lunedì 20 febbraio 2012

“Sul concetto di volto nel figlio di Dio”: il divino che si sporca di umano

Esiste o non esiste? È il mio pastore o non lo è? E se esiste dov’è? Perché non fa niente di fronte alla sofferenza? Perché ci lascia da soli proprio quando abbiamo bisogno di lui? Perché ci ha abbandonato? È il dubbio secolare dell’uomo dinanzi alla propria impotenza. È la leggittima rabbia dell’umano nei confronti del divino.

Tanto è stato detto, troppo è stato scritto. Accuse di blasfemia per uno spettacolo teatrale. Ma come è possibile? Nel frattempo ha riempito i teatri. Al Testoni di Casalecchio di Reno è stato fatto il tutto esaurito. Sono state firmate petizioni a favore della messa in scena di Romeo Castellucci, regista della compagnia. La Chiesa si è divisa tra i contrari , come CarloCaffarra - vescovo di Bologna, e i favorevoli, come Johan Bonny - vescovo di Anversa. Sul concetto di volto nel figlio di Dio della Socìetas Raffello Sanzio ha fatto parlare di sé. Con questo spettacolo il teatro esce dal suo luogo deputato e continua negli incontri, nelle discussioni, nelle idee che mette in circolo. Scende in strada, sale sugli autobus, entra nelle chiese che celebrano messe riparatrici. Nei quotidiani il teatro travalica la pagina della cultura e finisce in prima accanto alla cronaca, alla politica e all’economia. E forse questo è il suo più grande merito.

È la storia del rapporto tra un figlio e un padre. Il primo presumibilmente già in carriera, borghese, ben vestito e incravattato. L’altro in via di decomposizione, stanco, vecchio e soprattutto incontinente. Cosa succede in scena? Il vecchio padre si caga sotto per tre volte. E il figlio, per tre volte, prova a prendersene cura. Da prinicipio la situazione è comica: gli elementi da slapstick comedy ci sono tutti. Ma l’ambiente in cui tutto questo si svolge è un immacolato salotto bianco di una bella casa bianca e sullo sfondo l’enorme dipinto del Salvator Mundi di Antonello da Messina. È la stessa operazione di ready-made fatta da Duchamp più di un secolo fa. Prendere un oggetto, una situazione in questo caso, fargli vuoto intorno e collocarlo in un diverso ambiente. Il risultato è al tempo stesso iperrealistico e surreale. Così, un’azione drammaticamente materiale emerge dal flusso della normalità perché viene inserita in una cornice fantasmatica e simbolica.

Il sotto testo della drammaturgia invece sembra preso dal Salmo 22 Dio mio, Dio mio, perché / Ma perché mi hai abbandonato / Dio mio assente e lontano!. A cui segue il Salmo 23 Il Signore è il mio pastore / non manco di nulla!. La domanda e la risposta analizzate nella messa in scena di Castellucci.

Il sentimento di smarrimento nell’assistere alla messa in scena viene dalla proposta di allineare l’azione teatrale con la fissità dell’immagine. Lo spettatore si trova a guardare e al contempo a essere guardato dalla presenza muta e costante di un enorme volto di uomo dalla dolcezza ineffabile. È una triangolazione di sguardi che diventa forse troppo difficile da sostenere e che riporta all’essenza del teatro come luogo del vedere.

Il regista cesenatico inoltre apporta modifiche all’opera del pittore quattrocentesco: ritaglia i contorni, fa sparire le mani benedicenti e fa risaltare il volto e lo sguardo. Ne consegue un cristianesimo che non è immune o escluso dal mondo, ma che anzi viene contaminato dal mondo. È un Dio cristiano, che vuole solo mani di figlio che si possano occupare del padre. È la purezza che viene contaminata. È il cristianesimo che si sporca di umano.
L’intervento registico dona all’immagine dipinta da Antonello da Messina lo status di icona. E se è vero che questa è la rappresentazione dell’oggetto che rimanda all’archetipo allora in scena il volto del Figlio rimanda al Padre. Ma ancora di più il corpo stesso dell’attore diventa icona, anzi una super-icona vivente: un corpo sofferente che rimanda a tempi lontani e ormai andati. Come deve essere stato quell’uomo ormai consumato, sommerso dalle sue stesse feci? La domanda non è capire se vivrà o morirà, ma come deve essere stato il rapporto tra  padre e figlio.

La piéce si chiude con la scena che probabilmente è stata messa sotto accusa dalla Chiesa: una frase lapidaria  - “Tu (non) sei il mio pastore” - viene impressa tra il volto di Gesù ormai quasi completamente sommerso da inchiostro che richiama le feci già viste in scena.
È quel “not” che campeggia nel cuore, quella possibilità lasciata all’uomo di non credere; è la possibilità di libero arbitrio; è in fondo la possibilità lasciata all’arte di mettere in discussione tutto. Perché mi hai abbandonato? Perché? È il dubbio dell’uomo di fronte all’impotenza e alla sofferenza.
Romeo Castellucci non crede di essere stato blasfemo e si difende: “In un mondo fatto di immagini, dove sono loro che ci osservano, lo scandalo - probabilmente - sta nell'aver mostrato il volto di Gesù”. Alla fine dello spettacolo il parterre - fatto di amici e colleghi - saluta il regista con una pacca sulla spalla e un “siamo tutti con te” stampato negli occhi.

Rimane però la domanda fatta da Laura Mariani, docente di teatro al Dams di Bologna, a cui Castellucci sembra non rispondere: “La tragedia quotidiana e al tempo stesso ultima cui assistiamo in scena, col suo realismo o se volete col suo iperrealismo, non rischia di essere tanto evidente da togliere aria all’arte?”

Josella Calantropo

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