esistenziale dell’Essere, o non essere, indecisione che impedisce ad Amleto di agire. Un orgasmo vitale. Fascinazione fisica e poetica. In scena il 22 e 23 gennaio al Teatro Arena del Sole (Via dell’Indipendenza, 44) 
Info. 051 224332

Angela Grasso


Viaggiare, "attorare", scrivere lungo la rotta dei migranti


Uno dei fondatori della Compagnia del Teatro dell’Argine di San Lazzaro di Savena, di cui è co-direttore artistico, regista e drammaturgo: Pietro Floridia è protagonista di calamaio e di avventure verso il Sud Africa di Teatro in viaggio. Lungo la rotta dei migranti, edizione Nuova S1.
Affiancato dal Gabo (diminutivo di Gabriele Silva) e Lando, un fuoristrada coi suoi trent’anni sulle spalle, il regista bolognese scrive e scrive di sé e dei due suoi amici avventurieri. Con una biro e un quadernetto conquistano il grande deserto africano, diretti verso Diol Kadd, un villaggio del Senegal, attraverso Marocco, Mauritiana, Sahara Occidentale sulle tracce dei migranti respinti o tornati.
Sappiamo che non è un reportage giornalistico, né una forma di turismo solidale.

     "Faremo quel che sappiamo fare. Faremo teatro".



Centonove pagine (euro 12) di aneddoti e imprevisti di bordo, un diario che incontra, in due mesi, decine di persone nei centri sociali di Tangeri e Casablanca, con compagnie professioniste a Marrakesh. Con amici, fratelli e sorelle dei loro attori marocchini partiti da Forum Zguid. E infine, varcato il Sahara Occidentale, con gli attori della compagnia di Diol Kadd.
                                                                         
È un viaggio di risalita nel tempo in una terra di origine in cui si dialoga con i morti, in cui il futuro e il passato si tendono le mani, in cui lavorare insieme si dice Takku Ligey.
Il progetto da cui tutto sgorga è Del diluvio e di altre sopravvivenze, coinvolge quattro continenti: Sud America, Africa, Europa, Medio Oriente e tenta di issare un’àncora di salvezza per proteggersi dalle “onde anomale” dell’Occidente.

     "Ovunque piove occidente. […]
Fuori nelle vie della città, nelle vetrine, nelle tv, come una infiltrazione.
Ovunque la stessa roba: l’acqua occidentale.



Piace pensare che il Teatro si faccia arca (come quella di Noè), in grado di accogliere al suo interno le diversità a rischio scomparsa. E allora bisogna ripartire dalla terra. Coltivare e nello stesso tempo scavare nelle proprie radici per ritrovare sé stessi. Sapere da dove veniamo per dare un senso a dove andiamo.
E il teatro? Cerca di essere il luogo di incontro tra origine e generazioni future, agendo in un tempo più vasto e immobile di qualunque tempo storico".

Un libro testimone di ancestrale autenticità in un continente minato nello stesso tempo da oppressioni governative e voglia di vivere. Lo spettacolo lì è politica, luogo di confronto pubblico.
                        
"Qui la collettività, il pubblico, la politica fanno irruzione dentro l’intimo, dentro l’artistico come i soldati dentro le case, lo portano fuori, lo sviscerano, rivoltando il dentro e il fuori e così lo trasfigurano in “figura” politica su cui confrontarsi".

Da qui nasce la ricerca del teatro dello spettatore, in cui il protagonista è chi guarda.
Spesso lo si pensa come un viaggiatore che per conoscersi deve abbandonare i luoghi noti per trovarsi fuori dal ruolo, disambientati, vedere il dentro da fuori e il fuori da dentro, per poi fare ritorno al proprio mondo, ma con un’altra percezione di sé.

     […]"Insomma, ci ho messo tutto l’impegno
A pensarle tutte le cose brutte […]
Perché non mi manchiate troppo.
Il problema è che nell’altro piatto
Basta poggiare una manciata di quelle olive
Mangiate con le mani sul bordo della strada…

     E inondo.

     Buon ritorno".


Angela Sciavilla


domenica 20 gennaio 2013

Malapolvere. Veleni ed antidoti per l’invisibile


Sporcizia cosmica di polvere. Polvere per strada. Polvere a teatro. Si respira foschia e ci si accomoda in platea. Si cerca di far luce nella nebbia calata non solo in scena, ma anche sui fatti accaduti.
Così si inaugura la stagione del Teatro Pubblico di Casalecchio: quattro pannelli e un leggio che sputano la verità sulla città piemontese della Eternit, spesso ingoiata e digerita senza lamenti.
Un monologo popolare di voci e coscienze picchiate a sangue dalle briglie di un tessuto filamentoso e sottilissimo: l'amianto. Laura Curino presta il suo sobrio vestire nero per srotolare la storia di una cittadina dalle radici celtiche bagnate dal fiume Po, in una distesa di vigneti e grano che incorniciano il castello, il Duomo e… l’industria di eternit.
È un teatro civile che documenta l'incivile: il dolore delle donne di Casale Monferrato, vedove di ex operai o di semplici cittadini, che lottano contro un’ingiusta solitudine. I racconti-orrore sono liberamente tratti dal libro di Silvana Mossano, che  ispira il titolo dello spettacolo stesso: Malapolvere. Veleni ed antidoti per l’invisibile.


La fabbrica Eternit, fondata a Casale nel 1906 dalla famiglia Mazza, è un impianto che apre prospettive occupazionali inattese. La fame istintiva del contadino sembra sconfitta con un impiego innovativo, quasi una “scoperta dell’America” senza emigrare. Un lavoro fisso, ben retribuito, a orari stabili che, soprattutto, rappresenta un benessere duraturo per i figli non costretti a spezzarsi la schiena come manovali o minatori. Si produce materiale del futuro in un’ingenua Italia ignara del progresso americano “col marmo finto, legno finto, oro finto, porta pacchi, porta ombrelli, porta gioie senza gioia”.
Era un modo per sentirsi fieri del proprio lavoro, poco importava se di quel lavoro si moriva. Si parlava genericamente di bronchite cronica, la stessa che colpisce i fumatori incalliti. Conta poco se la polvere ne accelera il progresso. “Polvere tu sei e in polvere tornerai”, recita la Bibbia.
Le polveri prodotte dalla rarefazione della fibra-killer ricoprono case, campi, monumenti senza scampo. Latte materno al sapore di amianto, baci al sapore di amianto.


“Veleni in cambio di prosperità economica, fino all’assurdo scambio di malattia in cambio di benessere”.
La voce poco modulata della Curino evoca dialoghi di coscienza, racconta aneddoti ma anche dati precisi, numeri e statistiche narrate dal fiume Po triste e inquinato, dalla nebbia che accoglie gli operai diretti in fabbrica all’alba, dall’albero abbagliato dal progresso, dalla torre civica arrabbiata.
Sui quattro pannelli in scena, istallati da Lucio Diana, si proiettano radiografie di toraci divorati dalla malattia, monumenti infetti e i sospetti dei primi lavoratori.
Sono i primi anni ‘70 quando l’operaio Nicola Pondrano nota all'ingresso della fabbrica sempre più annunci funebri. Chiede spiegazioni, ma i dirigenti e il sindacato rispondono in modo generico e superficiale perché la Eternit dà lavoro a tutto il Monferrato e guai se chiude. Ma la reazione a catena è partita, si uniscono altri operai, poi i familiari dei morti, poi i medici dell'ospedale di Casale che certificano: si muore di mesotelioma e asbestosi venti volte più che altrove.
Partono accuse, il processo è  in attesa dell’ultima sentenza per i due proprietari della fabbrica: il miliardario svizzero Stephan Schmidheiny e il barone belga Louis De Cartier. Far cadere le accuse in cambio di un risarcimento economico di 18 milioni di euro?
«Nessun patto con il diavolo!» – protestano i casalesi. Risultato: la transazione è sospesa.

Si raccontano storie, si scrivono libri, e poi conferenze per divulgare la verità e per far sfiatare la rabbia di famiglie mutilate. I casalesi non vogliono dimenticare.

“Ti prego grande fiume, sciacqua dignitoso, ma non scorrere senza memoria”.



Visto a Casalecchio di Reno, Teatro Pubblico, 17 gennaio 2013


Angela Sciavilla