Giovedì
15 dicembre Xing presenta, a Raum, "Kind
of magic",
performance di Plumes
dans la tête
e Barokthegreat,
screening di Prince
Rama/
Julian Bozeman
e live di Zeus!
e Vokodo.Se
non fosse per la folla di gente che attende di entrare, l'ingresso
dello spazio Raum in via Ca' Selvatica, passerebbe inosservato. Si
confonde con le mura del quotidiano, in una piccola via di Bologna,
in apparenza.
Ore
ventidue, è l'ora di entrare.
Per
questa sera il cappotto con vera pelliccia di volpe, i tacchi a
spillo e la marsina possono rimanere nell'armadio. Anche modi di fare
accomodanti, rimangono a casa.
Gli
spazi sono piccoli, la gente è spalla a spalla, si tocca, si guarda
intorno, vocifera.
Non
ci sono poltrone né platea, non esistono luci di ribalta, né
graticcia. Solo cuscini sparsi per terra e degli strumenti musicali.
Una batteria su una pedana al centro. Luci
blu soffuse, sprazzi di fumo, fragranze di incensi rendono
l'atmosfera... misteriosa. Un
colpo secco di tamburo. L'Arte ha bussato. Si
è incarnata in un batterista che percuote piatti e tamburi con
un'energia tale da produrre suoni che si materializzano in
un'architettura "visiva" mimetica, fino alla perdita di
senso. Come
morso da una tarantola, lo spettatore è posseduto da strani spiriti,
convulsivi e vibranti; palpitazioni in cui musica, e colori
rappresentavano gli elementi fondamentali della terapia.
"Una
somma di micro composizioni del nostro tempo, piccassiane e
psichedeliche, che liberano il pensiero dalle sovrastrutture delle
convenzioni sociali"-
commentano gli artisti.
Non
basta rimanere seduti, comodi sui cuscini: ora bisogna lasciar spazio
a una pedana che si protrae in avanti, ora alzarsi per nella stanza a
fianco per assistere all'altra performance, ora fare spazio ai
performer confuso tra la folla.
L'Arte
si diverte a stuzzicare, si nasconde nei cunicoli più stretti e
aspetta che l'ospite vada a cercarla. É nascosta dietro la signora
vestita di nero e caschetto, è accanto al ragazzo che si stuzzica il
pearcing , è sotto i piedi del fotografo che tenta invano di
intrappolare effimere sensazioni nell'obiettivo.
Non
si offende se nel frattempo si degustano piccoli gelati, birre in
lattine, o si rumoreggia con bicchieri di plastica: sono tutti lì ad
ammirarla nella sua magnificenza.
Avrebbe
bussato alla porta dello spazio Raum se non ci fossero stati loro?
Non lo sapremo mai! Anzi, sarebbe stato spiacevole scoprirlo.
Su un’isoletta vulcanica in mezzo al mare, grande
come l’asteroide B612 del Piccolo Principe, in una parte di mare che non è di
nessuno, tra l’Africa e l’Italia, c’è un signorotto: divisa miliare, petto gonfio
di medaglie, occhiali da Top Gun, mani sui fianchi. Voce rauca e cattiva,
portamento altezzoso, ossessionato dai numeri. Il suo lavoro è contare: tiene
in ordine le migliaia di anime che sprofondano nel mare attorno a lui. Avvista
i barconi pieni di esseri umani che hanno perso l’identità e che sono diventati
numeri. È ossessionato dai numeri che non hanno nome. È alle dipendenze del
ministro dell’inferno. Questo essere metà uomo e metà animale è il portiere dei
disperati e pratica la politica degli “accoglimenti”. Vuole farla finita con i “respingimenti”,
ma l’unica cosa che gli vien bene da accogliere sono i corpi mangiucchiati dai
pesci, spiriti senza volto e senza nome, per i quali si sforza di raccontarne
la storia, di restituirgli un minimo di dignità per una, seppur non
all’altezza, quanto meno onesta sepoltura. È Rumore di acque il nuovo
spettacolo del Teatro delle Albe,
visto al Teatro Testoni di Casalecchio, con un bravissimo Alessandro Renda nei panni del diavolaccio
generale-presidente dell’isoletta.
Antefatto
Marco Martinelli e Ermanna Montanari con qualche
componente del Teatro delle Albe si trovano a Trapani per la non-scuola. Portano in giro il loro Detto Molière, finché non arrivano a
Mazara del Vallo. A questo punto non ci stanno più e, dato che Martinelli non
fa nulla se non ha un senso, decidono che non è il momento per Molière. Vengono
letteralmente catturati dai colori e dai suoni del mare della città,
luogo-confine tra Africa e Italia. I molti tunisini presenti che convivono con
i siciliani ricordano ogni volta quei barconi che, partiti stracolmi di
persone, arrivano carichi di corpi stremati nella migliore delle ipotesi, anche
se più spesso spariscono in fondo al mare. Così le Albe cominciano Rumore di acque: laboratori con
adolescenti, per ovvie ragioni, misti tra tunisini e siciliani; Ermanna si
lascia incantare dalle suggestioni e Marco prende appunti. Alessandro filma
tutto. Raccolgono materiale per un anno circa, finché: “Lo sproloquio è venuto
fuori di getto, un flusso inarestabile di numeri e immagini” così Martinelli
nelle note di regia.
Lo
spettacolo
È venuto fuori un monologo “dallo humor nero” recita
il programma di sala. È un mix di eventi, di notizie che si potrebbero trovare
sui telegiornali, sui quotidiani, ma a cui ci siamo probabilmente assuefatti.
Il traffico degli scafisti, la gente accatastata sui gommoni abbandanati al
loro destino, le motovedette della capitaneria e i pescatori che sembrano
ripetere ogni volta la tragedia di Antigone: assecondare la legge dello Stato o
quella del cuore? Praticare la politica dei respingimenti o quella degli
“accoglimenti”? Martinelli scrive letteralmente le parole di un requiem per i
troppi annegati nel Canale di Sicilia, che viene musicato da due musicisti d’eccezione:
i Fratelli Mancuso. Con il loro
canto nasale, attraverso melodie arabeggianti, accompagnano con campane suonate
a morto, i troppi in fondo al mare. Forse avendo in mente il portiere macbethiano,
il generale-presidente dell’isoletta collocata nel girone dell’inferno ha tutte
le sembianze del più ben noto Gheddafi al quale l’attore si ispira ascoltando i
discorsi, studiando le movenze, esaminando i vestiti. E tutto questo in tempi
in cui non si poteva immaginare la triste fine del dittatore, dato che veniva
da tutti i capi di Stato accolto e riverito di ogni onore.
L’omaggio che il Teatro delle Albe rende alle troppe
vittime della tratta è la voglia di dare un nome e una storia a quei numeri, a
quelle vittime lasciate senza giustizia. Ne vengono abbozzati i volti, le
voglie, le speranze, ma ogni volta è uno sprofondamento. E ogni volta una
litania di accompagnamento funebre. Solo una donna nel racconto riesce a
sopravvivere, Jasmine, ma a che prezzo?
La voce-maschera del diavolaccio è un incalzare
continuo, inchioda lo spettatore e lo tiene in pugno. Ci racconta anche di un
bambino, Jean Baptiste, con una voce diversa, non sembra addolorata, direi piuttosto
stanca. Neppure lui riesce a toccare terra, ma questa volta non c’è un requiem
ad attenderlo: i Fratelli Mancuso intonano per il bimbo una dolcissima ninna nanna.
In un’ora di monologo raccontato da personaggi
grotteschi, stravaganti, sicuramente inventati, passano davanti agli occhi
immagini molto vere. Come in un doppio binario si ha la sensazione che tutto
ciò che si ode è tratto dalla realtà - le musiche, i nomi, i numeri – mentre
quello che si vede da un fumetto di fantascienza. Forse è anche per questo, per
questo strano modo di associare immagini a suoni, che il pubblico alla fine
dello spettacolo rimane pietrificato, fiato sospeso, nessuno applaude.
Riverenza per le vittime, monumento di dolore. Non si vuole rischiare di fare
troppo rumore.
Quando esci dal nuovo spettacolo di Gigi Gherzi, regia di Pietro Floridia, Report dalla città fragile,
ti vien voglia di Caravaggio. E non di un dipinto qualsiasi, ma della Conversione di san Matteo. È una storia
di incontri questa. Una storia di rapporti che ti colpiscono dritto al cuore
passando per gli occhi.
Dopo La
strada di Pacha, dello scorso anno, stesso attore, stesso regista, è ancora
lo spettatore al centro del lavoro. Il pubblico viene fatto entrare a gruppi e
viene accolto dal sorriso di Gigi Gherzi che comincia a raccontare. Ci parla di
un registratore, di lui che si muove tra le vie di Milano in cerca di persone
fragili che abbiano delle storie da raccontare, con un metodo che sfiora il mestiere
del reporter giornalistico.
La
scena: le opere d’arte di Pietro Floridia, Laura Pavani e Gabriele Silva
Ci racconta di come le parole chiavi,
trentasei parole, siano state trasformate in opere d’arte, di come quindi la
scultura si mescoli al teatro. E così noi, ospiti di questa città, ci muoviamo
tra disoccupati, appesi, panchine, alberi, solitudini, carriere. Tutte parole
che diventano, grazie all’allestimento scenico, personaggi che evocano persone
in carne e ossa. La scena è come un grande archivio dove sono custoditi pezzi
di città. Dietro a ogni etichetta ci sono cassetti, dentro ogni cassetto ci
sono simboli, ogni simbolo parla di persone. E tocca allo spettatore scoprire
un po’ per volta la città: aprire i cassetti, scrivere suggestioni e impressioni,
giocare con essa senza paura di romperla. Allestita interamente con materiali
di recupero, uova, chiodi, pezzi di bambole, cocci di piatti infranti, corde,
legnetti, chitarre, Pietro Floridia e la sua squadra hanno fatto una vera e
propria mostra metropolitana.
E
poi la parola a Gigi Gherzi, all’artista che cammina
Il pubblico prende posto si siede su
panchine arruginite. Si cerca di scoprire insieme una città che spesso viene
vista solo dai video promozionali, che fanno apparire una Milano efficiente, di
un nuovo quartiere in costruzione moderno, grandioso, pieno di verde, con il
cielo azzurro (azzurro? A Milano?), ma senza persone. Ed ecco che fa la sua
apparizione Caravaggio. Gherzi evoca La
conversione di san Matteo e difronte al quel quadro non ci si perde a
pensare a quanto sono belli i tavoli della locanda, o a quanto sono comode le
sedie. Il protagonista è l’incontro di sguardi tra Gesù e Matteo. È lo sgomento
di Matteo che squarcia il dipinto. È il dito puntato del Cristo come a dire
“voglio te” che conquista. Per pensare alla velocità, alla grandezza, travolti
dai social network, forse ci siamo persi gli incontri e i rapporti. Ci muoviamo
attraverso questa città di persone fragili: precari che salgono sui tetti,
insegnanti incatenati davanti al provveditorato. Finché Gigi Gherzi e noi con
lui troviamo la forza di attraversare il cancello dell’ex ospedale psichiatrico
Paolo Pini. E le prime immagini raccontate sono quelle delle panchine vuote, dei
corridoi, dei carrelli per i farmaci, delle foto di ex pazienti, delle calze
bianche delle infermiere, della macchina dell’elettroshock. Lo spettatore a
questo punto dell spettacolo viene chiamato di nuovo a portare il suo
contributo, altre suggestioni da condividere, è chiamato a mettere al centro i
pensieri di quella sera o i ricordi di una vita. È chiamato al racconto e a
donare un pezzo della sua fragilità.
A questo punto la mappa della città è
completa. E Gigi Gherzi interrompe il suo racconto. Potresti continuare ad
ascoltare per ore, e invece è tempo di andare e di rientrare nella città che
dopo quest’incontro risulta un po’meno fragile.
Strano pensare che Giorni
felici di Samuel Beckett possa fungere da motivo di ispirazione per un
lavoro coreografico, se non altro per l’apparente assenza di movimento che
caratterizza l’agire scenico dei due protagonisti del testo beckettiano:
creature estenuate da una vita che sembra giungere lentamente al termine
portando con sé il peso di una miseranda ripetitività quotidiana, Willie e
Winnie (soprattutto quest’ultima, “donna sulla cinquantina”, che vive interrata
in un monticello ricoperto di erba inaridita) trascorrono le loro giornate
cercando di fronteggiare il vano scivolare via del tempo, il terrore della fine
(unito a quello del ricordo e del passato), con un turbine di parole e di
piccoli gesti ossessivi che tentano disperatamente di congelare l’istante.
E di guardarlo, quell’istante, per provare a dirsi qualcosa,
a raggiungersi con la parola, perché, dice Winnie al suo malandato consorte, “Certi
giorni, forse, non senti addirittura niente. Ma ci sono anche giorni in cui
rispondi. Per cui, in qualunque momento, anche quando non rispondi e forse non
senti niente, posso dire”.
Con Un giorno felice Michele Abbondanza e
Antonella Bertoni, il duo forse più autorevole della danza d’autore
italiana, sono andati scavare proprio nelle pieghe del claustrofobico rapporto
coniugale di Willie e Winnie, trasformando il vaniloquio ossessivo e pregno di
angoscia dei coniugi beckettiani in una costruzione coreografica in cui il
movimento diventa materia da mettere in forma per raccontare non solo la
ripetitività di un quotidiano fatto di pavimenti da pulire, partite di calcio
alla tv e grotteschi accoppiamenti (a metà tra il bestiale e il
marionettistico), ma anche per trasformare il corpo in metafora incarnata della
paura della solitudine, del bisogno del sostegno, del desiderio – inquietante
ma fascinoso – di restare anche da soli, ogni tanto.
Nella cornice spaziale delimitata da un rettangolo di erba
sintetica e in quella temporale – volutamente dilatata – scandita dalle note
astratte del pianoforte di Simona Bungaro (che, alternativamente, aziona anche
un metronomo, correlativo oggettivo del fluire monotono del tempo), i due
interpreti, con indosso maschere e parrucche che li fanno apparire qualcosa di
simile alla bestia o alla caricatura, trascorrono i loro giorni allucinati:
lei, sempre indaffarata nelle mansioni domestiche, ossessionata dal bisogno di
avere tutti gli oggetti d’uso quotidiano sotto controllo, ma anche riflessiva,
al punto che i suoi pensieri e le sue parole compaiono – proiettati – sullo
sfondo; lui, invece, sfinito e apatico,
spesso taciturno e dormiente, quasi mai visitato dai ricordi di un passato che
ogni secondo che arriva sembra distruggere sempre più.
Ne emerge un corpo danzante goffo, comico, appesantito e
marionettistico, soprattutto nei momenti a
due, durante i quali lo sketch (si pensi a tutti i dispetti che marito e
moglie si fanno di continuo) e la parodia irresistibile del pas de deux si fonde con momenti
teneramente lirici, in cui i corpi sostengono l’uno il peso dell’altro, in una
costruzione solida e fluida al contempo di leve, appoggi, e passaggi di peso
che ci dicono l’inseparabilità di queste due misere creature, condannate a
stare insieme per non impazzire.
Eppure, per entrambi, torna a più riprese il desiderio della
fuga: basta che uno dei due sia nella propria stanza, ed ecco che l’altro si
lancia in una serie malconcia e derelitta di volteggi, salti e pose da balletto
classico. Ma si tratta di una condizione destinata a non durare. Il limbo è lo
spazio di questa coppia incapace di sincera e autentica condivisione (nemmeno
se si tratta di mangiare insieme una fetta di torta), fondamentalmente arida,
desiderosa di interrompere la monotonia del vivere quotidiano (magari anche a
costo di spararsi a vicenda, non si sa se per gioco o meno), ma, in verità,
avviluppata in una rete di miopie e paralisi che costringono Winnie a
rivolgersi al suo uomo dicendo (quasi fosse una condanna?): “amore mio,
sostegno dei miei giorni”.
“C’era una volta una bambina, e dico c’era perché ora non
c’è più”.
Questo è il sottotitolo di “Favola”, lo spettacolo di
Filippo Timi che ha debuttato con grande successo al Teatro Parenti di Milano e
che è andato in scena il 6 e il 7 dicembre al Teatro delle Celebrazioni di
Bologna.
Una mise insolita per l’attore perugino, per chi è
abituato a vederlo in ruoli molto più rudi (ha interpretato anche Mussolini in
“Vincere”).
Tacco 12, gambe completamente depilate, cerone, ciglia
finte, acconciatura e vestito svolazzante in tipico stile anni '50, Timi interpreta l’allegra e frivola casalinga Mrs.
Fairytale, che ha appena scoperto di essere incinta.
Intenta a sistemare i regali sotto l’albero di Natale nel
salotto di casa sua, tutto dipinto di rosa salmone e di verde acqua, la
protagonista aspetta la sua migliore amica, Mrs.Emerald (Lucia Mascino)
elencando una serie di nomi tanto assurdi quanto divertenti per il futuro
figlio alla sua barboncina impagliata Lady.
Ma questo quadretto che inizialmente sembra la parodia di un
film di Doris Day, si rivelerà già poco dopo l’arrivo di Mrs. Emerald molto più
oscuro e ricco di segreti.
Pur mantenendo sempre la vena comica (bravissimi gli attori
a mascherare errori e refusi con giochi di parole davvero divertenti),
scopriremo, tra un bicchiere di bourbon e l’altro, che in realtà il marito di
Mrs.Fairytale, Stan, è un violento, capace di picchiare la moglie ogni giorno
per qualsiasi motivo e di ucciderle la barboncina tanto amata, salvo poi
fargliela impagliare con amore.
Ma il marito di Mrs.Emerald non è da meno: egli infatti la
tradisce con un maestro di mambo, primo
di tre strampalati gemelli diversamente coinvolti nella vicenda, (tutti interpretati
da Luca Pignagnoli), e altri uomini non ben identificati.
Ma i colpi di scena non finiscono qui: nella seconda parte
della storia a Mrs.Fairytale spunta un grosso fallo. Superato lo sconcerto
iniziale (e la voglia di suicidarsi), la protagonista comincerà una relazione
con la sua amica, e insieme decideranno di scappare, ma non prima di aver
ucciso Stan.
La loro fuga non avverrà: dopo aver compiuto insieme
l’omicidio, infatti, le due donne voleranno in cielo, felicemente rapite dagli
Ufo.
Non c’è stato bisogno di toni volgari, né di parolacce. I
numerosi contrasti presenti nello spettacolo sono stati più che sufficienti per
farci capire il messaggio.
Un misto di generi, che spazia dalla commedia hollywoodiana,
al mélo, alla farsa nera, alla fantascienza, l’alternanza delle colonne sonore
prese dai film di Doris Day e di Hitchcock, le crudezze espresse dai dialoghi
frivoli detti dai personaggi sotto sorrisi di plastica e intervallate dalle
proiezioni delle pubblicità di Altan degli anni ’60 (come ad esempio quella del
sapone Palmolive).
“Favola”, ispirandosi
al film di Pietro Marcello “La bocca del lupo”, che racconta la storia d’amore
tra un carcerato e un trans, usa il patinato involucro vintage degli anni
Cinquanta, moralista e bacchettone, per far uscire le pulsioni dei personaggi,
inneggiando all’amore libero oltre le gabbie e le convenzioni sessuali.
E sulle note di “White Christmas” e “Over the rainbow”,
Timi rappresenta l’assenza di parità fra i sessi,
assente ora ma ancor più evidente in quegli anni, e la donna come madre e come
perno della società, anche se fatalmente sottomessa a un modello maschile apprezzato
particolarmente in passato, quello dell’uomo violento e senza scrupoli, capace
soltanto di distruggere gli affetti che lo circondano, o in alternativa stupido
e imbranato.
L’attenzione per le scenografie e i costumi, appositamente
disegnati per lo spettacolo da Miu Miu ispirandosi a modelli autentici (come ad
esempio il vestito di Grace Kelly in “La finestra sul cortile”, oltre vari
modelli utilizzati da Doris Day), la cura nella creazione del personaggio di
Mrs.Fairytale, un angelo del focolare con modi e movenze da commedia anni ‘50
ma con la personalità oscura e lo sguardo inquieto e torvo di Joan Crawford,
permettono a Filippo Timi di affermarsi ancora una volta non solo come grande
attore, ma anche come grande regista.
In “Favola” si ride dall’inizio alla fine, ma rimane un po’
di amaro in bocca per la tragicità che filtra attraverso alcune battute fra le
due donne e alcuni dolorosi flashback buttati lì quasi per caso, che rivelano
l’idea dell’ineluttabilità di un destino crudele, la cui salvezza può venire
solo dal cielo.
Posizione zero. È una di quelle parole che mi girano
nella testa alla fine dell’incontro con Mikhail
Ugarov e Elena Gremina sul TEATR.DOC. Sono arrivati al CIMES dalla
Russia portandoci la saggezza del teatro documento. E pensando alla posizione
zero mi viene in mente la macchina fotografica, posizionata su un treppiedi,
difronte alla realtà: è così che ai due artisti, registi e drammaturghi russi
piace definire il loro teatro. L’esperienza di una comunità con l’esigenza di
un diverso tipo di teatro, nata in uno scantinato di 80 mq e che da dieci anni
si nutre di vita vera rinunciando alla finzione. “Siamo continuatori della
grande tradizione russa: il teatro non come intrattenimento, ma come missione”
Partiti o forse colpiti da un seminario sulla
tecnica del Verbatim tenuto a Mosca
dalla Royal Court, questo teatro si fa promotore di problematiche allontanate
dai media ufficiali, ma soprattutto utilizza altre fonti. Non comunicati
stampa, non “documenti ufficiali per i quali c’è sempre un contro documeto né fonti
politiche che hanno come unico scopo quello di ingannare e di dire ciò che non
pensano”. Il Teatr.doc sceglie di passare attraverso le persone per arrivare
alle persone, poco importa se occore usare le interrogazioni di un tribunale o
le registrazioni di interviste o i forum di una chat. “L’importante è la
persona vivente”. Persone comuni che si possono guardare mentre raccontano. Una
ricerca di materiale che mira alla raccolta di parole, di suoni, di storie, di
trame. Si muovono come giornalisti ma per entrare nel tessuto drammaturgico. Alla
fine sul tavolo ci sono pezzi di vita che devono essere ricomposti. E così
entra in gioco il teatro. Un montaggio artistico dai tratti emozionali viene
utilizzato per sfoltire e donare ai frammenti unità tematica e ritmica, un
respiro epico che appare strano all’orecchio russo, ma, allo stesso tempo,
risulta vincente.
Come in una sorta di Commedia dell’Arte il Teatr.doc
mira alla formazione di ruoli e personaggi. I ricordi e le memorie delle
persone vere vengono cuciti insieme per la creazione di caratteri
universalmente noti e condivisi: non personaggi inventati dalla mente creativa
di uno scrittore, ma personaggi nati dalla combinazione di persone viventi e
che quindi parlano di tutti. Ecco perché questo tipo di teatro vince, perché
parla di noi e di cose che ci riguardano molto da vicino. È forte il bisogno di
cambiare drammaturgia se ci si vuole aprire alla vita.
L’incontro prosegue con un videofilm di Gilles Morel che monta insieme la tappe
salienti del Teatr.doc: “Viaggio in cinque spettacoli nel cuore di un luogo
singolare che riunisce da più di un decennio la nuova generazione teatrale:
talento, audacia, volontà di cambiamento”. Sia che si tratti di spettacoli
corali, o che sia solo uno in scena, il Teatr.doc “si definisce attraverso la
sperimentazione di un teatro sociale, radicale e apertamente politico che tenta,
con le sue tematiche e le sue messinscene, di porre domande adeguate sulla
società.” (Tania Moguilevskaia)
Posizione zero, quindi, che come nella tragedia
greca riesce a far emergere i contrari e che rende il pubblico partecipe e
libero di scegliere.
Un tempo si usciva dai teatri e si parlava, si
ragionava e, perché no, si criticava. Ogni spettatore aveva il desiderio di
prolungare quella meravigliosa esperienza e condividerla con gli altri. Oggi si
fa un po’meno, ma se hai l’occasione di trovarti davanti lo sciamano che ti ha
portato a vivere un esperienza inaspettata nel mondo straordinario, due
domandine sono di rito. Naturalmente mi riferisco a Guccini, la saggia guida
che ha ritrovato e portato alla nostra conoscenza un capolavoro come L’Orizzonte dipinto. Famelicamente
abbiamo domandato e lui, gentilmente, ci ha risposto.
Anzi,
prima ancora di rispondere, ha precisato:
Gli studi da sempre hanno cercato di limitare un po’
la figura dell’attore, che ha uno strumento di indipendenza fortissimo nella drammaturgi ed è stato invece paralizzato dalle teorie delle grandi avanguardie che hanno
disciolto l’energia dell’attore “straordinario”: lo studio del nuovo teatro ha
abbandonato la volontà di indagare la realtà dell’attore. Ma se l’attore
riassume la propria autonomia tutti quanti i fili ci riportano al grande
attore, difatti oggi sta riemergendo l’attore\interprete che la storiografia
del nuovo teatro ha fortemente censurato.
Un
intervento di Fabio Acca, altra importante figura del CIMES, chiarisce ancora
di più il concetto:
I due avanguardisti che si sono slegati da questa
linea di “oppressione” dell’attore sono Carmelo Bene e Leo de Berardinis. Dei
due, de Berardinis ha portato avanti una scuola in cui la crescita sistematica
sugli sviluppi dell’attorialità si confronta con l’individualizzazione
dell’idea del personaggio: è da lui che parte la “rinascita pirandelliana” (che
tanti premi gli procura). Ma la storiografia non si è interessata a questo
processo in itinere, nella cronologia storica: non ha posto attenzione a questa
riunione dei valori e della dimensione attoriale.
Professor
Guccini, che il teatro sia protagonista del film è ben chiaro, ma in relazione a
ciò che ha appena affermato come possiamo interpretare il quadro d’insieme
rappresentato sul palcoscenico di L’Orizzonte dipinto?
Questo film dimostra come il teatro può essere visto
oltre gli schemi di Silvio D’Amico: egli infatti ha idealizzato il pensiero
teatrale e, con la sua autorità, ha affossato il grande attore. Nella sua Enciclopedia dello spettacolo l’unico
grande attore citato è la Duse ma è legata all’idea di un teatro che si
dissolve, e questa immagine è presente nel film nella figura del teatro che
brucia. D’Amico ha dettato legge e da lui in poi la sintesi registica ha
incarnato la figura in antitesi con l’attore. Mentre nel pre-bellico in cui
questo film è ambientato, la regia è una presenza ne L’Orizzonte dipinto essa è legata al portare avanti le innovazioni
di Max Reinhardt (con il quale Salvini ha lavorato) ossia il palco rotante.
Quindi
abbiamo la descrizione di un rapporto particolare tra regia e attore?
Il film descrive gli anni in cui la dimensione
registica convive con l’arte del grande attore. Non c’è ancora
l’ideologizzazione della regia e quindi la convivenza è possibile: pensiamo a
Strehler e al rantolo di Ricci nella sua messa in scena de Il giardino dei ciliegi. È storia.
Com’è
venuto alla sua attenzione questo film?
Leggendo le recensioni dell’epoca. In effetti non ha
avuto grande successo, ma molte recensioni sono state scritte su questo film. È
stata un opera di recupero.
E
sicuramente ritrovarlo non è stato facile?
Sono state portate avanti lunghe ricerche tra gli
archivi del Museo del cinema di Torino
e della Cineteca di Bologna, e alla
fine è stato ritrovato da Michele Canosa,
vicino alla conservazione filmica, presso la Ripley’s Film e approfitto per ringraziare il dottor Angelo Draicchio. Va precisato inoltre
che del film in realtà esiste solo il negativo, quindi è stato girato in
supporto DVD per questa occasione.
È
la prima volta che viene mostrato il film in pubblico?
No, è stata fatta un anteprima seminariale al
Festival di Santarcangelo. A proposito ringrazio Ermanna Montanari e Marco Martinelli.
Quest’ultimo mi ha fatto notare che, durante un cambio di scena verso la fine
del film, si parla di teatro stabile. E il capocomico fa una battuta: “Il
teatro non è un posto a sedere, ma un apostolato tra la gente.”
Ci
regala un altro piccolo segreto de L’Orizzonte
dipinto?
In questo film debutta Valentina Cortese (in foto), altra
grande protagonista de Il giardino dei
ciliegi diretto da Strehler, nel ruolo della nipotina di Ermete Zacconi
La magia del mai visto libera gli occhi
dello spettatore più disattento, del ragazzo più annoiato, del critico più
fossilizzato e gli regala un nuovo ordine di cose… una meraviglia che per un
paio d’ore gli fa dimenticare il tempo che scorre e lo inchioda a uno schermo
dove rivivono - udite udite! -immagini in bianco e nero. Se questa non è
meraviglia dell’arte, di certo è un piccolo miracolo nell’era del 3D e dell’iPad.
Non ci si poteva aspettare di più da L’Orizzonte
dipinto, un film del 1941 con la regia di Guido Salvini e la
partecipazione di attori come Ermete
Zacconi, Paolo Stoppa , Renzo Ricci, Memo Benassi, Cesco Baseggio: un cast spettacolare
che raccoglie i più grandi attori di
fine ‘800 inizio ‘900.
Il 25 novembre in via Azzo Gardino viene
proiettato davanti a una platea del tutto sprovvista della benché minima conoscenza
del film poiché la pellicola, data da tempo per scomparsa, è stata da poco ritrovata
grazie all’interesse e alle ricerche svolte da Gerardo Guccini e Michele Canosa. A colmare le giustificabili
lacune sono intervenute tre autorevoli voci da tempo care al CIMES: Gerardo
Guccini, responsabile scientifico CIMES e professore associato dell’Università
di Bologna, Paola Bignami, professore associato presso l’Università di Bologna
e Paolo Puppa, ordinario di Storia del teatro e dello spettacolo alla Facoltà di
Lingue e Letterature straniere presso l’università di Venezia.
La trama è presentata dal prof.Guccini
che introduce sin da subito la centralità che svolge il teatro in essa. La
storia articola un discorso sul teatro che, per la sua complessità e la
particolarità dei suoi sviluppi, ha bisogno della giusta chiave di lettura. Una
breve panoramica sull’attività del regista ci consente di conoscere meglio il
nipote del celebre attore Tommaso Salvini nonché personaggio di punta nel rinnovamento
teatrale italiano. Regista a tutto tondo dal mondo lirico, dove imprime novità
al repertorio rossiniano, a quello pirandelliano, insegnante di regia all’Accademia
di arte drammatica Silvio D’Amico, non è alla sua prima regia cinematografica.
Nel 1937 dirige La regina della Scala
dove vengono mostrate le prove del Nerone
di Mascagni, l’opera preferita dal regime fascista.
Amore per la musica e coraggio nel
muoversi controtendenza si ritrovano, invece, nel film del ’41, dove l’arte è
rappresentata come fatica, fallimento, addirittura morte. Quest’ultimo aspetto
vive nella tragica vicenda del personaggio di Laura Adami la quale, morendo tra
il silenzio dei suoi colleghi e il delirio della scena, si sacrifica per il
teatro e sottolinea i risvolti tragici riconosciuti dal film come alla base del
vivere nel teatro.
La trama ruota attorno alle vicende
della giovane Nora e del suo percorso che la porterà a vivere tutte le tappe
della carriera attoriale: da voce di Giulietta in un carretto di burattini ad
anima e corpo della stessa in un grande teatro Milanese. Ma la sua carriera è
fatta di simboli: dalla “Chimera”, che la trascinerà, con l’omonima compagnia,
nell’arte che regala sogni per poi tradirli, al burattinaio, interpretato da
Benassi, famoso compagno in scena della Duse e legato a un teatro senza luogo,
poetico, irreale. Non è un caso se Guccini ricorda la citazione della Duse
riportata da D’Amico nel suo Tramonto del
grande attore: “Per riformare il teatro bisognerebbe bruciarlo”. E non è un
caso se ciò succede, nel film, per una disattenzione della giovane Nora. Non
dimentichiamo la presenza nel film del teatro del grande attore: la voce
drammatica di Enzo Ricci che viene sentita dalla giovane Nora mentre recita
l’Amleto, l’ “ocialetto” che il grande Ermete Zacconi regala alla giovane
delusa sono tutti segni di una sensibilità artistica, di una magnificenza
intramontabile.
Dall’alto dei suoi studi sulla scenografia e
sul costume teatrale, la prof.ssa Bignami ci guida alla scoperta delle scene ne
L’orizzonte dipinto attraverso
bozzetti e immagini di Aldo Calvo, scenografo famoso per il suo binomio con
Salvini e qui ritrovato, secondo una tesi avanzata dalla stessa, come
costumista: dalla sua esperienza nel teatro nazionale brasiliano fino all’ Aida del ‘49 sceneggiata in occasione
della Biennale di Venezia, senza tralasciare la collaborazione ne La regina della Scala, Calvo si dimostra
un ottimo scenografo sia nell’opera che nel teatro di prosa, soprattutto negli
interni e nelle scene veristiche
nonostante pecchi
nell’innovazione. Nel film la realtà si riverbera nel teatro: il teatro è lo
spazio del vero descritto in ogni suo aspetto, persino nelle parti più nascoste
allo spettatore e i suoi palchetti diventano gli occhi che testimoniano la vittoria
della nostra Nora e della sua aspirazione… il
fuori, quello sì che è ricostruito, irreale.
Il mondo del teatro e le
sue gerarchie rivivono nei cappotti. Nella sua profonda analisi del costume, la
Bignami sottolinea la pelliccia del grande attore e il giacchetto della nuova
arrivata: il cappotto che identifica il grado dell’attore e lo copre dal freddo
della solitudine, del paese sconosciuto,
del pubblico invocato, della compagnia che rischia lo sfascio. Lo stesso
cappotto che, una volta perso il corpo da rivestire, viene poggiato sul
cassone. Il burattinaio non indossa un cappotto, lui che dà l’anima ai
burattini veste a righe: è la stoffa del diavolo che chiarisce quale fuoco arde
nella sua interiorità.
Dal regista e dallo sceneggiatore-costumista
all’attore il passo è breve: Cesco Baseggio non può rivivere che nella voce
ferma e calda di Paolo Puppa e nel suo suadente veneziano, regalandoci una
lettura del monologo di Shylock davvero indimenticabile. Il suo libro, Cesco Baseggio.Ritratto dell’ attore da
vecchio, pone l’accento sull’importanza della conquista del ruolo della
vecchiaia scenica da parte dell’attore. Baseggio interpreta Shylock in una riscrittura
in dialetto veneziano de Il mercante di
Venezia a soli ventinove anni e ne fa il suo autoritratto: il vizio e il
dolore sono espressioni di un interiorità corrotta dal gioco e dalla
prodigalità. Non ha maschera oltre le occhiaie e la schiena ricurva, le mani ad
artiglio e la erre moscia che caratterizza ancor di più il suo veneziano
rendono l’avaro ebreo di Baseggio una caricatura di se stesso. Una disperazione
che gli appartiene così come gli appartiene il personaggio. Non è comico, non è
tragico, ma è caratterista: è il tipico intellettuale da salotto pirandelliano,
il personaggio che non può vivere i sentimenti ma li commenta e critica. Ama i
soldi così come ama i giovinetti e vive una vita spericolata, fatta di ben 56
film (marchette per guadagnare, come li chiama lui) dove la sua vita singolare,
eccentrica impossessa i suoi personaggi, spesso militari. Ne L’orizzonte dipinto si riallaccia alla
dimensione della normalità. Sposato con la Gramatica (altra figura che richiama
in scena la Duse) forma la coppia che farà da esempio alla giovane ingenua,
trionfante alla morte della vecchia attrice.
In trepidante attesa del film, Puppa ci
stuzzica con frasi riprese dallo stesso, tra le quali è doveroso ricordare :
“sei un attrice, sei un soldato”pronunciata dal vecchio grande attore Zacconi
nel rinfrancare il cuore di Nora e “ l’arte non copia, l’arte inventa”, frase a
cui non bisogna aggiungere nulla. Ormai siamo pronti per questo viaggio, ormai
ci siamo.
Godiamoci
il buio della sala, il sipario si alza sul film
E non è un gioco di parole, ma la
descrizione dell’inizio di una delle storie più emozionanti orbitanti intorno al teatro.
Battute fresche, risate sane e emozioni come non ne vediamo più, attori
fantastici nell’interpretare un mondo alla deriva. Paolo Stoppa diverte con il
suo atteggiamento da attore navigato e amato, con il suo sdegno per i borghesi
che vogliono fare gli attori e le ragazze che non accettano le sue attenzioni, Renzo
Ricci ci ricorda come il grande attore è capace di piangere di ogni sua emozione
legata al teatro mentre il grande Ermete Zacconi è il vecchio attore che non
rinuncia a calcare le scene, per un ultima volta, e ascolta il pianto di una
giovane donna turbata dalla sua passione, Laura Adani, che santifica con il suo
estremo sacrificio la scena e abbandona nelle mani di Nora, interpretata da
Luisella Beghi, il giovane Massimo e il suo animo combattuto tra il caldo pasto
nella famiglia borghese e la fredda
minestra riscaldata degli alberghetti di provincia. E il carrozzone continua a
viaggiare, regalando sogni e infrangendoli, come Medusa che promette al suo
amore un matrimonio (ma sempre dopo il prossimo spettacolo!) quando davvero non
ci saranno più speranze. Quando davvero si avrà il coraggio di abbandonare... ed
ecco che arriva Milano, la città, e a portarli fin lì sono i celebri
“ocialetti”, amuleto capace di restituire gioie e speranze. E Giulietta,
finalmente, va in scena per davvero. Nella scena finale, tra i doppi
palcoscenici rotanti del grande Max Reinhardt ricordati qui da Salvini (più che
un regista, il promotore della tecnologia) abbiamo l’ultimo stacco sul mondo
del grande attore, sulla sua arte e il sacrificio che egli le dedica, poiché
“il teatro non è un posto a sedere, ma un apostolato tra la gente”.
E come ogni volta davanti al sipario
chiuso, ci vuole forza di volontà per alzarsi e rientrare nel mondo che ci
aspetta fuori. Per accettare un “FINE” che arriva a chiuderci l’Orizzonte.
Fonde in sé il valore documentario della ricerca
bibliografica e la commozione della poesia il testo che Daniela Nicosia – della compagnia Tib Teatro -ha scritto e
messo in scena per Galileo, spettacolo che ricostruisce, come fosse il negativo di
una fotografia, gli aspetti meno appariscenti della parabola esistenziale dello
scienziato, affrontando solo marginalmente le teorie e le scoperte scientifiche
del “filosofo della natura”e soffermandosi, con garbo e dolcezza, sulle
debolezze e i fallimenti dell’“uomo”.
Eppure, se è vero che ogni testo intrattiene relazioni
molteplici con gli altri testi, appartengano essi al passato o al presente, le
parole della Nicosia non possono fare a meno di richiamare, per contrasto o –
forse – per integrazione, non solo quelle di Brecht, cariche di misericordia e
fervore, ma anche quelle dei libri su cui ognuno di noi ha studiato le vicende
e le scoperte di Galilei: il risultato è quello di una sorta di iper-personaggio
che, in quest’ultima lettura di Tib Teatro, assume i tratti di una figura
tragica.
Quella “commozione” che, secondo l’autrice e regista, nasce
di fronte all’“amore per la vita” provato da Galileo, ci sembra il risultato di
un contrasto insanabile – e quindi tragico – tra l’assolutezza delle
convinzioni dello scienziato, la sua cieca e infantile caparbietà da un lato, e
le debolezze, le viltà affettive, le incapacità del sentimento dall’altro.
Questo mondo degli affetti e delle emozioni è popolato solo
ed esclusivamente da figure femminili:
prima la madre, ottusa e gretta ma capace di far crescere
nel figlio una caparbietà imperitura, poi la governante, l’amante Marina e la
figlia Virginia. Ognuna contribuisce a far proliferare un aspetto della
personalità di Galileo, che si rivela sordo e vagamente dispotico con la
governate, bisognoso d’amore verso Marina, sostanzialmente indifferente, a
tratti caritatevole ma in fondo parassita nei riguardi di Virginia. Quasi fosse
incapace di “darsi” realmente all’altro, Galileo sembra suggere dalle sue donne
(e quando ciò non è possibile, come nel caso di Marina, le abbandona) tutta la
forza di cui ha bisogno per condurre la battaglia in difesa delle proprie idee,
almeno fino all’abiura.
La condanna travolge tutti, dalla fida governante (sconvolta
dalla vergogna nel sentir il nome del suo padrone dal pulpito di Santa Maria
Novella) fino a Virginia, costretta a prendere i voti e morta poi in
giovanissima età. Virginia, dapprima figlia abbandonata, si trasformerà in angelo
materno e compassionevole nei confronti di un padre che fino all’ultimo sarà
troppo travolto dall’irruenza delle proprie vicende individuali per riuscire a
dire né a dimostrare alla sua bambina, almeno per una volta, che la Verità non
è solo quella dell’intelligenza ma anche quella del cuore.
In un allestimento scenico rigoroso, essenziale e funzionale nel porre
nella giusta luce il carattere e la densità del testo, la sfida più importante,
ci sembra, era quella lanciata agli attori.
Nella scatola “bianca” di una scena avvolta da un velario
percorso da fessure verticali (da cui quindi si può entrare e uscire per dar vita
a un’azione che si svolge anche nel retroscena, ma della quale ci arriva solo
una proiezione di ombre), si muovono solo due interpreti, Solimano Pontarollo,
nella parte di Galileo, e Piera Ardessi, nei panni di tutte le figure femminili
menzionate in precedenza.
Se non ci sembrasse un termine eccessivamente abusato,
useremmo per Piera l’aggettivo “brava” nel senso più pieno e completo possibile:
instancabile senza mai eccedere nell’istrionismo, l’attrice
si fa arguta Colombina quando recita nei panni della
governante, ma sa essere anche matrigna bisbetica (personaggio a cui dà vita
solo con la voce e con i gesti proiettati in controluce, grazie a un’assoluta
padronanza del proprio corpo), fino a diventare Virginia/Suor Maria Celeste, ragazzetta
pallida e malaticcia, la fascia per capelli attorno alla testa, che, pur nella
semplicità di vedute di una “monachella”, si prende cura dell’unico affetto che
le sia rimasto, oltre a quello, di certo non cercato ardentemente, che le
proviene dal Signore.
E se dal testo trapela il dubbio circa il fatto che il peso
delle “donne di Galileo” sia più
importante di quanto non si pensi comunemente, nell’interpretazione attorica le
figure femminili della Ardessi si impongono a più riprese sul Galileo
(volutamente più statico, quasi ieratico, e sempre in scena) di Pontarollo. Quella
grandiosa tragicità che il testo ci sembrava emanare sembra spegnersi nell’interpretazione
eccessivamente raziocinante di Solimano, improntata a una sorta di tono medio e
in cui i contrasti insolubili che agitano il personaggio non hanno abbastanza
spazio per manifestarsi: ci appare quindi un Galileo ben consapevole del senso
delle proprie teorie scientifiche, ma, nel pronunciarle, quel “piacere per il
sapere” che tanto aveva orientato le scelte drammaturgiche di Daniela Nicosia,
va confondendosi in una ragnatela di gesti, espressioni del volto e
atteggiamenti che sembrano provenire forse più dall’esperienza scenica
dell’attore, che non dalla pervicace volontà del personaggio.
Il tono medio cui si è fatto in precedenza riferimento, ci
pare che tenda a rimanere anche nei momenti che vedono Galileo alle prese con i
conflitti del proprio mondo emotivo, ed è qui che la partecipazione commossa
che anima le parole del testo perde irrimediabilmente calore.
Una
stanza grigia, senza mobili. Due finestrelle sono posizionate in alto sui muri
di destra e di sinistra, con le ante chiuse. Sul primo piano destro una porta,
anch’essa chiusa. Sul primo piano sinistro due bidoni della spazzatura. Al
centro, coperto da un lenzuolo macchiato di sangue, seduto su una sedia a
rotelle, Hamm (Vittorio Franceschi).
Così
si apre “Finale di partita”, opera scritta da Samuel Beckett e qui diretto da
Massimo Castri.
Regista
di grande esperienza, Castri sottolinea l’analogia del titolo e dello
spettacolo con la mossa del gioco degli scacchi (di cui Beckett era un discreto
giocatore), facendo muovere i personaggi su un’enorme scacchiera, costituita
dal pavimento della stanza. Hamm costituisce la pedina del re, in una partita
già persa in partenza, che solo un cattivo giocatore continuerebbe a giocare,
ma che Hamm porta avanti probabilmente solo per posticipare una fine
inevitabile.
La
partita si svolge in quella che sembra la sala principale del palazzo di Hamm,
lussuosa e piena di stucchi, ma spoglia.
Hamm
è un vecchio signore cieco, non può camminare e tiranneggia su Clov (Milutin
Dapcevic), che al contrario ci vede, ma non può stare seduto. Clov da sempre si
è dovuto occupare di Hamm, fin da piccolo da quanto ricorda lui, visto che
rammenta poco del suo passato. A un certo punto Hamm racconta di un bambino che
striscia per un tozzo di pane, e potrebbe tranquillamente essere la storia di
Clov, ma questi sono tutti particolari che si perdono nella memoria.
Hamm
tormenta Clov dandogli ordini assurdi, poi ritrattandoli in continuazione, ma
anche Clov a modo suo ribatte ad Hamm ostentando obbedienza, ma minacciandolo
in continuazione di abbandonarlo. Rinchiusi nei due bidoni della spazzatura in
proscenio vi sono Nagg (Antonio Giuseppe Peligra) e Nell (Diana Hobel), i
“maledetti progenitori” di Hamm. Completamente vestiti di bianco e dalle
sembianze burattinesche, essi hanno perso le gambe in un incidente in tandem
nelle Ardenne, in cui anche Hamm ha avuto un aneurisma (lo dimostra il sangue
sul lenzuolo). Dal carattere più dolce, Nell è anche capace di rievocare
momenti felici come la gita sul lago di Como fatta con Nagg. Più rude e
pressante invece, Nagg è impaziente di ripetere la storia del sarto inglese e
stuzzica Nell, ma nonostante tutto è ancora capace di gesti dolci nei suoi
confronti, come ad esempio il fatto di averle conservato un pezzo del suo
biscotto.
Le
vicissutidini che hanno attraversato la famiglia di Hamm sono paragonabili alle
tragedie che stanno colpendo il mondo intorno a loro.
Rinchiusi
in questo lussuoso rifugio a metà tra terra e mare, Hamm vede una terra
desolata (“Tutto è zero… zero... e zero”) attraverso le finestre sui muri.
Ma
in questa atmosfera di malattia e tristezza, in cui quasi stride il vociare di
bambini e i versi di gabbiani che si sentono all’esterno verso la fine dello spettacolo,
(ma che denotano ancora un barlume di vita sulla terra), si aggiungono una
serie di dialoghi arguti e divertenti, segnati da un pur sempre nero umorismo.
“Non
c’è niente di più comico dell’infelicità”, ci ricorda dopotutto Beckett tramite
la voce di Nell, sottolineando la sua vena ironica e sarcastica che farà di Finale di partita il suo spettacolo
preferito.
E
in questa partita composta da un gioco continuo di mossa e contromossa, e da
una serie di azioni ripetitive nel tempo, dove Hamm si rivolge al suo servitore
con toni fermi e atteggiamenti da attore consumato, forse per nascondere un
ultimo briciolo di dignità, sopraggiunge infine la fuga di Clov. Una fuga
fittizia, visto che egli rimarrà immobile nel proscenio, con valigetta e
ombrello in mano, pronto per partire, ma intrappolato in questo rifugio e
incapace come il fratello di portare a termine qualsiasi azione.
E
sarà proprio così che si concluderà lo spettacolo, in una sorta di fermo
immagine, le cui azioni, chissà, potranno riprendere uguali il giorno seguente.
Questa
è la prima volta che Castri porta in scena una piéce di Beckett, sicuramente la
più difficile da interpretare. Eppure la scrupolosità nella scelta della
scenografia e dei costumi, curati da Maurizio Balò, e la bravura degli attori,
in particolare di Franceschi e Dapcevic, che con la loro gestualità accentuata
e precisa e i loro scambi di battute, recitati a specchio l’uno dell’altro,
hanno contribuito a rendere più evidente l’atmosfera dello spettacolo a metà
tra tragedia e commedia, sospeso nel tempo, segnato anche da una sottile vena
di cechovismo.
Uno
spettacolo accolto con successo all’Arena del sole, dove andrà in scena fino al
4 dicembre, dopo aver vinto il premio Ubu nel 2010 come miglior spettacolo
dell’anno.