venerdì 20 dicembre 2013

Lavori in corso a Barcellona: la compagnia Barò d'Evel Cirk Cia va in scena


Per i non addetti ai lavori, Obres, uno spettacolo della compagnia franco-catalana di circo contemporaneo Barò d'Evel Cirk Cia, appare fin dal primo istante come un cantiere a cielo aperto, con l'andirivieni di operai che, come automi impazziti, comunicano tramite walkie-talkie, rincorrendosi in uno spazio costellato di cartelli che segnalano le “obres” in corso. Ogni angolo trasuda terra, polvere. Ogni angolo trasuda l'essenza dell'accadere: gli spettatori si ritrovano immersi nelle profondità del processo creativo, che si preannuncia essere un lungo viaggio.

Il pubblico, con ancora il biglietto d'ingresso nella mano e nell'altra il tagliandino del percorso itinerante, nel momento in cui varca la soglia dell'immenso atrio del Mercat de Las Flors, è già divenuto parte di quel processo frenetico senza nemmeno rendersene conto; micro particella del rincorrersi dei martelli, delle tenaglie, delle campane che disorientano continuamente lo sguardo dello spettatore. Uno sguardo che lo trasforma in un casuale visitatore che, aldilà delle impalcature e delle ultime verniciate alle pareti, inizia a costruire a sua volta, tra le zappe, le pale, i rastrelli e le vanghe, il proprio viaggio.


Ecco svelato il primo tassello indispensabile per poter partire lungo i livelli stratificati del cantiere: ovunque, lavori in corso.


La meta, aldilà delle apparenze, non è quella del circo fatto di acrobazie, di salti, e di un uso selvaggio di animali. È un viaggio che si racconta nel compierlo, che parla, sussurra, si apre a mille linguaggi differenti: la danza, i suoni, le parole, la pittura. Mondi equidistanti che si sfiorano reciprocamente in quello che diviene un percorso sonoro, figurativo, emozionale, riportando tutti i visitatori al loro stato più primitivo: quello animale.

L'attesa. Questo il primo momento in cui si trovano completamente immersi gli spettatori.
L'attesa necessaria per capire il proprio posto nello spazio: non a caso all'ingresso, viene consegnato un tagliandino per essere divisi in piccoli gruppi. Ciascuno deve seguire il proprio segnale: rastrello, pala, vanga o zappa?
E poi di nuovo l'attesa nel vedere un primo reale inizio, oltre la frenesia dei lavori in corso.

Il punto zero da cui partire proviene dall’elemento più basilare, la terra: da essa, all'interno di una voragine in una costruzione di legno posta al centro dell'atrio, spunta la testa di un uomo, che si risveglia ed inizia a ballare insieme ad altri addetti ai lavori che ritornano poi con lui nell'oscurità degli abissi sotterranei.
Ci cadono dentro tutti, rispuntano poi da laggiù con i vestiti, i capelli, le bocche che trasudano terra.
I corpi dei ballerini si decostruiscono nei movimenti, lasciandosi attraversare dalla pesante materialità della terra, fondendosi in essa, in quegli stessi granelli che, scossi dai loro ondeggi, zampillano in aria.

Una voce tremendamente acuta sembra provenire da quello stesso buco nero che risucchia i corpi e li riporta alla luce: accompagna la loro scomposizione, fondendosi con i rumori freddi dei martelli che non smettono di scolpire il tempo.
All'improvviso i ballerini sembrano accorgersi della presenza di alcuni estranei e così si affrettano affinché ciascun gruppo possa iniziare il proprio viaggio.
Seguendo il lampeggiante rosso, prende il via l'ascesa all'interno dei meandri del cantiere.
Si sale lungo scale a chiocciola, si attraversano lunghi corridoi, tutti costellati da pitture bianche, disegni (forme di emoticons tristi o felici) o scritte (sì o no).

Prima tappa, la danza di una donna con la testa di cavallo o meglio, la danza di un cavallo con il corpo da donna. Nessuna musica accompagna il trotto, il chinarsi, lo sdraiarsi, l'ondeggiarsi dell'animale. Solo tante, continue gocce d'acqua scandiscono il ritmo della danza, cadendo in tanti piccoli catini che delimitano lo spazio scenico. Prima lente, poi veloci, fino ad arrestarsi, solo per un attimo, brutalmente. Segnano l'incedere del tempo, un tempo che unisce uomo e animale e che riporta chi osserva ad entrare acutamente e profondamente in quel ritmo incalzante.
Le luci scompaiono ed allora le gocce diventano una cascata scrosciante che invita il pubblico a rialzarsi e a proseguire il proprio viaggio. 

Si continua così a salire lungo le gradinate, accompagnati, durante il percorso, da un'unica goccia che dal soffitto cade giù fino all'atrio della scalinata. Si entra così in un altro mondo animale, quello delle scimmie: infatti una ballerina, aggrappata ad un palo al centro della sala, se ne sta attonita, ad osservare il pubblico. Inizia a scendere, gambe penzoloni verso il nostro mondo umano, non staccando mai la mano dalla coda dei capelli. Si origina una vera e propria lotta tra il corpo della ballerina e lo spazio che la circonda: movimenti estremi, acrobazie al limite dell'improbabile si sviluppano intorno a quella mano che non si può e non si vuole staccare dalla coda. La ballerina rappresenta un conflitto  tra il mondo umano e quello animale, che diventa ancora più visibile nel momento in cui finisce la sua performance, uscendo dalla scena con un uccellino sulla testa.

Arriva il momento di essere trascinati da un'altra danza. Questa volta a piroettare sono i pennelli degli stessi addetti ai lavori che disegnano su uno schermo bianco una storia, la raccontano. La narrano dietro il telo, oltre i tratteggi e le linee che si definiscono sulla tela. Disegnano prima il cervello di un uomo, dai mille e confusi meandri, e di fronte a lui un'altra faccia dalla cui bocca esce una corda che la collega al cervello. Un dissidio forte, profondo, che sembra rimandare alle voci e ai conflitti umani interiori che prendono forma, materializzandosi in una duplice personalità dell'individuo. I pennelli continuano a cancellare parti dei due visi fino a non lasciarne più traccia, aldilà di una cascata di zampilli marroni che disegnano una danza, una lotta tra uomini. Dietro al telo si intravedono le ombre degli addetti ai lavori che vanno a fondersi con le immagini sullo schermo. Si assiste così alla pittura di una danza che si fa materia viva, composta di immagini che  ondeggiano sinuosamente.


Si inizia a scendere, e questa volta riappare un addetto ai lavori che comunica tramite walkie-talkie, e raccomanda ad un altro operaio di non lasciare gli animali soli e fare in modo che non si perdano sennò soffriranno. Il riferimento ironico al pubblico come reale animale dello spettacolo viene da questo momento esplicitato chiaramente.
Così  il gregge di uomini continua a seguire la luce lampeggiante rossa, si esce dall'edificio del Mercat e ci si ritrova di fronte ad un cavallo reale. L’animale guida ed accompagna i visitatori fino all'ingresso di una nuova tappa: un lungo corridoio fatto di carta, dalle mille forme e colori. Camminando lungo il percorso si incontra Vincenzo, un uomo semi sotterrato nella terra. Spiega come il cervello dell'uomo sia molto simile ad un cavolfiore e come l'essere umano si ostini a non trasformare le proprie azioni, a non muoversi. Benché si rifiuti, arriverà ugualmente a compiere un cambiamento, trascinato da tutto quanto lo circonda. Sarà il vento a rompere l'immobilità.
Un'elica enorme inizia infatti a sbuffare e i visitatori si lasciano andare, passo dopo passo, alla meta successiva.

Tutto quello che ci si aspetta, arrivando in un'arena, è di compiere l'ultima tappa, questa volta tutti riuniti in un unico grande gruppo.
Si assiste così ad una danza corale, tra ballerini e cavallo, dove quest'ultimo detta il ritmo dei movimenti degli altri. Tutti a seguire lo stesso movimento, dove a tratti non si riesce a distinguere chi sia l'animale e chi l'uomo, in un armonioso equilibrio, sempre a stretto contatto con la terra che resta inizio e fine dell'itinerario.
I ballerini lasciano la scena, e così si ritorna nell'atrio principale del Mercat, dove si materializza l'epilogo dello spettacolo, tra musiche e balli: uno degli addetti ai lavori disegna su alcuni cartelli uomini-cavallo che zappano la terra.  Si celebra così il compimento di un lungo viaggio.

Obres squarcia sicuramente il Mercat de las Flors: il libero sfogo di una creatività finora impensabile tenta di  ricontestualizzare la posizione dello spettatore prima e dell'individuo poi. Ironico, pungente lo sguardo dei registi, Blai Mateu e Camille Decourtye, nei confronti del pubblico e più in generale della società: costretti e condannati a seguire il vento, gli spettatori sono incapaci di opporsi e di reagire per modificare il corso degli eventi, tali e quali a un gregge belante.

L'itinerario diviene così una lunga e profonda metafora dell'oggi, dell'imbruttimento di una società preda di sé stessa, della voragine dei consumi, di uomini incapaci di modificare il ritmo del tempo, schiavi d'esso e di sé medesimi.
Un ritorno all'animalità che non vuole essere proposta come una cosa meschina, ma anzi, come una tra le poche àncore di salvezza. Il proposito della compagnia è quindi fin troppo esplicito e forse un po’ banale: se l’uomo risulta essere il più animale tra gli animali, meglio cercare di ritrovare l’innocenza e la purezza dei veri animali.
Ma il gruppo Barò D'Evel Cirk Cia riesce a condurre il proprio discorso con un inizio ed una fine credibili, riconducendo tutto alla natura delle cose, del tempo, dello spazio che si racchiudono nella creatività del teatro. E della vita, in sostanza.

Notevole il lavoro artistico, dove danza, pittura, ritmo sonoro, rapporto in sinergia con gli animali riescono a far rodare in maniera efficace gli ingranaggi di una macchina complessa.
Scenicamente, appare chiara la frammentarietà dei corpi dei ballerini, uniti dalla necessità di farsi particelle piccole, impercettibili a stretto contatto con le radici della terra: le stesse da cui troviamo origine, da cui fuggiamo e a cui torniamo sempre anelanti di curiosità rispetto a quell'oscurità che cela ciò che non si può e non si riesce a vedere.


Un'illuminante immagine degli infiniti viaggi, continuamente in obres, in costruzione, che si compiono nel teatro e nella vita. Vengono in mente i versi di una canzone di NiccolòFabi “… E in mezzo c'è tutto il resto, e tutto il resto è silenziosamente costruire...”.

Visto al Mercat de Las Flors, Barcellona il 15 dicembre 2013 

Carmen Pedullà
  

martedì 10 dicembre 2013

Premi Ubu per il teatro 2013 - I vincitori

Si è svolta a Milano la trentaseiesima edizione dei Premi Ubu, curata dall’Associazione Ubu per Franco Quadri (www.ubuperfq.it).
Consegnati nello storico Piccolo Teatro “Paolo Grassi” di via Rovello davanti a una platea affollata di artisti, critici e appassionati del teatro, i 17 riconoscimenti sono stati assegnati da una giuria di 56 referendari. I premi abbracciano tutti i ruoli del teatro, dalla regia agli attori e attrici, dalla scenografia alla drammaturgia italiana e straniera, per culminare con lo spettacolo dell’anno, senza dimenticare i “premi speciali”, destinati a esperienze innovative  e fuori dalle categorie canoniche.
La cerimonia – presentata da Giuseppe Battiston, attore teatrale e cinematografico già vincitore di alcuni Premi Ubu tra cui quello del 2009 come miglior attore – ha anche ospitato la menzione del Premio Alinovi-Daolio – dedicato a un artista delle arti visive che si distingua per la commistione dei linguaggi e assegnato, in occasione del trentennale, a Maurizio Cattelan – oltre alla consegna del Premio Rete Critica, riconoscimento teatrale assegnato dalle testate di critica online – giunto alla terza edizione – che ha proclamato vincitore il coreografo e danzatore Alessandro Sciarroni.


A trionfare come migliore spettacolo dell’anno ai Premi Ubu 2013 è stato il lavoro corale Il panico dell’argentino Rafael Spregelburd (edito da Ubulibri) con la regia di Luca Ronconi, che ritirando il premio ha ricordato il gruppo di attori da lui diretto. Allo spettacolo è andato anche il riconoscimento per la miglior scenografia, assegnato a Marco Rossi.
Tra i Premi Speciali, quelli a due “maestri nascosti” della scena contemporanea come Chiara Guidi e Danio Manfredini che, per strade completamente diverse, operano sul versante della pedagogia e nella ricerca d’attore legata alla voce, al corpo e alla scrittura scenica. Gli altri Premi Speciali hanno segnalato un autore come Stefano Massini, che sta riscuotendo grande successo anche all’estero con il recente The Lehman Trilogy (di prossima pubblicazione presso Einaudi); e un progetto che ha usato il teatro per riattivare  il tessuto urbano e civile come Il ratto d’Europa ideato e diretto da Claudio Longhi tra Roma e Modena. Infine una coppia d’arte esplosiva, Antonio Rezza e Flavia Mastrella, che con la loro comicità crudele e visionaria hanno raggiunto vette di grande impatto scenico.
Per il secondo anno consecutivo, si aggiudica il premio per la miglior regia Antonio Latella per Francamente me ne infischio (Tara, Match, Black), libera rielaborazione di Via col vento, che ha visto trionfare anche le tre attrici protagoniste dello spettacolo – Caterina Carpio, Candida Nieri e Valentina Vacca – votate come “corpo unico” per l'affiatamento e la moltiplicazione dei personaggi interpretati.
L'unico ex aequo si è registrato nella categoria del miglior attore, dove hanno trionfato un maestro della scena come Carlo Cecchi (per La serata a Colono di Elsa Morante con la regia di Mario Martone) e un attore-autore come Mario Perrotta per il monologo Un bés-Antonio Ligabue.
Tra gli attori non protagonisti, il referendum tra i critici ha privilegiato Antonia Truppo, compagna di scena di Cecchi nella Serata a Colono; e Peppe Servillo per Le voci di dentro, di cui il fratello Toni, che lo ha applaudito in sala, è regista e interprete. Tra gli under 30, si è distinta Alice Spisa.
Sul fronte della drammaturgia sono emerse l’epopea di Pantani rivisitata da Marco Martinelli (Teatro delle Albe) e Jucatùre (Els jugadors) del catalano Pau Mirò, tradotto in napoletano e messo in scena da Enrico Janniello (Teatri Uniti). Infine, ma premiato per primo, l’imponente ma godibilissimo Odyssey con la regia di Bob Wilson – coprodotto dal Piccolo Teatro di Milano-Teatro d’Europa e dal National Theatre of Greece.
Il premio per i vincitori è una scultura realizzata appositamente dall’artista Roberto Abbiati: al centro dell’opera un “chiodo storto”, ovvero l'amuleto tramandato dalla tradizione scenica, piantato su un segmento di asse da palcoscenico e incorniciato in una piccola edicola. Carico di vissuto, e del potere invisibile del teatro, il “chiodo” è stato molto apprezzato dai vincitori e dal pubblico, come auspicio di buoni orizzonti in un momento difficile per il nostro teatro. Ai vincitori è stata consegnata anche una copia del volume “Il teatro che credi di conoscere. Le carte patafisiche di Franco Quadri e della Ubulibri” edito dalla Fondazione Arnoldo e Alberto Mondadori, che testimonia la storia dell'archivio del critico, della Ubulibri e del Patalogo, depositato in Fondazione, fino all'attuale lavoro di catalogazione realizzato grazie alla collaborazione con la Direzione generale per gli Archivi del MiBACT: un pezzo importante della memoria viva del teatro, che si nutre anche della lezione artistica e umana degli uomini e delle donne di scena.
Particolarmente sentito, nel corso della serata, il ricordo che si è voluto dedicare ad alcune preziose figure recentemente scomparse, registi come Massimo Castri e Patrice Chéreau, o attrici di generazioni diverse come Mariangela Melato, Franca Rame e Luisa Pasello, fino a un outsider della scrittura teatrale come Franco Scaladti e a Gae Aulenti,  architetto legata alla scena e alla storia degli Ubu. Questo tributo “alla memoria dello spettatore, la sola cui è affidato il compito sempre più gravoso di far vivere il teatro nel tempo, di darne testimonianza”, si è svolto con grande calore, sottolineando anche che il 9 dicembre 2013 è il ventennale della scomparsa di Antonio Neiwiller.

I Premi Ubu 2013 – la cui cerimonia è stata trasmessa in streaming su www.perypezyeurbane.org/ubu2013 – sono stati realizzati col patrocinio del Comune di Milano e del Comune di Bologna, e col prezioso contributo del Comune di Milano-Assessorato alla Cultura, Moda e Design e della Fondazione Cariplo. Hanno collaborato l’Associazione Ateatro, Ubulibri, la Fondazione Arnoldo e Alberto Mondadori e la Fondazione Ater Formazione-Scuola dell’Opera Italiana. Sono Mediapartner dei Premi Ubu 2013 Rai Radio3, Perypezye Urbane e Radio Popolare di Milano.

Foto di tutti i vincitori sono disponibili alla pagina: www.dropbox.com
username premiubu@ubuperfq.it - password premiubu

venerdì 29 novembre 2013

Discorsi a una nazione decaduta: sold out per Celestini al Pubblico di Casalecchio


Il sipario è aperto su un palco quanto mai scarno, se non pochi oggetti in centro fondamentali, tra cui il microfono e il podio da cui Ascanio Celestini terrà il suo discorso finale presidenziale. Delle voci di leader in varie lingue accolgono il pubblico, frastornato e spaesato dalla baraonda, a centuplicare il discorso sul potere mai buono (bisogna essere così coglioni per credere che esistano poteri buoni, diceva l’anarchico De André), che pervade tutto lo spettacolo. 
 

Tra le vari voci, anche quella di Silvio Berlusconi, naturalmente: e naturalmente il riferimento al pregiudicato in questo giorno particolare non poteva né voleva essere evitato nei primi dieci minuti di spiegazione dello spettacolo e intrattenimento del pubblico da parte dell’attore-narratore-solista Celestini. Instaurata l’atmosfera cordiale e divertita nel pubblico, la prima frustata di dolorosa riflessione arriva dal discorso-ripetizione sui valori di sinistra pervertiti piano piano dalle logiche mostruose del potere, e solo lentamente lo spettatore si rende conto che lo spettacolo, il vero spettacolo, come continuamente promesso da Celestini, sta per iniziare. Esattamente quando l’attore, che dice di essere di sinistra, fa il saluto romano e dice “me ne frego”, si abbassano le luci e si fa palesemente, prepotentemente chiaro l’inizio dello spettacolo, metafora corrosiva e amara della nostra realtà basata su un’ingiustizia sociale di fondo. La metafora quindi: una pioggia continua pervade il paese, che sembra preoccuparsi solo di questa (“d’altronde la pioggia bagna tutti, mentre la guerra non uccide mai tutti, quindi è più grave la pioggia”), mentre una guerra civile tra classi continua a mietere le sue vittime. In una palazzina di alienati sociali, vediamo l’angoscia di una routine mortale di uomini mediocri, razzisti e potenziali killer che si frantuma in mille pezzi.


 L’unica (falsa) soluzione a questi mali sembra il solito uomo della provvidenza, appartenente come sempre alla classe dominante, egemone, la cui retorica è completamente smontata e svelata da Celestini. E qui la metafora ritorna sui binari della realtà, perché uno di questi uomini della provvidenza, poi mostratisi per quelli che sono, è citato esplicitamente, ovvero Mario Monti e la sua famigerata battuta sulla noia per il posto fisso.
A fine discorso lo spettatore si trova in una trappola diabolica: applaudirà l’attore o il tiranno di turno, piegandosi anche lui alle logiche del potere? Perché noi spettatori siamo rotelle di questo sistema malato, ci spiega l’attore-dittatore nel suo discorso, e quindi nella nostra misura siamo responsabili delle storture del mondo. Ascanio Celestini lancia dunque uno schiaffo potente allo spettatore nella critica corrosiva ed efficace al sistema a cui, bisogna ammetterlo, risulta difficile replicare. Ma esserne convinti significa accettare la nostra parte di colpa e di responsabilità. Cosa resta, dunque? Un’esperienza di riflessione che è assolutamente necessaria per chi voglia definirsi cittadino, del mondo. Una lezione di vita, di storia, di alto teatro, da vedere, da soffrire, da riflettere.


Discorsi alla nazione – Uno spettacolo presidenziale, visto a Pubblico Teatro di Casalecchio di Reno, il 27 novembre 2013

Fabio Raffo

mercoledì 27 novembre 2013

Bologna-Ravenna: navetta gratuita. Al Teatro Rasi per lo Splendore dei Supplizi

Non possiamo perdere le occasioni di andare a teatro, specie se il trasporto per raggiungere il teatro è gratuito, e il biglietto ha prezzi ridotti per gli under 30!
Al Teatro Rasi di Ravenna, sabato 30 novembre ore 21 sul palco con Lo Splendore dei Supplizi ci sarà la Compagnia Fibre Parallele, che per la prima e unica volta andranno in scena in Emilia Romagna.
Candidati ai Premi Ubu 2013 come "migliore novità italiana o ricerca drammaturgica" e a Riccardo Spagnulo come "miglior attore under 30" (www.ubuperfq.it).


Ravenna Teatro / Teatro delle Albe
Teatro Rasi presentano
FIBRE PARALLELE
Lo Splendore dei Supplizi 
di e con Licia Lanera e Riccardo Spagnulo
e con Mino Decataldo
produzione Fibre Parallele e Festival delle Colline Torinesi

Quattro storie costituiscono Lo Splendore dei Supplizi. Vicende che raccontano le condanne di un presente schizofrenico: c’è la coppietta in crisi, un giocatore compulsivo di videopoker, la convivenza forzata di una badante straniera con un vecchio un po’ razzista un po’ infame e ci sono due operai che rapiscono un vegano per sfogare l’insoddisfazione di una vita che non ha più senso. Fibre Parallele è tra le realtà più sorprendenti delle nuove generazioni teatrali.
Spettacolo realizzato nell’ambito di Teatri del Tempo Presente - progetto interregionale di promozione dello spettacolo dal vivo, a cura del MiBAC - Direzione Generale per lo spettacolo dal vivo e delle Regioni: Campania, Emilia-Romagna, Lombardia, Marche, Piemonte, Puglia, Toscana, Umbria, Veneto.
durata 2h

BIGLIETTI Lo Splendore dei Supplizi

intero
12 €
ridotto
10 €
under30 e over65
8 €
partecipanti non-scuola
5 €

soci Coop Adriatica e Abbonati alla Stagione di Prosa

NAVETTA DA BOLOGNA
Partenza dall'autostazione di Bologna alle ore 19.20.
La prenotazione è obbligatoria e va effettuata entro giovedì 28 novembre.
Informazioni e prenotazioni tel. 333 7605760 / 0544 36239
organizzazione@ravennateatro.com


Scarica qui il programma di Ravenna viso-in-aria in PDF



martedì 26 novembre 2013

Crònica de Joseé Agarrotado (menudo hijo de puta)

Due sedie, un tavolo, un bidone della spazzatura, adibito a pozzo con tanto di acqua, un regalo impacchettato pronto per essere consegnato al fortunato. E un uomo che, seduto nella penombra, non stacca gli occhi da un cronometro che porta nella mano sinistra.
Una scena del tutto essenziale accoglie gli spettatori di Crónica di José Agarrotado: perfino le luci, soffuse, sembrano essere esse stesse un modo intimo e naturale per invitare il pubblico a prendere posto in fretta tra le poltroncine scure. Perché qualcosa, aldilà del filo impercettibile tra scena e platea, di misteriosamente urgente e necessario, sta prendendo vita.


Le luci scompaiono ed ecco apparire sulla scena un altro uomo, con lo sguardo perso nel vuoto. All'improvviso un boato, una musica elettronica che scuote l'intero scenario, pervade i corpi degli attori: insieme iniziano a fluttuare nello spazio, saltano, scappano, sbattono i pugni contro le pareti, affondano la testa nell'acqua, sfuggono l'uno dall'altro, cercando di evitare qualsiasi tipo di contatto, muovendosi equidistanti su un filo sottile che diviene barriera invalicabile, insondabile, separando i corpi quanto le parole.
L'incomunicabilità, fisica e verbale, viene così svelata fin da principio e diviene il vero tessuto drammaturgico che si snoda tra i corpi degli attori, veri e propri segmenti base del momento performativo.

Cronica de Josè Agarrotado ha veramente ben poco a che vedere con una narrazione fatta di parole, di lettere, di sillabe o di rime in versi. Quella ad essere raccontata non è una storia da manuale. A narrare e a narrarsi reciprocamente sono i corpi, nei loro profili scultorei, nelle loro ombre che si tratteggiano nello spazio, nel loro divenire specchio di una crisi comunicativa che si intesse nella nostra attuale esistenza sociale.

Lo spettatore si ritrova, fin dall'inizio, di fronte a due attori che si muovono equidistanti l'uno dall'altro.
Si scrutano, si scambiano una frase senza senso, Cuando te lo diga yo (Quando te lo dico io) senza che l'altro riesca mai a portare a compimento quanto chiede il primo.



Ed è proprio da questa domanda senza risposta, che si origina una musica assordante, penetrante, in cui si ha la sensazione di vedere letteralmente annegare i corpi degli attori.
Si delinea così una lotta di impulsi frenetici, in cui gli attori si scambiano continuamente i ruoli: se uno affonda la testa nell'acqua, l'altro lo libera, buttandosi a sua volta nel bidone.
Non mancano i tentativi di abbracciarsi, che finiscono inevitabilmente in uno scontro, in una lotta di nervi durissima. Gli attori bussano contro le pareti, contro il tavolo, contro le sedie, spostano continuamente gli oggetti in maniera compulsiva, l'uno modificando quanto fatto dall'altro.
Ci si annega dentro le bolle di fumo, le sigarette diventano uno dei pochi elementi di contatto con l'altro: gli attori fumano i rispettivi sigarillos, costituendo addirittura un gioco in cui crogiolarsi, solleticarsi, l'uno respirando il fumo dell'altro. Danno così vita ad un incrocio, nel tentativo di annusarsi e sottrarsi dalle barriere dell'incomunicabilità.

E poi il regalo: diviene parte stessa della frenesia, viene trascinato da una parte all'altra della scena, lo si dona all'altro, lo si apre, sfondandolo violentemente, secondo ciò che appare come un rituale spasmodico, dove l'uno incoraggia l'altro ad aprirlo, fino a quando la carta viene strappata in mille pezzi. Viene così svelato cosa contiene il pacchetto magico: un coltello che, secondo il donatore, dovrebbe essere un po' come un vestito da indossare. L'altro se lo prova, lo armeggia prima contro di sé e poi contro l'altro. Nuovamente una lotta, nuovamente barricati oltre quella lama che ora appare visibile, concreto simbolo dei numerosi, infiniti fili invisibili, intessuti nello spazio scenico, che impediscono ai due uomini di avvicinarsi.


La musica cessa, si interrompe. Una frase rompe il silenzio. Te quiero (Ti amo) e la risposta Yo tampoco (Neanch'io). Prende il via così la ripetizione all'infinito di una frase che riceve una risposta che non sembra essere proprio adatta a quella dichiarazione, e che sembra rimandare alla celebre canzone di Serge Gainsbourg e Jane Brikin Je t’aime, moi non plus (Ti amo, nemmeno io) .
Fino ad arrivare ad altrettanti tentativi di comunicazione che iniziano con un Por eso (Per questo) e terminano con un Por ti (Per te).

Una nuova musica prende il via, questa volta scandita da un 'tic tac', prima rallentato e poi accelerato, ed accompagna l'ultima frase di uno dei due attori: Yo no tengo nada que decir (Io non ho niente da dire). Poi la sua uscita di scena, con l'ombra della sua sagoma che si delinea sul fondo, fino a scomparire oltre l'uscita laterale.
In scena resta un solo attore, e continua a chiedere Estas allì verdad? (Sei ancora lì vero?), fino a perdersi con lo sguardo oltre la sedia del suo compagno, vuota, illuminata unicamente da alcune luci soffuse.
Si chiude così il filo rosso dello spettacolo, nella ricerca, nella mancanza quasi morbosa dell'altro, nonostante l'impossibilità di comunicare che divide due uomini, due corpi, due menti.
Anche mentre il pubblico lascia la sala, l'attore continua a restare lì, sussurrando sempre lo stesso monologo tra sé e lo spazio che lo circonda.

Cronica de Josè Agarrotado svela e mette a nudo all'interno dello spazio performativo la confusione terribilmente paradossale che avvolge le relazioni, l'impossibilità con la quale spesso ci si scontra nel cercare di comprendere o solo ascoltare quanto ci circonda.
E lo fa attraverso un modo che forse comunica più di ogni altro, ovvero tramite i corpi, intessendoli di gesti che si fanno parola.
Si assiste in maniera tangibile al rincorrersi continuo, in un’altalena di emozioni, dei corpi che mettono a nudo quella confusione soffocante, risucchiante che deriva dall'esistenza stessa, dall'incomunicabilità, dal non riuscire a percepire ciò che non risulta razionalmente comprensibile. Tutto ciò da frasi, gesti, frammenti che non comunicano. E si mostrano lì, integri, nella loro perfetta vacuità.


Nel suo complesso Crónica de José Agarrotado tuttavia comunica. Attraverso lo scontrarsi continuo dei due uomini, attraverso il rifuggire dalle parole, attraverso la ricerca di quello spasmo comunicativo dei corpi, che ci riporta ad uno stato di nudità non solo dell'esistenza. Ma anche del teatro, dimostrando la possibilità di poter scandagliare l'universo del corpo per farsi esso stesso partitura scenica.

Si rischia spesso di perdersi dentro a questo vortice frenetico dell'incomunicabilità.
Ma questo forse resta un elemento profondamente ricercato da David Clement e Pablo Molinero, attori della compagnia Los Corderos, drammaturghi, registi dell'opera, per rendere ancora più visibile la confusione contagiosa che deriva dalla rigidità delle barriere insite in “José Agarrotado”, “José Irrigidito”.
Un lavoro che comunica in maniera lucida e tangibile la possibilità di rendere visibile l'impossibilità che ci circonda nella vita. E spesso, soprattutto nel teatro.

Visto a Sala Maria Plans, Terrassa, Barcellona il 23 novembre 2013

Carmen Pedullà