mercoledì 8 febbraio 2012

Un pullman, un matrimonio ebreo e il ricordo di un Olocausto. Pronti a partire per “Viaggio di nozze”

Nell'ambito della Giornata della Memoria, Reon - Future Dimore, propone un viaggio unico che ricostruisce, attraverso risate amare e taciuti pianti, la storia di un matrimonio, di un tempo dell'orrore e di una morte che tutto blocca ma niente cancella.
Ci sono pullman che nella vita non puoi evitare. Ti caricano su all’improvviso e ti trascinano per portici e piazze, senza un capolinea. Si scende solo quando la storia tace, il viaggio finisce e la tua esperienza è giunta al termine. Inizia quella degli altri.

Un viaggio dentro la città di Bologna che si svolge all'interno di un autobus dell'Atc trasformato, per l'occasione, in un luogo abitato. Una fermata come altre, un freddo come tanti, un pullman come pochi che come capolinea indica "Viva gli sposi". Sali e ti accoglie un Kapò – controllore che ti chiede il biglietto e ti saluta come un cameriere di albergo entusiasmato. Tra stelle filanti e ghirlande di fiori, vedi un giovane smunto con occhialini neri e cappello calato, un morto appeso al reggimano e una nuvola di tulle che copre due volti. Si parte, si inizia: salutiamo tutti con un “Evviva gli sposi”, cerchiamo di far largo quanto più possibile ai due innamorati e ascoltiamo. Ascoltiamo di una giovane donna piena d’amore, frenetica, forse un po’ inesperta che, resistendo a scosse e curve un po’ azzardate, ci racconta del suo uomo, del suo matrimonio, della sua infanzia svanita il giorno in cui ha scelto di diventare donna. Vince il pudore, ci racconta della sua prima mestruazione nella sua prima notte di nozze, di quell’amore carnalmente innocente e tenacemente custodito, senza morte che separa. Perché la nostra storia viaggia in una Bologna scura come la morte, raccontata da uomini privati della vita ma non dimentichi della stessa, del loro ultimo respiro, dei loro ultimi desideri prima di venire ridotti a cenere e sputati fuori dal vento gelido di un campo di concentramento. Ci parlano rimpiangendo la quotidianità, la vita di tutti i giorni, raccontandoci l’orrore al di fuori del moralismo storico che investe le nazioni nel Giorno della Memoria: Loro sono memoria. Vomitano fuori pezzi della loro realtà e per questo appaiono veri, sinceri, ironici persino. Come si può non ridere di una giovane donna morta per colpa degli starnazzi della suocera. Come si può non ridere di un uomo che parla della mamma “napoletana, prima ancora che ebrea”, che chiede a chiunque un pezzo di pane da condividere al banchetto del suo matrimonio, che vive al ricordo del pollo ruspante nei giorni di festa. Come si può non tremare mentre un giovane cieco dalla barba ispida ti tocca il volto mentre racconta del suo ultimo attimo di vita, in una fossa comune, mentre ti racconta con voce profonda di corpi aggrovigliati, pesanti, ossa rotte e maleodoranti e della sua mano che nel mezzo cerca di toccare, di vedere …e riconosce un piede a cui mancano due dita, riconosce suo padre e te lo racconta mentre tra preghiere e singhiozzi tocca il tuo volto con il suo alito caldo, tocca i tuoi occhi senza pianto. Ma ecco che il morto appeso si anima, inizia a parlare. Kafka rivive nel suo vorticoso raccontare di come era un uomo e di come una mattina si sveglia scarafaggio. Lui non appartiene agli altri, lui è una realtà parallela che si accende e si spegne in bagliori di luce e parla, racconta, gesticola , ti investe con il suo corpo esile e continua, sovrastando i racconti più lieti e i ricordi più tristi e quando ha finito si accascia, senza dar conto a nessuno, senza legarsi a nessuno. Non gli interessa se davanti a lui c’è una persona che lo ascolta, che accoglie i suoi fremiti e la sua saliva. Va avanti, ti travolge, ti coinvolge. E tu partecipi perché non puoi fare altro, non puoi ribellarti. Tu sei un invitato, prima ancora che uno spettatore. Tu hai accettato di presenziare a questa festa, e non puoi sottrarti dai tuoi obblighi, dai tuoi doveri.

Continua il viaggio, continua il matrimonio. Arriva il rabbino, sempre pronto a vendere e a guadagnare, a speculare sulla fede e sulla miseria dei tempi accompagnato dal buon Jacob, che “ha fatto tanti progressi” ma che ancora non ha perso il vizio di essere sincero, di dire la verità, di mal adattarsi all’inganno. Regalano risate e battibecchi, ma si fa silenzio: si alza il giovane dal cappello nero. Lui è morto, il nonno si è rifatto una vita fuori dall’inferno. Ci cela lo sguardo, ci parla con il nervosismo del corpo. Finora i racconti più duri ci giungono da occhi chiusi, coperti, abituati all’oscurità, ma lui alla fine ci regala il suo sguardo e un tremito di infelicità ci coglie dal profondo dei suoi occhi. Ci scuote il rabbino: avanti, liberiamoci dai nostri beni se vogliamo essere salvi, avanti partecipiamo alla riffa, pardon, alla distribuzione degli oggetti sacri che sembrano rottami ma non lo sono, hanno un significato anche loro, sono pezzi di quotidianità riciclati dalla storia e dall’ideologia, mascherati dal bisogno della povera gente di salvarsi, di vedere la reliquia in tutto ciò che ti dicono capace di tirarti fuori dall’orrore…sia anche un fanalino della vespa. Basta, si degenera. Il controllore – kapò torna in sé. Esige, comanda di essere felici, di concludere la storia, di consumare il matrimonio. Comanda dall’alto del suo ruolo, dall’alto del suo pentimento dichiarato davanti a Dio, che i due sposi si amino li, davanti a tutti, perché tutti devono vedere che quel che è passato, ormai , è passato. Adesso ci si può amare. Il marito lo guarda negli occhi: “io non devo obbedire a nessuno”. Dall’alto della morte, l’obbedienza appare un inutile convenzione mortale. Il viaggio è finito. Il matrimonio per noi si è concluso, ma molti altri invitati attendono al capolinea. Attendono anche loro un “Viaggio di nozze” in cui non ci sono foto da vedere e souvenir da commentare, ma memoria. Memoria servita come antipasto, come contorno, come divertimento e come ricordo.

Elvira Scorza

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