Ci sono pullman che nella vita non puoi
evitare. Ti caricano su all’improvviso e ti trascinano per portici
e piazze, senza un capolinea. Si scende solo quando la storia tace,
il viaggio finisce e la tua esperienza è giunta al termine. Inizia
quella degli altri.
Un
viaggio dentro la città di Bologna che si svolge all'interno
di un autobus dell'Atc trasformato,
per l'occasione, in un luogo abitato.
Una fermata come altre, un freddo come tanti, un pullman come pochi
che come capolinea indica "Viva gli sposi". Sali e ti accoglie un
Kapò – controllore che ti chiede il biglietto e ti saluta come un
cameriere di albergo entusiasmato. Tra stelle filanti e ghirlande di
fiori, vedi un giovane smunto con occhialini neri e cappello calato,
un morto appeso al reggimano e una nuvola di tulle che copre due
volti. Si parte, si inizia: salutiamo tutti con un “Evviva gli
sposi”, cerchiamo di far largo quanto più possibile ai due
innamorati e ascoltiamo. Ascoltiamo di una giovane donna piena
d’amore, frenetica, forse un po’ inesperta che, resistendo a
scosse e curve un po’ azzardate, ci racconta del suo uomo, del suo
matrimonio, della sua infanzia svanita il giorno in cui ha scelto di
diventare donna. Vince il pudore, ci racconta della sua prima
mestruazione nella sua prima notte di nozze, di quell’amore
carnalmente innocente e tenacemente custodito, senza morte che
separa. Perché la nostra storia viaggia in una Bologna scura come la
morte, raccontata da uomini privati della vita ma non dimentichi
della stessa, del loro ultimo respiro, dei loro ultimi desideri prima
di venire ridotti a cenere e sputati fuori dal vento gelido di un
campo di concentramento. Ci parlano rimpiangendo la quotidianità, la
vita di tutti i giorni, raccontandoci l’orrore al di fuori del
moralismo storico che investe le nazioni nel Giorno della Memoria:
Loro sono memoria. Vomitano fuori pezzi della loro realtà e per
questo appaiono veri, sinceri, ironici persino. Come si può non
ridere di una giovane donna morta per colpa degli starnazzi della
suocera. Come si può non ridere di un uomo che parla della mamma
“napoletana, prima ancora che ebrea”, che chiede a chiunque un
pezzo di pane da condividere al banchetto del suo matrimonio, che
vive al ricordo del pollo ruspante nei giorni di festa. Come si può
non tremare mentre un giovane cieco dalla barba ispida ti tocca il
volto mentre racconta del suo ultimo attimo di vita, in una fossa
comune, mentre ti racconta con voce profonda di corpi aggrovigliati,
pesanti, ossa rotte e maleodoranti e della sua mano che nel mezzo
cerca di toccare, di vedere …e riconosce un piede a cui mancano due
dita, riconosce suo padre e te lo racconta mentre tra preghiere e
singhiozzi tocca il tuo volto con il suo alito caldo, tocca i tuoi
occhi senza pianto. Ma ecco che il morto appeso si anima, inizia a
parlare. Kafka rivive nel suo vorticoso raccontare di come era un
uomo e di come una mattina si sveglia scarafaggio. Lui non appartiene
agli altri, lui è una realtà parallela che si accende e si spegne
in bagliori di luce e parla, racconta, gesticola , ti investe con il
suo corpo esile e continua, sovrastando i racconti più lieti e i
ricordi più tristi e quando ha finito si accascia, senza dar conto a
nessuno, senza legarsi a nessuno. Non gli interessa se davanti a lui
c’è una persona che lo ascolta, che accoglie i suoi fremiti e la
sua saliva. Va avanti, ti travolge, ti coinvolge. E tu partecipi
perché non puoi fare altro, non puoi ribellarti. Tu sei un invitato,
prima ancora che uno spettatore. Tu hai accettato di presenziare a
questa festa, e non puoi sottrarti dai tuoi obblighi, dai tuoi
doveri.
Continua il viaggio, continua il
matrimonio. Arriva il rabbino, sempre pronto a vendere e a
guadagnare, a speculare sulla fede e sulla miseria dei tempi
accompagnato dal buon Jacob, che “ha fatto tanti progressi” ma
che ancora non ha perso il vizio di essere sincero, di dire la
verità, di mal adattarsi all’inganno. Regalano risate e
battibecchi, ma si fa silenzio: si alza il giovane dal cappello nero.
Lui è morto, il nonno si è rifatto una vita fuori dall’inferno.
Ci cela lo sguardo, ci parla con il nervosismo del corpo. Finora i
racconti più duri ci giungono da occhi chiusi, coperti, abituati
all’oscurità, ma lui alla fine ci regala il suo sguardo e un
tremito di infelicità ci coglie dal profondo dei suoi occhi. Ci
scuote il rabbino: avanti, liberiamoci dai nostri beni se vogliamo
essere salvi, avanti partecipiamo alla riffa, pardon, alla
distribuzione degli oggetti sacri che sembrano rottami ma non lo
sono, hanno un significato anche loro, sono pezzi di quotidianità
riciclati dalla storia e dall’ideologia, mascherati dal bisogno
della povera gente di salvarsi, di vedere la reliquia in tutto ciò
che ti dicono capace di tirarti fuori dall’orrore…sia anche un
fanalino della vespa. Basta, si degenera. Il controllore – kapò
torna in sé. Esige, comanda di essere felici, di concludere la
storia, di consumare il matrimonio. Comanda dall’alto del suo
ruolo, dall’alto del suo pentimento dichiarato davanti a Dio, che i
due sposi si amino li, davanti a tutti, perché tutti devono vedere
che quel che è passato, ormai , è passato. Adesso ci si può amare.
Il marito lo guarda negli occhi: “io non devo obbedire a nessuno”.
Dall’alto della morte, l’obbedienza appare un inutile convenzione
mortale. Il viaggio è finito. Il matrimonio per noi si è concluso,
ma molti altri invitati attendono al capolinea. Attendono anche loro
un “Viaggio di nozze” in cui non ci sono foto da vedere e
souvenir da commentare, ma memoria. Memoria servita come antipasto,
come contorno, come divertimento e come ricordo.
Elvira Scorza
Nessun commento:
Posta un commento