mercoledì 20 aprile 2011

Deux petites dames vers le Nord: alla scoperta del teatro di Pierre Notte

“C'e' gente che ama mille cose/ e si perde per le strade del mondo./ Io che amo solo te,/ io mi fermerò/ e ti regalerò/ quel che resta/ della mia gioventù.” Cosa hanno a che vedere le dolci note di Sergio Endrigo con una pièce contemporanea francese?  Mettetevi comodi, allacciate le cinture di sicurezza: si parte verso Nord con due vecchiette, divertenti da morire e dolcissime come nonne, su un autobus da 60 posti.

Deux petites dames vers le Nord è un lavoro teatrale che comincia parlando della morte e invece poi si perde nelle mille venature della vita. È la storia di due sorelle attempate che si ritrovano insieme per gestire un momento delicato e non molto piacevole: la morte della madre. La burocrazia degli ospedali, le decisioni da prendere al volo, il funerale, la cremazione, sono rogne che nessuno vorrebbe mai avere.
Così assolti tutti i compiti del caso, decidono di prendersi una pausa dalla routine, di partire alla ricerca della tomba del padre morto 25 anni prima e di seppellire lì accanto le ceneri della mamma che trasportano dentro una scatola di biscotti. Ma di quel cimitero ricordano solo particolari di un paesaggio: sanno che dovrebbe essere più o meno a Nord della Francia; forse sotto un albero di nòccioli o nocciòli e nei pressi di una chiesetta.
Troppo poco per intraprendere un viaggio? Lungo questa sorta di road movie s’incontreranno l’un l’altra e in questo clima le due vecchiette cominceranno un vero rapporto, forse per la prima volta nella vita, riscoprendo il loro senso di famiglia. Rivangando il passato, accusandosi a vicenda di essere state assenti nei momenti di bisogno, canticchiando canzoncine malinconiche, si dichiareranno profonda stima e inevitabile affetto. Ruberanno un autobus da 60 posti per raggiungere la meta e, date le evidenti incapacità nel guidarlo, si ritroveranno in bilico su una scogliera. In equilibrio precario tra lasciarsi cadere e arrendersi oppure tra dare un colpo di reni e ritornare.

La scrittura del testo e la regia della messa in scena sono di un giovane drammaturgo francese Pierre Notte al quale il centro promozionale La Soffitta dell’università di Bologna ha dedicato una serie di incontri, dibattiti e spettacoli. È, il suo, uno stile ironico, fresco e divertente, di chi sa interrogarsi su questioni importanti e allo stesso tempo è capace di riderci su.
Le scene sono state create da giochi di neon colorati e le didascalie del testo proiettate aiutavano a cambiare luoghi e tempi.
Le vecchiette sul palco all’ ITC Teatro di San Lazzaro di Savena, dove lo abbiamo visto, sono due attrici di punta del teatro italiano di ricerca: Angela Malfitano e Francesca Mazza quest’ultima oltre a essere stata allieva di Leo De Berardinis ha anche ricevuto il premio Ubu come migliore attrice italiana della stagione 2009-2010 per l’interpretazione di West della compagnia Fanny & Alexander. Entrambe molto brave hanno reso ritmo, dolcezza e femminilità.

Secondo l’autore questo suo lavoro “è l’attimo (…) in cui si accetta di prendere per mano i propri fantasmi e di ballare insieme a loro invece di portarseli sulle spalle”.
Cosa hanno a che vedere le dolci note di Sergio Endrigo con una pièce contemporanea francese? Oltre a essere una dedica musicale di una delle due sorelle all’altra, entrambe hanno a che fare con la solitudine e la voglia di amare.

Josella Calantropo

domenica 17 aprile 2011

CARLO EMILIO GADDA, LA GRANDE GUERRA E LE PSICOFICHE-RICEVENTI


Una scena nera illuminata da luci grigie verso l'infinito incolore del  fondale. Una sedia marrone chiaro, che svetta figlia unica di madre vedova, sul terrificante buco nero che si apre minaccioso sulla sala. Il pubblico però non sembra spaventarsi da cotanta visione, indifferente affluisce all'interno della platea e rumoreggia tra i palchi e il loggione nella febbrile attesa del notissimo attore Fabrizio Gifuni. Il buio incombe e inghiotte tutto intorno, e solo allora appare un fantasma del passato. Nel  fragile corpo umano di Gifuni alberga lo spirito del giovane Carlo Emilio Gadda. 


Una luce violenta da lampadina squarcia il buio e ne sottolinea la presenza. Questi, calato in una divisa militare dei primi del novecento, risuscita dalla memoria le ferite profonde, penose e appassionate (nel senso cristologico del termine) della sua dolorosa esperienza nei reggimenti impegnati nella prima guerra mondiale. Ferite mai rimarginate, sopra le quali sono sadicamente versate, a ogni parola, gocce di limone e granelli di sale grosso. La violenza del reclutamento forzato e l'estenuante addestramento militare hanno prostrato e annullato le, pur vitali, forze del novello soldato. Il suo declamare dà l'impressione di un flusso di coscienza concitato, indistinto e distorto nonostante i suoi pensieri e ragionamenti rimangano sempre lucidi e netti anche nel delirio luttuoso e dolente delle trincee che odorano di morte. All'atterrito giovane soldato che si sente defraudato della sua fluente capigliatura e degli affetti fa da tragico controcanto il disperato principe Amleto. Si apre uno squarcio nella tetra tela, una luce di confine a forma di L e dal colore blu cobalto segna con un deciso tratto la presenza del principe di Danimarca. La sua figura è contratta e il suo volto sospeso in una smorfia di dolore. È un vero parallelismo teatrale che si incarna. Gadda come Amleto: entrambi orfani di padre, incompresi e sempre più deboli di nervi e collerici ma sopratutto mossi da un atavico desiderio, sempre insoddisfatto, d'affetto materno. I passaggi da un concetto all'altro sono fulminei e il plot delle memorie rotola senza freni verso la straziante narrazione della disfatta di Caporetto. 

Le battute si susseguono a un ritmo decisamente più lento quasi come nell'interpretazione di un dramma in versi. L'infausta sconfitta è narrata per mezzo di un braccio alzato verso il cielo e sventolato quasi con rassegnata dolcezza : è la danza del fazzoletto bianco che sancisce l'avvilente resa dei soldati italiani lasciati soli e impreparati per l'ultimo scontro contro i tedeschi. Tutto è perduto: perduta la dignità nel degradante e inumano campo di prigionia militare presso le forze armate tedesche, perduto l'onore allorquando il rientro in patria dei reduci (dopo la liberazione) è accompagnato dal biasimo e dal conseguente odio della comunità nazionale, perduto il ristoro e la comprensione degli affetti familiari allorquando il giovane Gadda, informato dall'anziana madre della morte in battaglia del diletto fratello Enrico, si vedrà additato come inetto e vigliacco. Ma il mondo sta per cambiare ancora. 

Gifuni si sfila la casacca della divisa scoprendo una maglia nera a manica lunga. Riecheggia sul palco una canzonetta degli anni trenta  suonata da un vecchio  grammofono. Una voce melodica maschile, su un ritmo da marcetta militare, invita chi lo ascolta a recarsi in Africa, terra  di colonie, e a sconfiggere il feroce Negus per poter al suo posto regnare. Una luce blu fosforescente abbaglia Gifuni e si rifrange sul suo inquietante sorriso a 44 denti. La musica marziale ispira ancora un gestus coreografato: così con i pugni chiusi, le braccia continuamente stese e contratte (a tempo di musica), il corpo piegato all'indietro e le gambe leggermente aperte ad angolo retto Gifuni simula la bellicosa e spavalda cavalcata di un soldato. Si palesa l'atmosfera da dittatura del periodo mussoliniano, e lo spettacolo, dapprima tanto tragico, muta registro divenendo un piccolo quadro in cui lo scrittore redivivo propone, sempre per mezzo dell'attore suo tramite, un perfetto rimbalzo satirico e intellettuale  tratto dal suo saggio Eros e Priapo


In questo frangente si scatena tutta la capacità mimetica e parodistica del Gadda maturo. Egli si scaglia con veemenza contro l'Io-Minchia  e contro lo spasmodico e erotico desiderio delle donne italiane di possederlo. Quest'idolo fallico e fallace fa perdere alle italiche femmine la coscienza etica di se stesse trasformandole in benemerite psicofiche-riceventi. Così esse divengono le assassine consapevoli dei loro uomini (figli, fidanzati e mariti) dal momento in cui li incoraggiano all'emulazione del Duce e li spingono verso il sacrificio per la causa fascista... guardandoli infine perire miseramente oltre che nelle ostilità anche per colpa degli stivali che, di pelle scadente e con le rifiniture solo abbozzate, logorandosi in breve tempo li espongono a ferite, infezioni e malattie. Il tono della voce si è fatto brillante e ironico e la velocità di declamazione della parola è nuovamente decollata verso ritmi sostenuti e accesi. Una precisa gestualità (quasi un commento disegnato dal corpo nello spazio) segue la concitata recitazione. La chiusura dello spettacolo esce dalle intenzioni di Gadda... il fantasma così affascinante del giovane soldato spaventato dispare, ma dispare anche lo scrittore ironico e aggressivo nei confronti del mussolinismo dilagante. 


Resta solo Gifuni, seduto a cavalcioni sulla sedia. È un grande attore non ci sono dubbi ma anche un grande stratega; infatti dedica gli ultimi minuti sul palco a un suo personalissimo “comizio” in forma di riflessione rivolto alla critica delle scelte dell'attuale presidente del consiglio Silvio Berlusconi.  Trovo che tale intervento abbia scardinato l'attenzione da ciò che si era appena visto in scena ma credo altresì che una tale decisione abbia sortito l'effetto di captatio benevolentiae che egli ricercava. Raccolto il consenso, infatti, sono scrosciati gli applausi dell'intera sala (probabilmente anche di coloro che non avevano seguito o compreso bene lo spettacolo) e questo effetto ha eccitato l'animo di una distinta signora della prima fila la quale si è alzata e ha applaudito con grande impeto. Gifuni si è inchinato al suo pubblico varie volte, anch'io ho applaudito e apprezzato questo ottimo attore, ma l'ho amato ancor di più nel momento in cui ha funto da tramite con l'aldilà per vivificare il disperato spettro di Gadda.

Enrico Rosolino

Fuori e dentro le mura: stanze di teatro carcere





”Non più ottico ma spacciatore di lenti
per improvvisare occhi contenti,
perché le pupille abituate a copiare
inventino i mondi sui quali guardare.
Seguite con me questi occhi sognare,
fuggire dall'orbita e non voler ritornare.”
Fabrizio De Andrè, Un ottico


 Un accento marcatamente straniero esce dalla bocca di un uomo vestito di bianco che cammina per il teatro nella luce soffusa, passando davanti alle poltrone, indagando gli occhi degli spettatori. Passeggia per i corridoi della sala recitando rime, lo sguardo dei presenti lo segue con curiosità. Poi si siede e cade il buio. Così inizia La collina in-cantata, performance teatrale-video-musicale dell’Associazione Gruppo Elettrogeno e I Fiori Blu. Nell’Auditorium dei Laboratori DMS c’è emozione, c’è silenzio. C’è la curiosità e la paura di confrontarsi con una realtà invisibile nella vita quotidiana, c’è il timore di scoprire cosa vedono gli occhi ingabbiati nei carceri ai margini delle città. 
La performance si offre come contenitore di storie e visioni personali dei partecipanti ai laboratori, che vengono elaborate in un video come tessere di un puzzle collettivo, susseguendosi in tante piccole pièce in cui lenti fantastiche fanno sognare gli occhi. Forse dalle loro stanze vedono solo mura e cancelli, ma con le lenti colorate del teatro la vista si fa più acuta, attraversa le pareti, vola verso il cielo, si immerge nel passato o si proietta nel futuro. “Cosa vedi?” dice la voce con l’accento straniero. “Vedo le mie sorelle” risponde uno degli attori. Vedono il mare, vedono il sole, vedono la gente che balla, che svolge la sua vita quotidiana. Fuggono, e non vorrebbero più tornare.

Il video finisce, le luci della sala riportano gli spettatori in una bruta realtà cantata a ritmo rap: “Sono stato costretto a fuggire dal mio paese, sognavo di venire in Italia per poter avere una vita migliore. Non sono venuto qua per rubare, ma per vivere una vita normale. Ho attraversato un braccio di mare in una lunghissima notte, e adesso mi ritrovo qua.” 
È la voce di un ragazzo nordafricano che, accompagnato da una live band sul palco, ci racconta la sua storia, o forse quella di un suo amico o parente, o più probabilmente la realtà di migliaia di persone che scappano da paesi in guerra rischiando la vita nel viaggio per approdare in Italia, dove trovano solo reclusione o una vita condannata alla clandestinità che spesso li porta comunque in gabbia. 

Tra i lunghi e sonori applausi e la gratificazione che si legge sui volti degli attori, finisce la performance e fa il suo ingresso l’ospite d’onore: Dori Ghezzi, vedova di De Andrè che insieme a Lee Masters ha ispirato lo spettacolo. Esprime con sorrisi e parole l’apprezzamento per il lavoro, per i progetti di teatro in carcere e il forte valore rieducativo che li ha fatti nascere e li sta facendo crescere. “Speriamo che il lavoro continui, e mi auguro che le prossime volte ci siano più donne!” conclude sorridendo.


Per il secondo spettacolo, una dimostrazione di lavoro del Teatro dei Venti condotto da Stefano Tè con i detenuti della Casa di Reclusione di Castelfranco Emilia, ci si sposta nel Quarto Spazio dei lavoratori: sette leggii sono disposti in riga sul fondo dello spazio scenico, gli attori entrano di corsa accompagnati da una musica. “Tutti i senatori, tutti i sudditi dell’Impero che dispongono di qualche ricchezza – piccola o grande, fa lo stesso – devono diseredare i propri figli e fare immediatamente testamento a favore dello Stato.” Sono le parole di Caligola, tratte dall’omonimo testo di Albert Camus su cui si incentra la rappresentazione. Gli attori, di diversa età e nazionalità, si avvicendano nel personaggio protagonista, alternando scene del testo a movimenti collettivi e individuali a volte quasi danzanti a volte simili a esercizi laboratoriali di movimento e coordinazione; nella recitazione spaziano diverse modalità, fondendo monologhi, dialoghi e declamazioni corali.  

Attraverso Caligola esplorano il dramma del potere che diviene delirio di onnipotenza, che diventa oppressione e che vuole schiacciare non solo il dissenso ma anche qualsiasi intralcio alla propria autorealizzazione e sopravvivenza, in un turbine di nichilismo che tiene conto solo di se stesso. 
Un’idea di fondo che può essere una delle mille spiegazioni all’aria pesante della nostra società che tende a eliminare i problemi invece di tentare di risolverli, che isola il diverso per proteggere un’immagine di serenità e benessere che in realtà è propria sempre di meno persone, che sovraffolla le carceri per rinchiudere nel dimenticatoio situazioni scomode da vedere anche se spesso non sono un reale pericolo.

No, sei tu che non te ne rendi conto. Sentimi bene. Se il tesoro è fondamentale, la vita umana non lo è. Ho deciso di essere logico. (…) Il potere ce l’ho io. Eliminerò chi mi contraddice e anche le contraddizioni.”
Caligola, A. Camus

Elena Grimaldi