mercoledì 22 febbraio 2012

Cerimonie teatrali. Intervista a Lorenzo Gleijeses

A inaugurare la serie di workshop che la Soffitta dedica agli studenti del Dms di questa stagione, Lorenzo Gleijeses. Figlio d'arte, ha alle spalle un percorso formativo autonomo e indipendente rispetto alle sue origini teatrali, fatto di incontri  e collaborazioni con  maestri internazionali come Lindsay Kemp, Eimuntas Nekrosius, Yoshi Oida, Eugenio Barba, il Workcenter di Jerzy Grotowski, Augusto Omolù, Michele Di Stefano/mk.
Al pubblico della Soffitta ha presentato Cerimonia, di cui ha curato la regia e la drammaturgia. Lo abbiamo incontrato per parlare di questa sua ultima creazione.

 Come nasce Cerimonia?

Sentivo l'esigenza, come mi succede ciclicamente, di creare un mio nuovo spettacolo e stavo leggendo diversi testi alla ricerca di un'ispirazione. Tra questi, ho incontrato Cerimonia per un negro assassinato di Fernando Arrabal che racconta di tre persone che, per non sentire quello che succede fuori, si chiudono in una stanza e giocano a fare teatro. Le voci dall'esterno li infastidiscono perché stanno creando uno spettacolo in cui credono molto, anche se non sono professionisti. Giocano con i testi, si improvvisano costumisti, scenografi, registi, sicuri delle loro capacità. Immaginano il teatro come la terra di Utopia, in cui rifugiarsi da quello che li disturba e non li fa star bene. Questa è l'immagine che io ho catturato da questo testo e in cui riconosco me stesso. Mi piace utilizzare i materiali performativi per scappare dalla realtà.

Cosa dovrebbe fare un attore oggi per definirsi tale? Ritrovare una dimensione del teatro fanciullesca, come fosse un gioco?

Non esiste un'unica ricetta per essere attori. C'è chi lavora più con un' immaginazione visiva, altri partono dal movimento, altri dalla parola, e anche quando hai un certo tipo di formazione finisce che poi prendi un'altra strada, creandoti una cifra personale, arrivando anche a frutti totalmente diversi. Una grande rigidità può aiutarti a essere estremamente libero. Io, durante il processo di prove, uso un metodo molto rigido ed è una rigidità che si riscontra nei miei movimenti che sono molto studiati, eppure, allo stesso tempo, si percepisce il contrario. Uno deve crearsi una propria disciplina, un proprio training che potrà anche dare dei frutti molto diversi rispetto al punto di partenza

 Qual è la sua, di formazione?

Io ho deciso di non fare accademie ma di fare una scuola perenne. Quasi tutti i miei progetti nascono in ambito di studio con maestri che amo molto e che mi aiutano a crescere. Julia Varley diceva sempre che si impara a fare l'attore lavorando sulle tavole del palcoscenico e facendo spettacoli

 Le sue sperimentazioni si rivolgono a un certo pubblico o sono fini a se stesse?

Non voglio che tutti gli spettatori si riconoscano in me o nella mia biografia, anzi è come se usassi la via inversa. Non definisco il personaggio nei suoi caratteri e nelle sue azioni, ma metto in scena qualche cosa che mi ossessiona, che mi interessa guardare e lo lascio il più aperto possibile: lo definisco secondo criteri di realtà e regole che sottostanno anche al ragionamento teatrale dello spettatore, altrimenti non ci sarebbe una simbiosi con lo spettacolo. Allo stesso tempo, però, lascio un'apertura che permetta allo spettatore di trovare un punto di identificazione, una tematica che fa parte della sua vita.

Anche per Cerimonia il punto di partenza è stata l'ossessione?

Sì, ed erano queste tre persone, chiuse in una casa, che evadono in un' utopia attraverso materiali teatrali. Ho iniziato da questo, ho messo sotto la lente d'ingrandimento questa situazione. ho creato materiali che avevano a che fare con questo stato e poi li ho uniti insieme. Ma è nell'incontro con il pubblico che ho cominciato a razionalizzare e a associare i possibili significati di questo lavoro.

Cosa vuol dire per lei fare teatro?

Intendo in vari modi il teatro. Non è detto che se fai sperimentazione fai teatro e se non la fai non fai teatro. Nel momento in cui faccio un anno di prove, ripetendo lo spettacolo una o due volte al giorno e poi non mi viene a vedere nessuno, comincia a mancarmi un confronto con un testo, con l'essere imbrigliato all'interno delle parole, con il salire sul palcoscenico per recitare una parte, come faccio nel Principe di Homburg con la regia di Cesare Lievi, e il fatto di confrontarmi con una platea di mille persone è una sensazione potentissima per me. Anche in questo modo di fare teatro, se lo si fa in maniera sincera, ci può essere un qualcosa di totalmente vero, reale.

Cosa vuol dire allora fare sperimentazione oggi?

Secondo me si può fare una grande sperimentazione giorno per giorno partendo anche da mezzi tecnici tradizionali. Tutti i grandi che oggi sono consideratila tradizione” erano degli innovatori. Anche un attore tradizionale può esserlo, tentando di superare ogni giorno un ostacolo. Questo è sperimentare per me. Mi rendo conto che c'è un coefficiente di sperimentazione maggiore in uno spettacolo come Cerimonia rispetto al Principe di Homburg, ma anche un personaggio come Homburg diventa sperimentazione nel momento in cui un attore ci lavora con il proprio stile interpretativo.

Come ha organizzato il workshop presso il centro La Soffitta?

Tutto dipende dai ragazzi che troverò. Sicuramente li farò camminare nello spazio perché da si capisce molto. Li vorrei far lavorare su tante cose, partendo sia da un'ottica più vicina a quella coreografica sia da una logica interpretativa. Ho chiesto infatti di portare testi su cui studieremo. Vorrei ricreare un'alchimia, come per il pubblico: a volte nasce empatia, altre volte meno e altre volte non nasce affatto. E' una questione sempre diversa: è uno specchio davanti a uno specchio.



Selene Venticinque
Carolina Ciccarelli

Nessun commento:

Posta un commento