lunedì 27 ottobre 2014

Punto e a capo: raccontare un anno di teatro per ricominciare

Uno sguardo al passato per leggere il futuro. La stagione teatrale 2014-15 è già stata inaugurata portando con sé nuove produzioni, primi studi e spettacoli affermati. Mentre a Modena è finito il VIE festival il 25 ottobre, alcune città della regione stanno ospitando gli spettacoli del nuovo festival Focus Jelinek, incentrato sul lavoro della scrittrice austriaca Elfriede Jelinek, premio Nobel per la letteratura nel 2004.

Così vorremmo augurarvi un buon anno teatrale, portando alla memoria gli spettacoli che in qualche modo hanno segnato l’anno appena passato. Una stagione che ha offerto molti spunti di riflessione, si è contraddistinta per varietà di generi. Dai discorsi sull’attualità del teatro civile di AscanioCelestini, al teatro di resistenza femminile di Liberata del Teatro dell’Argine. Dal teatro di narrazione di Mario Perrotta che racconta le tragiche immigrazioni dei meridionali con Italiani Cìncali, alla rivisitazione dei classici della mitologia come Nella Tempesta dei Motus. Non mancano gli intramontabili della scena come Dario Fo con il suo Lo Santo Jullare Françesco e il Teatro della Albe di Ravenna con lo spettacolo-dossier su Pantani. Mentre in Italia abbiamo seguito anche le premiazioni per l’Ubu 2013, assegnato a Il panico diretto da Luca Ronconi, i confini di Voci dalla Soffitta si sono estesi ad Avignone e nell’area catalana per conoscere alcune giovani realtà locali come Los Corderos e la compagnia Barò d'Evel Cirk Cia.


 Parole, parole, parole… quante parole si ritrovano a fare da fil rouge nei racconti di questa stagione appena passata. Abbiamo recuperato l’importanza della parola che crea relazione, che fonda l’azione, che riporta il teatro al centro della comunità fino a trasformarsi in città (Le Parole e laCittà). Ma abbiamo anche osservato la perdita di significato delle parole e il loro trasformarsi in esercizi di articolazione per bocche meccanicamente abituate a parlare: parole ormai prive di senso, dimentiche della loro potenza di agire, di creare ponti significanti, di unire uomini, di fondare comunità (i Discorsi dei Fanny & Alexander). Comunità, eccola un’altra parola che ritorna, la comunità creata dal teatro ma anche la società come microcosmo saturo d’ipocrisia, ignoranza e falso moralismo (Le presidentesse). C’è anche la parola identità tra le fila di questa stagione teatrale appena conclusa: l’identità comune e l’identità singola (Barbablù) la cultura come ascia pronta a pesare sul capo del reietto di turno (Bestie rare) ma anche come spiaggia di salvezza a cui ritornare – altra parola importante quest’anno – per ritrovarsi. Ritrovare il senso della propria arte in paesi culturali altri, lontani ma centrali per l’attore come atleta del cuore: cuore, cordis, ri – cordis, riportare al cuore, scoprire le origini della propria arte per permettersi di risuonare come persona, ma soprattutto per convogliare e condurre ancora più lontano le proprie parole (Barzaghi). Ricordis: ricordare, quest’anno grazie al teatro abbiamo ricordato l’importanza di ricordare (La Turnàta – Italianicìncali parte seconda) per immaginare il futuro. Parole, tante parole, tanti giochi di parole ma anche immagini forti usate per raccontare di solitudini, immagini che nascono dalle parole e diventano urli visivi di vissuti troppo forti per affidarsi solo al verbo (Un bès – Antonio Ligabue). Un teatro in navigazione nell’oceano di parole, naufrago nel silenzio e nel nonsenso quando racconta la solitudine esistenziale della società, ma ricco di abbecedari quando deve parlare all’utopistica comunità raccolta attorno al cerchio sacro definito dalla parola “teatro”.


Per quel che riguarda la danza, nella stagione appena decorsa è parso proprio che la musa Tersicore abbia saldato fermamente al palcoscenico uno specchio, tutto rivolto verso gli spettatori. Vizi, caducità e problemi – irrisolvibili o meno – della società odierna sono piombati, di riflesso, nelle coscienze degli estimatori dell’arte della danza, grementi le sale dei più diversi teatri bolognesi. Grazie al cielo il movimento coreutico, la pantomima e l’eleganza di una tecnica accademica, le cui origini si perdono nelle nebbie del tempo, deliziano sempre la visione di una tale gravezza emotiva. Come una goccia di miele sulla punta dell’amara medicina.
Coreografie come Parkin’son e Double Points: Verdi ne sono state l’emblema: sul filo di una commovente biografia familiare corrono le confessioni di un padre malato e suo figlio omosessuale così come quelle delle tre “forever Divas”, la cui essenza di donna è stata soffocata dall’acme del successo.
Il gentil sesso, tuttavia, non ha mancato di riscattarsi, sbandierando ai quattro venti la passione infiammata e spregiudicata, troppo spesso inibita dal buon costume e dall’etica morale. Che si tratti di punta, possibilmente gessata, o di tacco, battente per il flamenco, la verve dei passi delle danzatrici ha fatto breccia nei cuori, generando una potente eco tanto sonora quanto sentimentale. E allora i cartelloni hanno gridato i nomi della Carmen franzuttiana e di Danila Scarlino, interprete dell’assolo Donna, ma anche dei Trocks, la compagnia di repertorio classico-accademico tutta en travesti. Perché la femminilità non è un’esclusiva delle donne!


La realtà quotidiana ha abbattuto, dunque, quel “muro di Berlino” della scena coreica impregnata di pregiudizi e ampollosità, percorrendo una strada che guarda alla tradizione del Passato per costruire le innovazioni del Futuro. Il tragitto esplorabile è risultato più che affascinante, accogliendo ogni spettatore in un fantomatico luna park dell’Immaginazione. Dal folclore cretese di Zorba si è giunti alle sperimentazioni coreo-visuali dell’Alchemy dei Momix, passando per la stessa Bologna che, celebrando il compianto Lucio Dalla, ha regalato a quello specchio di Tersicore una preziosa cornice, decorata di lirismo e confortante poeticità.

Giunti a questo punto, non siamo in grado di dire in che direzione vada il nuovo teatro, né sappiamo dare un giudizio complessivo riguardo l’intera stagione. Per ora ci reputiamo solo giovani osservatori di teatro, esploratori di stili e Voci dalla Soffitta è la nostra palestra di idee che allena lo sguardo in una direzione che non sia solo la superficie.


La Redazione

lunedì 20 ottobre 2014

You are my destiny: il destino fuori dalle righe di Angélica Liddell

You are my destiny (Lo stupro di Lucrezia), ultima creazione dell'artista catalana Angélica Liddell, è un corpo multiforme e spigoloso, pungente e provocatorio, che inizia ancor prima di raccontarsi. La regista stessa, al limite del proscenio, introduce al pubblico la sua visione crepuscolare: un'idea che porta in grembo fin dalla sua esperienza alla Biennale Teatro di Venezia nell'estate 2013. In quell'occasione infatti diede origine ad un primo studio sul poemetto scritto dal Bardo nel 1594, per dar voce all'invettiva di una donna contro la violenza subita.
Ogni cellula per nascere necessita di un nucleo che sappia nutrirla e crescerla. Non importa quali siano gli elementi scatenanti che la originano: ciò che conta è che quest'energia impellente, tratteggiata e sospesa in atmosfere impercettibili, trovi forma in un vero impulso vitale. Come il grido, di vita prima che di morte, travolgente, nato negli anfratti della laguna blu di Venezia, “dove stelle che si credevano ormai spente tornano a splendere. In un pomeriggio d'estate ho camminato a Venezia tra angeli e cori ucraini... Il tempo del sacro è cominciato”.  You are my Destiny nasce da quest'impellenza, ispirandosi al testo shakespeariano, nonché a brani della Storia di Roma dalla sua fondazione di Tito Livio, e li mescola con richiami precisi ai codici rituali medioevali.

Il palcoscenico diviene in questo modo il luogo del rito, il perimetro entro cui la regista inserisce fin dal primo istante elementi che rimandano ad una misticità spirituale, quasi a voler invocare e incarnare su di sé le vesti di cerimoniere, determinandone i tempi, i ritmi, la vita e la morte.
“Il tempo del sacro è cominciato”. Una frase che dà materialmente avvio allo spettacolo, mentre un coro di voci ucraine accompagna la prima visione della Liddell tra le vie di Venezia: si dice inseguita da un uomo, è certa che la stuprerà e la ucciderà ma non prova paura. Il terrore la divora quando l'uomo scompare e quando sente su di sé lo sguardo giudicante di un gruppo di donne. “Qui finisce il sogno ed inizia la vita”: la regista si chiude ermeticamente nel giubbotto di pelle indossato sopra ad un abito turchese di paillette e tulle. Così si esce dal sogno raccontato per entrare nel  suo più vivo compimento.


Una schiera di uomini si materializza in scena accompagnata da un ritmo di tamburi: presagio di morte, invocazione di forze divoratrici che cresce, fino a divenire un richiamo di grida sempre più forte che trasforma le voci in gemiti, i corpi in fremiti, in una ritualità che pare non arrestarsi. La Liddell fluttua tra gli impulsi sempre più cadenzati, in quello che non appare come grido di silenzio ma come un flusso che origina vita. Il corpo della regista ondeggia nel ritmo del tamburo, fino a scomparire, attraverso le urla strazianti.
I tamburi escono dalla scena e sul fondo compaiono in fila alcuni uomini che restano sospesi, seduti sul vuoto. Con la schiena appoggiata al muro, emettono grida di sofferenza. La Liddell, incurante di quanto sta accadendo, si estrae dalla scena e sfodera il suo cellulare, in un'evidente astrazione provocatoria: non solo rispetto allo strazio dei corpi abbandonati, ma anche e soprattutto nei confronti del pubblico. La regista detta i suoi tempi, lascia gli eventi in una stasi assurda quanto irreale. In proscenio, di spalle, resta Lucrezia, silenziosa spettatrice. Osserva la Liddell uscire dal suo stato di a-temporalità tecnologica per finalmente consolare gli uomini sofferenti. Ma è consolazione di breve durata: al segnale della regista i performer iniziano ad auto-flagellarsi con alcuni fazzoletti bagnati.
Lucrezia si spoglia e si sdraia a terra per prepararsi allo stupro: il suo corpo, simile a quello di una bambola passa da un violentatore all'altro. Così ogni uomo offre una diversa immagine, in pose statiche, del proprio istinto animale, appassionato, lento o vorace. Da ciascun incontro d'amore nascono i fiori.
Arriva il momento della morte: la Liddell accompagna Lucrezia verso il suo triste destino, mentre quest'ultima si auto-schernisce il petto, in un gesto esasperato che richiama la dualità tra stupro ed amore. I versetti biblici di Isaia sullo schermo in proscenio propongono la metafora dell'uva, mentre  la Liddell dà inizio al suo rito ancestrale: cosparge la scena di acini, beve birra e la getta a terra, canta, balla e grida. Dispone tre fazzoletti bianchi a terra e su ciascuno di essi pigia l'uva, mentre il suono quasi assordante delle campane l'accompagna.
La seconda parte del rituale propone l'esumazione dei due corpi di Lucrezia e Tarquinio. Essi, trasportati da una schiera di uomini in lunghe tuniche nere, vengono cosparsi di foglie d'alloro e di chicchi di riso. L'assurdità vuole che i due trovino l'amore nella morte, “sulle fiamme più alte delle onde dell'Adriatico”, come ripete insistentemente in modo stridente la Liddell.


“L'unico che parlò d'amore fu lo stupratore Tarquinio. Non parlò di potere, nazione, patria...”. Con queste parole la regista celebra un finale che si chiude sulle note “You are my destiny..." di Paul Anka...Entra in scena una strana auto di nozze che pare più un carro funebre, con tanto di ghirlande e con una specie di cane alato morto sul tettuccio della macchina. Tutti, performer e registi si muovono sinuosamente sulle note della canzone lasciando a poco a poco la scena. 
Più che uno spettacolo sullo stupro, quello della Liddell pare più un lavoro su un amore altro: indefinibile, inqualificabile, oltre qualsiasi limite convenzionale. Un sentimento che vede Lucrezia e Tarquinio destinati a restare eternamente uniti tra le fiamme dell'inferno. Per questo, il grido invocato a gran voce dalla regista è prima di tutto un urlo di vita che nasce dagli abissi profondi e oscuri della morte. In questo grido la performance offre uno scenario di linguaggi, e simbologie che rimandano a mille universi differenti. Forse troppi, si resta schiacciati, imbambolati, ci si perde in essi, per poi ritrovarsi in quel groviglio dissacrante che la Liddell compone pezzo dopo pezzo come la “sua” visione. Un'immagine che si materializza attraverso i suoi tocchi, le sue grida, i suoi segnali. Cerimoniere del tempo, oltre che di significati, contemplatrice dell'universo che si dispiega via via, la regista in scena appare come una Lucrezia che interroga, svela sé stessa.



Lo spettacolo vive continuamente di piani doppi, triplici, che si sovrappongono: la Liddell si insinua  nelle vesti di Lucrezia, ne esce, accompagna i personaggi, invoca e si fonde in grida assordanti, danza, vive come una creatura aliena le viscere della propria creazione.
Lo spettacolo della Liddell sfugge a ogni tentativo di definizione. Si tratta di una creazione che divide per la sua natura irriverente, per il suo impatto di visioni non mediate, per osare l'indicibile e l'inimmaginabile: uno stupro che abbandona il suo status immutabile di atto contro-natura per divenire un amore altro. Certo, i mezzi per farlo spesso si traducono in dilatazioni forse eccessive, a volte perfino superflue, mescolando troppi elementi e simbologie che si rivelano fuorvianti. Ma il desiderio di interrogare quello stupro riesce a fare di You are my destiny un atto di vita prima che di morte. E la vita torna prepotentemente e ironicamente in scena nei saluti sulle note di “Gloria” di Umberto Tozzi, forse un modo per debellare gli spiriti potenti invocati in scena, accorgendosi così di quei chicchi d'uva sparsi in platea: vero ultimo residuo di una ritualità che sfuma.  


Visto a Modena, VIE Festival il 16.10.2014

Carmen Pedullà


venerdì 17 ottobre 2014

Passim: sguardo sul Festival d'Automne

Introduzione di merito
La seguente recensione necessita forse di un’introduzione da parte di chi scrive: nell’ambito degli studi per la tesi di dottorato, è necessario un confronto con allestimenti scenici innovativi e arditi nel panorama teatrale francese e italiano contemporaneo. Il Théâtre du Radeau, che propone nell’ambito del Festival d’Automne di Parigi la sua ultima creazione, fin dagli anni Ottanta presenta un lavoro interessato al rapporto tra luci, suoni, movimenti e gesti, ispirati in parte alla danza e alle performance circensi: spettacoli che spesso citano brani di testi teatrali, ma anche filofosici o letterari più in generale. Ecco che allora la scena produce una vera e propria drammaturgia visiva, nella quale tutti gli elementi (suoni, parola, gesto, immagini) si ritrovano allineati e ordinati unicamente dall’organizzazione mentale del creatore. In questo frangente, i titoli degli spettacoli della compagnia spesso sono ispirati a movimenti mucisali (vedi Coda, Chorale), ma non necessariamente: per il titolo del suo spettacolo Onzième, Tanguy (regista della compagnia), afferma che non significa assolutamente niente di logico, e che spera (in modo ironico naturalmente) che questo chiarimento rassicurerà tutti gli spettatori. Passim rappresenta dunque un’esperienza necessaria non solo per chi è incuriosito dagli sviluppi più fertili del teatro attuale, ma anche nell’ottica della ricerca specifica del sottoscritto. Tanto più che questo spettacolo si inserisce nel quadro del festival teatrale più importante parigino, che propone quest’anno uno spazio specifico dedicato tra gli altri a Romeo Castellucci (che si spera troverà spazio anche in queste pagine).


Recensione
Fin dalla sua entrata in sala, lo spettatore può vedere sulla scena i veri protagonisti dell’allestimento: delle strutture in ferro, come riquadri,di porte e finestre che durante lo spettacolo si “aprono” per lasciar intravedere, lasciar immaginare momentaneamente i vari testi evocati dagli attori. Ai lati della scena, si vedono appoggiate le quinte usate solitamente sul palco: altre grandi quinte di legno, e tavoli e porte saranno mosse e animate dagli attori in scena, in una danza continua, come un gioco di scatole cinesi, che fagociterà uno dopo l’altro i mondi testuali. L’architrave, la struttura della scena, il suo scheletro, sembrano così tornare in vita in un gioco metateatrale.


Ma partiamo dall’inizio. Una luce crepuscolare accoglie l’entrata di una sola attrice, mentre in una posa volontariamente statica lascia ascoltare il suo testo al pubblico. L’enunciato coinvolge soprattutto per la sua materia poetica, il significante è privilegiato rispetto al significato, e spesso i silenzi che interrompono la declamazione sono più evocativi del brano stesso, nel loro effetto straniante. Gli altri interpreti spostano poi l’attrice come una marionetta e la musica copre per la prima volta il testo, come succederà in modo continuo per tutto il resto dello spettacolo: quando non è la musica a svolgere questa funzione, ci pensa la danza di porte e quinte mosse dagli attori.
A volte gli interpreti arrivano quasi all’immedesimazione nei personaggi: soprattutto quando viene evocata la scena del Re Lear che lo porta alla pazzia, nel momento in cui il re esclude dalla divisione del suo regno l’amata Cordelia. Ma anche in questo caso la musica, il canto del re, forse espressione della sua pazzia, copre infine lentamente questa scena, e resta soltanto l’impressione di un’impossibilità del dire evocata dalla famosa scena shakespeariana. La stessa impressione si ritrova in un secondo momento con l’entrata di Don Chisciotte a cavallo del suo Ronzinante: il testo viene declamato in spagnolo, ma gli altri interpreti coprirono il volto dell’attore con un elmo, in modo da rendere ancora meno comprensibile il brano.
I frammenti testuali, ostacolati così dalle azioni sceniche, cercano di farsi ascoltare tramite la radio, ma un’ultima volta la musica copre questo tentativo. Su scena restano quindi solo le sue architravi (porte e quinte), mosse dagli attori non più visibili. Poi nel silenzio e nel buio tornano lentamente gli interpreti, semplici figure umane, solo per ricevere l’applauso finale.


Cosa rimane allo spettatore? Una sorprendente e ammirevole capacità di esecuzione degli attori, soprattutto nei loro movimenti che si avvicinano a quelli di una danza (in cui il richiamo a Kantor a volte diventa vera e propria citazione-omaggio). Delle immagini suggestive e a tratti divertenti, come l’immagine-icona dello spettacolo nel foglio di sala, ovvero il Don Chisciotte con addosso l’elmo. Delle musiche e canti mugolati (soprattutto il re Lear) che inducono vere emozioni. Dei frammenti testuali, ben declamati, in pose volontariamente statiche, che sono assai caratteristiche (troppo) del teatro francese. Resta infine un’operazione registica affascinante, ma nel suo evidente carattere erudito forse un po’ troppo cerebrale.

Le Théâtre du Radeau

Visto il 5 ottobre 2014 al Théâtre de Gennevilliers, Parigi nell’ambito del Festival d’Automne.

Fabio Raffo

giovedì 16 ottobre 2014

Homunculus 2014 – Splendenti nel buio del bosco

Per il settimo anno consecutivo, torna a Ravenna il progetto Homunculus a cura di TCP Tanti Cosi Progetti. Quest’anno, dal 17 al 26 ottobre, gli eventi organizzati rifletteranno attorno al tema della visione, nutrendosi in particolare delle avvincenti tesi sviluppate in merito da William Bates.


Come ogni anno, Homunculus si sviluppa attorno a un’idea ben precisa, ricercando modalità specifiche di evoluzione per la stessa al fine di coinvolgere artisti, ricercatori e pubblico. Dopo le riflessioni sul corpo sottile e l’addestramento al sogno lucido, l’anno scorso il progetto Homunculus invitava sette artisti a provare un’esperienza psichica collegata a una mudra dello yoga. Quest’anno, la programmazione ruota attorno al tema della vista, soffermandosi su alcuni aspetti a essa collegati nelle teorie avanzate dal medico statunitense William Bates: nelle sue tesi, Bates riconsiderava la visualizzazione e la memoria come le strade principali attraverso cui ricondurre l’atto del vedere alla percezione della realtà, esterna ma anche interiore. Ad aprire le vie della visione, oltre alla capacità mentale di creare immagini e di conservarle, fondamentale è l’assenza di tensione, segnalata dalla presenza, a occhi chiusi, del nero perfetto, luogo di origine di tutte le visioni interiori.
“Dunque sviluppando la capacità di purificare questo nero, sorgeranno insieme visioni e capacità visiva” spiega Francesca Proia. “La visione interiore ha anche una dimensione collettiva. Homunculus propone esperienze che possano produrre delle forme collettive pur preservando la propria solitudine, il proprio senso dell'intimità. È una forma particolare dello stare insieme”.

Filippo Tappi, Studio di occhio (2013)

A dare inizio alla settima edizione, il 17 ottobre alle ore 19.00 una conferenza, a cura di Stefano Bartolini, che introduce il tema del vedere da un punto di vista filosofico ed esperienziale. Il 18 e 19 ottobre gli artisti e ricercatori Italo Zuffi e Filippo Tappi presentano il laboratorio Quando vedere: «un laboratorio teorico-pratico per ragionare il gesto della sosta e del suo campo visivo, e da qui valutare i rudimenti di una tecnica. Dialoghi, azioni e movimenti generati dal desiderio di piegarsi al proprio sguardo». Il laboratorio vedrà tre conduttori coordinarsi per «sviluppare e condividere un dialogo sulla possibilità di agire in deflagrazione. Essere presenti al proprio sguardo, prendere dimora nella sua struttura architettonica». Non è prevista una presentazione al pubblico. Il laboratorio avrà luogo al Circolo Endas, è aperto a tutti coloro che sono interessati e si svolge in orari mattutini e pomeridiani. Il 18 e 19 ottobre, inoltre, Filippo Tappi presenta ad Ardis Hall l’installazione Dilata interiora, fruibile nei giorni 18 e 19 ottobre dalle 20 alle 22, con orario continuato. Infine, il 24, 25 e 26 ottobre alle ore 21.00, ad Ardis Hall, sono presentate le letture pubbliche Ascolta un’alba. Il progetto, ideato dalla coreografa Francesca Proia, prevede l’ascolto di un testo mentre si assiste a un passaggio di variazioni di luce che mima l’alba. Secondo la curatrice, «il progetto si struttura attorno a testi scritti appositamente, dove ciascuno prova a mettere a nudo la propria soggettiva percezione dello spirito, in qualunque forma lo si sia potuto incontrare. Le letture si configurano come semplici atti di presenza, in cui chi legge non è l'autore di quel testo, ma di un altro. È proprio in questo ascolto di storie specifiche che riguardano la vita degli altri che trovo una forma di cuore pubblico: esporsi crudamente per ciò che si è, con la propria storia unica, senza ricette o soluzioni». Gli autori coinvolti, oltre alla stessa Proia, sono Alessandro Berti e Adele Cacciagrano. Ogni lettura ha una durata di circa 40 minuti. Al termine è offerta la colazione.