sabato 30 marzo 2013

Gentilezza al capolinea. Un tram che si chiama desiderio di Antonio Latella

Una battuta, ferma e rivelatrice. Una battuta che si impone come una dichiarazione di poetica e immediatamente la comprensione della messinscena che Antonio Latella compie della celebre opera di Tennessee Williams, sembra aver trovato la propria via interpretativa: “Non voglio realismi”. Sono queste le parole pronunciate da Blanche, protagonista di Un tram che si chiama desiderio, in scena il 2 e 3 marzo a Pubblico, il teatro di Casalecchio di Reno.
La scelta di confrontarsi con un classico della letteratura teatrale come l’opera di Williams potrebbe sembrare un azzardo. Il rischio di essere travolti in quei vortici della memoria di cui un testo di tale portata è artefice, risulta concreto se si pensa sia alle storiche interpretazioni (da Marlon Brando a Marcello Mastroianni), sia alle rinomate regie (quella cinematografica di Elia Kazan o quella del nostrano Luchino Visconti) che hanno collaborato alla costruzione di una sua immagine quasi monumentale.
Tuttavia nella ricostruzione che Latella compie, delle sopravvivenze del passato rimane ben poco. Il testo, abilmente decostruito e purificato dalle imposizioni di una regola superiore, vive di forti scosse telluriche, movimenti interni che animano su tutti i livelli, da quello drammaturgico a quello scenografico, il ritmo di un’azione talvolta esplosiva, altre più introspettiva, eppure mai lineare. Sin dal primo istante ci confrontiamo con una regia che dialoga con l’intreccio, ribaltandone con maestria la narrazione. L’inizio coincide con la scena finale, ovvero con l’arrivo di Blanche all’ospedale psichiatrico in cui viene internata, e immediatamente lo spazio della messa in scena è quello della mente della protagonista, in cui lo spettatore viene proiettato, scoprendosi inaspettatamente testimone di una seduta analitica.


È affidato a una incantevole ed eterea Laura Marinoni il compito di condurci nei meandri più remoti del pensiero di una donna ormai frantumata, una donna dagli occhi vitrei e assenti, instabile, ha perso il centro, cade e sviene, una donna bugiarda, che finirà per abitare le proprie menzogne, bisognosa di un amore che mai riceverà. A manovrare le logiche del desiderio, quello della protagonista, già soffocato da un proibizionismo dal gusto tutto nordamericano, troviamo l’irruenza e la meschina virilità di Stanley, cognato di Blanche, interpretato da Vinicio Marchioni. L’incontro trai i due rompe qualsiasi parvenza di ordine che fino a quel momento inchiodava i personaggi ad un silenzio svilente; ciò che tale conflitto genera, mosso dalle redini di una sessualità esplosiva, rifluisce nell’odio, nel disprezzo, nella negazione dei sentimenti. È un mondo brutale, violento, i corpi reagiscono con un puro delirio, come in una caduta libera si divincolano tra gli elementi che occupano la scena: un frigo, una vasca da bagno, un letto, una porta, oggetti quotidiani di cui si consiglia di dimenticarne la loro funzione convenzionale. Le fragili strutture dei mobili risultano sventrate perché all’interno vengano inseriti amplificatori e ampi fari che investono con violenza il pubblico, come abbagli del pensiero. Ciò che viene a configurarsi assume tutti i connotati di una spazio della mente, quella di Blanche, senza dubbio.


Una mente contorta e labirintica come i mille cavi e microfoni che attraversano il proscenio, solcandolo con arroganza e ponendosi allo stesso tempo come prolungamenti delle vocalità degli attori. Latella compie una scelta molto significativa, colmando la scena fino all’inverosimile, archiviando, come reperti archeologici, oggetti simbolici di un’intera cultura, per restituire a quest’ultimi la responsabilità di una drammaturgia altrettanto densa.
Gli attori mostrano tutti una bravura smisurata. Stella (Elisabetta Valgoi), sorella della protagonista, con la quale l’unico rapporto possibile viene alimentato dal conflitto e dal paradosso, Mitch (Giuseppe Lanino) amico di Stanley ed infine Eunice (Annibale Pavone), la vicina di casa. Il ruolo interpretato da quest’ultimo è molto versatile, spesso lo ritroviamo muovere personaggi differenti, tutti inesorabilmente volti a fomentare il groviglio esistenziale di cui è intessuta la trama di ogni abitante della scena. Come una voce interiore, la figura del dottore, interpretato da Rosario Tedesco, segue Blanche come per proteggerla, orchestra i suoi respiri, la sua rigida compostezza lo relega ai margini dell’attenzione, straniero tra stranieri, razionale architetto di una cornice entro cui agisce con sottili interventi metateatrali. “Chiunque lei sia, ho sempre confidato nella gentilezza degli estranei”, sono queste le ultime parole di Blanche, lucidissima dichiarazione prima di abbandonarsi tra le sue braccia, consegnandosi alla pazzia come unica via di salvezza, atto eversivo verso una società che non vuole riconoscere le proprie nevrosi, che ha dimenticato la forza della gentilezza.



Elvira Venezia


venerdì 22 marzo 2013

Incontri In Contemporanea del Pubblico Teatro di Casalecchio

Casalecchio di Reno (BO) – Continua  la densa stagione di appuntamenti del Teatro Pubblico di Casalecchio che vede protagonisti artisti di fama  nazionale e internazionale non solo nella fascia serale con performance e spettacoli dal vivo, ma anche in qualche pomeriggio del mese si ha la possibilità di incontrare e approfondire con registi e interpreti le curiosità riguardanti le attività performative. Una ambita iniziativa quella degli incontri In Contemporanea  a cui sarà possibile assistere fino al 25 maggio.

Ne sono una dimostrazione i due appuntamenti che si terranno il 22 e 23 marzo, uno al MAMbo, il museo di arte moderna di Bologna e l’altro presso la Libreria Feltrinelli di Porta Ravegnana.

Una scena dello spettacolo Rosso
Questo pomeriggio (22 marzo ore 16) in programma c’è l’incontro con Ferdinando Bruni , regista e fondatore del Teatro Elfo, in occasione dello spettacolo Rosso di John Logan che andrà in scena questa sera ore 21 a Casalecchio.
Rosso, inedito in Italia, negli Stati Uniti è stato un caso. Premiato con sei Tony Award nel 2010, ha decretato il successo del suo autore, drammaturgo nonché sceneggiatore al fianco dei più importanti registi americani: da Scorsese (The Aviator e Hugo Cabret) a Tim Burton (Sweeney Todd) fino a Spielberg, per cui ha scritto Lincoln con Tony Kushner.
Il testo s'ispira alla biografia del pittore americano Mark Rothko, maestro dell'espressionismo astratto, che alla fine degli anni Cinquanta ottenne la più importante commissione della storia dell’arte moderna, una serie di dipinti murali per il ristorante Four Season di New York.
Ne emerge il ritratto di un uomo ambizioso, per il quale "la pittura è quasi interamente pensiero. Metter il colore sulla tela corrisponde al dieci per cento del lavoro. Il resto è attesa" – scrive l’addetto stampa del teatro Pubblico di Casalecchio.

Michela Cescon nei panni di Leonilde
Il 23 marzo ore 17 ci sarà incontro con Michela Cescon presso la Libreria Feltrinelli di Porta Ravegnana in occasione dello spettacolo Leonilde, che andrà in scena il 27 marzo ore 21 a Casalecchio.
Un monologo di Sergio C. Perroni su Nilde Iotti, una donna eletta parlamentare a 26 anni, membro della “Commissione dei 75” che diede vita alla Costituzione, prima donna a ricoprire la carica di Presidente della Camera. Si ripercorrono le tappe cruciali del Novecento dal Fascismo alla Seconda Guerra Mondiale, dalla Resistenza alla nascita della Repubblica, dalla Costituzione alla conquista dei diritti delle donne.

22 marzo ore 16
MAMbo-Museo d’Arte Moderna di Bologna
INCONTRO CON FERDINANDO BRUNI E LA COMPAGNIA
nell’ambito di IN CONTEMPORANEA
con Elena Tamburini e Laura Mariani.

Sabato 23 marzo – ore 17
LIBRERIA FELTRINELLI
Incontro con Michela Cescon
In occasione dello spettacolo LEONILDE
Con Laura Mariani ed Enrico Pitozzi – redazione di Culture Teatrali

mercoledì 20 marzo 2013

Diario di bordo per Un Otello altro - Lo spettacolo

In scena il telo bianco sul solito palco di legno dell’Amleto a pranzo e a cena, luci in sala, i quattro attori escono dalle quinte e stringono il patto d’immaginazione con lo spettatore: il telo sarà broccato e i costumi saranno storici, grazie al suono magico del campanello che detta l’inizio dello spettacolo.
L’inizio è quanto mai dirompente grazie all’uso straniato della commedia dell’arte, su Roderigo-Arlecchino (iconico il suo cappello) che diventa mentecatto mentale, su Brabanzio-Pantalone dall’accento veneto, su Iago altro Arlecchino che ha sbagliato commedia. L’ingresso di Otello tra i due teli che si separano, a creare il primo contrasto bianco-nero, non determina un immediato cambio di registro.
Tuttavia il comico scivola presto verso il grottesco nella notte di Cipro, dove è già in atto il piano di Iago: le prime ombre della  gelosia ossessiva si manifestano dietro il telone. 

Locandina dello spettacolo Un Otello Altro
Risulta più decisivo e più stridente la versione “pop” di questo Otello altro, rispetto all’Amleto a pranzo e a cena: lì la metateatralità consentiva al gioco di essere riflessivo e allo stesso tempo divertente.
In Otello il comico diventa amaro, i suoi ritmi ripetitivi e loop segnano ben presto l’ossessione di Otello, l’incapacità di comunicazione tra i personaggi è un abisso, paradossalmente ancora più profondo per via delle inevitabili sporcature di una prima nazionale. Diventa sempre più difficile contrastare i meccanismi ineluttabili della tragedia, che avanza inesorabile fino alla sua esplosione. Un altro brusco straniamento comico, il loop sul fazzoletto dettato anche dalla musica, non riesce a salvare la povera Desdemona, finché cade ancora più sconsolato il buio sul dramma privato della sua uccisione, neanche compensato dal pentimento finale e suicidio di Otello e la mezza giustizia su Iago, previsti nell’atto finale del testo shakespeariano.

Visto a Rubiera, presso il Teatro Herberia   il 17 marzo 2013.

UN OTELLO ALTRO
con Oscar De Summa, Armando Iovino, Mauro Pescio, Antonio Perrone
regia: Oscar De Summa
produzione: La Corte Ospitale di Rubiera
Fabio Raffo

sabato 16 marzo 2013

Un teatro in festa: Giornata per Claudio Meldolesi


Una festa a tutto tondo si terrà lunedì 18 marzo ai Laboratori delle Arti di Bologna (siti in Piazzetta P. P. Pasolini 5/b). Il centro di promozione teatrale La Soffitta dedica una giornata intera allo studioso, attore, attivista nell’innovazione teatrale e fondatore di prestigiose riviste Claudio Meldolesi.
Un coro di ricordi e interventi tenteranno di ricostruire l’esteso e profondo contributo che il Maestro ha dato nel campo teatrale e umano. Il tutto nella Giornata per Claudio Meldolesi curata da Laura Mariani con il patrocinio dell’Accademia Nazionale dei Lincei.
Saranno presenti studiosi accademici, attori, registi, colleghi e allievi che rinnoveranno la passione per il teatro e la vita, così come Claudio Meldolesi ha insegnato.
Claudio Meldolesi
Al mattino il convegno Teatro e nuovo umanesimo restituisce memorie agli ampi studi cui Meldolesi si è dedicato: approfondimenti sia sull’attore, la regia e la drammaturgia, sia studi sulle relazioni del teatro con le scienze umane, come la sociologia, la psicoanalisi, la letteratura e le arti visive. Coordinato da Marco De Marinis, vedrà protagonisti, tra tanti, Stefano De Matteis, Piergiorgio Giacchè, Gerardo Guccini, Raimondo Guarino, Paolo Puppa, Cristina Valenti.
Nel pomeriggio la Festa per Claudio Meldolesi, condotta da Massimo Marino e Oliviero Ponte di Pino, regia di Claudio Longhi, vedrà in scena artisti e allievi di teatro intervenire con contributi teatrali o memorie. Da Andrea Adriatico ad Angela Malfitano, da Marco Martinelli a Francesca Mazza, e ancora Ermanna Montanari, Damiano Paternoster, Wenting Yang e molti altri.
Una grande festa, perché

“Claudio amava festeggiare i compleanni e qui si tratta anche di un compleanno: quello dello spettacolo Negli spazi oltre la luna. Stramberie di Gustavo Modena, che lo vide dramaturg e debuttò nel marzo 1983 nella sede storica della Soffitta in via D’Azeglio. E certamente avrebbe voluto una festa per il suo pensionamento che sarebbe caduto quest’anno. È quanto faremo nel lungo pomeriggio, compiendo un rito di congedo che rispetti il suo attaccamento alla vita in tutti i suoi aspetti, anche nelle condizioni più difficili”- scrive l’ufficio stampa del Dipartimento delle Arti di Bologna.

Cronaca twitter della giornata (#meldolesiday) e diretta streaming dell’incontro saranno curate da Voci dalla Soffitta, blog di scrittura critica teatrale, nato in seno al dipartimento di Musica e Spettacolo dell’Università di Bologna e da esso indipendente, su http://vocidallasoffitta.blogspot.it/.
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h 9.30-13 | Laboratori delle Arti/auditorium
TEATRO E NUOVO UMANESIMO
convegno coordinato da Marco De Marinis

h 15-20 | Laboratori delle Arti
FESTA PER CLAUDIO MELDOLESI
TESTIMONIANZE E AZIONI TEATRALI
regia di Claudio Longhi
conducono Massimo Marino e Oliviero Ponte di Pino
INGRESSO LIBERO

Per approfondimenti inerenti alla presentazione di libri, proiezioni e mostre che si terranno durante la giornata, sempre ai Laboratori delle Arti, visita qui.

Seconda parte della Trilogia della Gioia: Ora non hai più paura


Come può il boato più ancestrale dell’uomo, di solito nascosto da un sorriso nervoso o da un rinchiudersi in se stessi, essere grande e imponente, riflesso a teatro, dove di solito ci si aspetta divertimento e svago? Un’ingombrante e metallica paura è sospesa in una scena combattuta tra drappi di blu accesi da una parte, e colori spenti  e quinte nere dall’altra. Un’astrazione talmente reale che quando finalmente la scritta cubitale ascende per dare il via all’incontro tra i corpi, anche il pubblico avrebbe voluto dire “è andata via, Ora non hai più paura”, proprio come afferma il titolo della seconda parte di Trilogia della Gioia, prodotta dal Teatro Valdoca di Cesena. L’opera è infatti inserita in un articolato progetto triennale, debuttato lo scorso 12 maggio nella chiesa del Santo Spirito a Cesena con O tu reale, scontrosa felicità.


Una drammaturgia di gessi (lasciati stridere su una lavagna) e percussioni si dipanano tra gli istinti più carnali e ancestrali, inesprimibili dalla parola poiché troppo legata al suo significato. Invece le tre attrici sul palco (Silvia Mai, Chiara Orefice, Sveva Scognamiglio) danno sfogo ai loro impulsi che potrebbero essere i nostri, si respingono  e si cercano, si amano con la naturalità animalesca del nostro essere. Una femminilità “greggia” in una danza isterica e convulsiva di rimandi e attrazioni, schiaffeggiata da una partitura musicale percussiva ed elettroacustica, scritta dal vivo da Attila Faravello, Luca Fusconi ed Enrico Malatesta. La scrittura polifunzionale si evolve come un unico spartito per corpi, suoni, luci e movimenti: sembra di essere parte integrante di un rito iniziatico in cui le attrici sono catturate da una trance attoriale atavica e, per induzione, anche il pubblico regredisce in questa estasi androgina che non si pone freni.


 Si tratta di un vortice sinergico impossibile da respingere, impossibile non restarne inglobati.
In questo magma primordiale la musica totipotente e indistinta si traduce in suoni di un’umanità che parla e in un canto flebile delle fanciulle; anche una delle tre attrici veste i piedi con degli stivali bianchi dal tacco esagerato. Potrebbe essere il segno dell’evoluzione della specie che Darwin ci ha insegnato ad accettare. Eppure il bestiale strattonarsi per amare o allontanare rimane sempre difficile da modificare se non impossibile.


 “Ora non hai più paura è incredibilmente lontano da ogni virtualità, quasi un’esortazione non solo alla vicinanza e all’abbraccio, ma a un vicendevole, umano, inaudito  portarsi in braccio”, scrive Mariangela Gualtieri. Una speranza o forse una consapevolezza di cui la drammaturga e il regista Cesare Ronconi si fanno portatori.

Visto al Teatro Pubblico di Casalecchio il 12 marzo 2013.


Teatro Valdoca
ORA NON HAI PIÙ PAURA
seconda parte della Trilogia della gioia
regia, scene, luci e costumi: Cesare Ronconi
direzione del progetto sonoro: Enrico Malatesta
con Silvia Mai, Chiara Orefice, Sveva Scognamiglio
ricerca sonora e suono dal vivo: Attila Faravelli, Luca Fusconi, Enrico Malatesta
con la collaborazione di Luciano Maggiore
macchinista: Stefano Cortesi
attrezzisti: Maurizio Bertoni, Erica Montorsi
organizzazione: Elisa De Carli con Elisa Bello
amministrazione: Morena Cecchetti
consulenza amministrativa: Cronopios

giovedì 14 marzo 2013

Un teatro in festa: Giornata per Claudio Meldolesi

Una festa a tutto tondo si terrà lunedì 18 marzo ai Laboratori delle Arti di Bologna (siti in Piazzetta P. P. Pasolini 5/b). Il centro di promozione teatrale La Soffitta dedica una giornata intera allo studioso, attore, attivista nell’innovazione teatrale e fondatore di prestigiose riviste Claudio Meldolesi.
Un coro di ricordi e interventi tenteranno di ricostruire l’esteso e profondo contributo che il Maestro ha dato nel campo teatrale e umano. Il tutto nella Giornata per Claudio Meldolesi curata da Laura Mariani con il patrocinio dell’Accademia Nazionale dei Lincei.
Saranno presenti studiosi accademici, attori, registi, colleghi e allievi che rinnoveranno la passione per il teatro e la vita, così come Claudio Meldolesi ha insegnato.
Claudio Meldolesi
Al mattino il convegno Teatro e nuovo umanesimo restituisce memorie agli ampi studi cui Meldolesi si è dedicato: approfondimenti sia sull’attore, la regia e la drammaturgia, sia studi sulle relazioni del teatro con le scienze umane, come la sociologia, la psicoanalisi, la letteratura e le arti visive. Coordinato da Marco De Marinis, vedrà protagonisti, tra tanti, Stefano De Matteis, Piergiorgio Giacchè, Gerardo Guccini, Raimondo Guarino, Paolo Puppa, Cristina Valenti.
Nel pomeriggio la Festa per Claudio Meldolesi, condotta da Massimo Marino e Oliviero Ponte di Pino, regia di Claudio Longhi, vedrà in scena artisti e allievi di teatro intervenire con contributi teatrali o memorie. Da Andrea Adriatico ad Angela Malfitano, da Marco Martinelli a Francesca Mazza, e ancora Ermanna Montanari, Damiano Paternoster, Wenting Yang e molti altri.
Una grande festa, perché

“Claudio amava festeggiare i compleanni e qui si tratta anche di un compleanno: quello dello spettacolo Negli spazi oltre la luna. Stramberie di Gustavo Modena, che lo vide dramaturg e debuttò nel marzo 1983 nella sede storica della Soffitta in via D’Azeglio. E certamente avrebbe voluto una festa per il suo pensionamento che sarebbe caduto quest’anno. È quanto faremo nel lungo pomeriggio, compiendo un rito di congedo che rispetti il suo attaccamento alla vita in tutti i suoi aspetti, anche nelle condizioni più difficili”- scrive l’ufficio stampa del Dipartimento delle Arti di Bologna.

Cronaca twitter della giornata (#meldolesiday) e diretta streaming dell’incontro saranno curate da Voci dalla Soffitta, blog di scrittura critica teatrale, nato in seno al dipartimento di Musica e Spettacolo dell’Università di Bologna e da esso indipendente, su http://vocidallasoffitta.blogspot.it/.
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h 9.30-13 | Laboratori delle Arti/auditorium
TEATRO E NUOVO UMANESIMO
convegno coordinato da Marco De Marinis

h 15-20 | Laboratori delle Arti
FESTA PER CLAUDIO MELDOLESI
TESTIMONIANZE E AZIONI TEATRALI
regia di Claudio Longhi
conducono Massimo Marino e Oliviero Ponte di Pino
INGRESSO LIBERO

Per approfondimenti inerenti alla presentazione di libri, proiezioni e mostre che si terranno durante la giornata, sempre ai Laboratori delle Arti, visita qui.

Intervista a Oscar De Summa - parte terza

F. A proposito di problemi d’identità, il fatto che tu abbia finito per fare Otello è casuale, perché all’inizio avevate un altro attore che doveva interpretare il protagonista, giusto?

O. Infatti, abbiamo avuto serissimi problemi con gli attori, che ci hanno portato infine a cambiare la struttura interna. Io dovevo essere Iago, avevo già fatto uno studio su questa figura di qualche mese, presentata poi a Napoli con successo. Invece Idris, l’attore africano del Gambia che ha lavorato con Armando Punzo, ha avuto problemi di salute; l’attore che lo ha sostituito ha avuto problemi a sua volta, e quindi abbiamo pensato che o era il ruolo a portare male oppure dovevamo modificare le relazioni nella struttura. A questo punto mi sono preso io l’onere e l’onore di affrontare questo macigno che è Otello, tutt’altro che facile. Tuttavia nel modo che abbiamo di affrontare Shakespeare, in cui la fedeltà è solo riguardo noi stessi, noi pensiamo i personaggi come ruoli fissi, come maschere, sono per noi univoci, monolitici. Quindi restituiamo Otello e Iago con poche sfumature, esattamente come vengono presentati i personaggi con le maschere. È proprio questa fissità dei caratteri a determinare delle situazioni al contempo teatrali e umane.

F. Rispetto ai personaggi-maschere, monolitici, mi è venuto in mente il momento in Amleto a pranzo e a cena del famoso monologo “Essere o non essere”, restituito quasi come puro testo: certo, in un primo momento la scelta sembra essere radicalmente anticonformistica, anche se poi il trattamento si rivela solo uno scherzo innocuo. Ci sono monologhi affrontati in maniera simile nell’Otello?

O. No, al momento non abbiamo quelli che chiamerei dei “controtempi”, ma solo delle “ossessioni”. Cerchiamo di riutilizzare l’idea dell’eco, tramite quelle che Peter Brook chiama “parole radianti”. Quasi sempre succede all’interno della tragedia che un personaggio dica una cosa e l’altro la ripeta, una struttura che poi ha ispirato ampiamente drammaturghi come Pinter e Beckett. C’è un certo punto in cui Otello dice: “Iago, mi fai l’eco?”

F. “Il fazzoletto, il fazzoletto!” Gli echi, le ossessioni sono visualizzate anche in scena, tramite un gioco evidente tra bianco e nero.

O. Infatti per rafforzare il contrasto tra bianco e nero l’idea iniziale era di usare un attore evidentemente nero, proprio perché certe cose non dette lavorano molto bene nel subconscio dello spettatore e mettono a nudo dei pregiudizi ancora molto forti, che ci impediscono di entrare veramente in relazione con altre culture. Le ombre in scena rappresentano la deformazione della realtà, la distorsione di eventi, quello che noi viviamo continuamente negli ultimi tempi. Iago fa proprio questo, e molti lo fanno con noi, non per ultimo i politici, che ci vogliono imporre il loro punto di vista, delineano una mappatura del reale per noi sicuramente limitante.

F. Direi che per concludere quest’intervista adesso spetta a te cercare di riassumere che cos’è per te Otello in un minuto.

O. “Essere ingannati davvero è meglio che averne solamente il sospetto” dice a un certo punto Otello e credo sia la verità. Si parlava prima di ombre: tutto lo spettacolo è pieno di ombre, noi abbiamo delle ombre in fondo, laterali, che si muovono contemporaneamente a quello che succede in scena. E sono ombre sempre distorte, diverse da noi, e questo è tutto quello che vive Otello e che potremmo vivere anche noi, cioè ombre terribilmente angoscianti e che ci fanno perdere il senso della realtà.

Fabio Raffo

mercoledì 13 marzo 2013

Intervista a Oscar De Summa - parte seconda

F. Nell’Amleto questa formula della commedia dell’arte riesce a trovare più facilmente una sua ragion d’essere grazie all’elemento di metateatralità insito nel dramma. Nell’Otello siete comunque riusciti ad applicare questo modello in generale sul dramma, così come avete fatto con Amleto?

O. No, infatti il modello non è simile. Verificando il materiale scritto nel momento della messa in scena, ti accorgi che, mentre l’Amleto ha questa struttura di scatole cinesi, che serve al fine del dramma di far perdere al lettore il senso della realtà, così com’è successo ad Amleto, nell’Otello invece abbiamo trovato una struttura apparentemente più lineare, ma vorticosa in alcune situazioni specifiche. Ciò non toglie che al suo interno ci sono dei momenti da commedia dell’arte, a cui sicuramente Shakespeare ha pensato. Per esempio all’inizio del testo la scena di Iago e Roderigo ricorda il modello della scena dello zanni e dell’innamorato, sotto la casa di Pantalone.

F. Quello che dici rispetto alle due strutture così diverse dell’Amleto e dell’Otello mi fa pensare allo spettacolo dell’Amleto a pranzo e a cena. In esso i continui scambi di ruolo, i passaggi da un personaggio all’altro, le entrate e uscite dallo sfondo arazzo scandivano un ritmo rapidissimo e vorticoso, dove solo Armando Iovino impersonava un unico ruolo, Amleto. Invece nell’Otello, che definisci più lineare, siete due attori a interpretare un solo ruolo, tu impersoni Otello e Armando è Iago.

O. Anche questa è una differenza rispetto all’Amleto che abbiamo trovato nel momento delle prove. Noi stessi credevamo di mantenere un solo ruolo fisso, come abbiamo fatto in Amleto, per cui Amleto è il depresso che trova un’eco quanto mai contemporanea, in realtà in Otello abbiamo incontrato due personaggi maggiori, Otello e Iago. Mentre è stato possibile dare una valenza diversa, cangiante agli altri personaggi, per Otello e Iago non abbiamo potuto fare a meno di mantenerli intatti fino alla fine. Come se fossero due facce della stessa medaglia, come hanno detto molti studiosi dell’Otello, tra cui Alessandro Serpieri: in realtà Iago è contenuto in Otello. Cioè è quella parte di noi che ci suggerisce l’inganno, anche quando l’inganno non c’è. Gli altri personaggi invece entrano ed escono tutti velocemente dalla storia, così come gli attori entrano ed escono velocemente dai personaggi, esattamente come succedeva nell’Amleto.

F. Quindi arrivate a fine spettacolo completamente esauriti, immagino. Visto anche tutti i movimenti tecnici...

O. Normalmente sì. Più che altro alla fine abbiamo seri problemi d’identità.

(segue...)

Fabio Raffo


lunedì 11 marzo 2013

Intervista a Oscar De Summa - parte prima


Fabio Raffo: Nell’Amleto a pranzo e a cena sottolineavi a inizio spettacolo che quell’anno erano usciti ben undici spettacoli sull’Amleto. Vista l’abbondanza di spettacoli shakespeariani, anche di Otello, nel teatro italiano, perché è importante per te fare Otello ora?

Oscar De Summa: Sicuramente c’è una questione molto pratica e legata all’economia, ovvero brutalmente la vendita dei titoli. In Italia c’è una difficoltà a vendere la nuova drammaturgia, perché non è stimata affatto, non è comprata dagli operatori di teatro e non è vista dagli spettatori. Quindi è molto più facile per il mercato poter immettere uno Shakespeare, un Molière, un Pirandello, un Goldoni. Però spesso, come succede negli ultimi trent’anni a teatro, un regista vende uno spettacolo, ad esempio Amleto, e poi fa come vuole, no? Da un altro punto di vista possiamo dire anche che quando uno lavora su Shakespeare, sull’Otello in particolare, deve individuare su di sé le motivazioni che ci portano ad essere falsi, a volere il male, a voler distruggere la bellezza. Viviamo in un mondo dove la bellezza viene distrutta costantemente, per il gusto stesso della distruzione, ma forse questa è una divagazione filosofica. Riassumendo, puoi prendere un testo a caso di Shakespeare e dentro ci trovi tutto, e forse è questa la bellezza che non può essere distrutta dei classici.

F. Certamente la motivazione pratica è stringente; in precedenza hai fatto lavori di natura completamente diversa, come il tuo Chiusi gli occhi.

O. Sì, io faccio uno spettacolo per cassetta, Shakespeare o un classico, poi una nuova drammaturgia, poi un classico, e così via, perché i mercati sono diversi: i mercati della nuova drammaturgia non ti permettono di sopravvivere, mentre i classici sì, magari fatti in un certo modo, sottolineandone l’aspetto comico e ricavandone la possibilità di entrare in contatto diretto con il pubblico. Questo è quello che mi piace, questa è la mia idea su come rendere attuali i classici.

F. Quest’ultimo aspetto sicuramente consente di dimostrare come in realtà il lavoro sull’Amleto prima e sull’Otello poi non abbia avuto esclusivamente una motivazione economica, ma anzi come nei due testi siate riusciti a trovare questa chiave comica, quest’idea originale di lavorare sugli stilemi della commedia dell’arte, con anche riferimenti all’attualità.

O. Per quanto riguarda l’Amleto a pranzo e a cena, più che parlare dell’Amleto noi in realtà abbiamo messo in scena una compagnia di commedia dell’arte che mette in scena un Amleto, all’interno del quale a sua volta si assiste all’arrivo dei comici che mettono in scena una tragedia. In sintesi, un complesso gioco di scatole cinesi. La nostra idea era quella di riproporre a nostro modo una delle particolarità del teatro italiano, la commedia dell’arte, ovvero la capacità di entrare in un rapporto diretto con il pubblico e al contempo anche il rischio dell’impresa economica. I commedianti dell’arte mettevano i soldi, tiravano su una compagnia, cercavano di accontentare il pubblico, ma ogni tanto riuscivano a distillare qualche goccia di poesia, e così facciamo noi, questa è l’idea di base. Ci è anche sembrato anche un modo di rendere evidente e rispondere a una crisi emergente e devastante, soprattutto nell’ambito teatrale. Dopo Amleto abbiamo cercato di mantenere la formula dal punto di vista della realizzazione, pensando agli attori come autori, o come diceva Leo de Berardinis, come jazzisti che fanno una jam session. In questo modo ci sentiamo molto più vicini agli spettatori, forse lo siamo meno rispetto ai nuovi operatori di teatro.
(Segue…)



domenica 10 marzo 2013

Il suono dell’Anima: le cinque voci di Carne Trita


Un tacchettio rapido e affannoso irrompe nel buio pesto della piccola sala InterAction dell’Arena del Sole, lasciando trapelare la presenza di figure sul palcoscenico dai movimenti piuttosto disordinati. La luce, poi, ne rivela l’identità: quattro donne (Irene Russolillo, Alessandra Moretti, Giselda Ranieri e Maria Francesca Guerra) e un solo uomo (Fabio Pagano), dai costumi privi di particolare caratterizzazione, sono pronti a trasformare il consueto pubblico di spettatori in uno di uditori. Difatti, l’intera messinscena non prevede alcun dialogo o monologo. Le parole cedono il posto ai vagiti, alle urla, alle intonazioni di canto lirico e gli attori mutano la propria essenza sino a diventare puri strumenti concertistici.


Il filo rosso che lega l’intera vicenda è la vita quotidiana: le più consuete azioni del risveglio mattutino, sbadigliare e stiracchiarsi, vengono spettacolarizzate in una danza di blocchi corporei, pause della voce ben marcate e intensa espressività mimico-facciale. Poi è lo spavento a far da padrone sulla scena, manifestato superbamente dalla modulazione delle urla in tono acutissimo; ne conseguono dei gargarismi, emblema di quel bigottismo tipico della società contemporanea.
La bocca delle attrici lascia spazio anche alla sensualità, che si ravviva nelle tinte scarlatte del rossetto, accuratamente enfatizzato da una posa plastica che susciterebbe l’invidia persino della tanto amata Betty Boop. L’unico personaggio maschile fa il suo ingresso in scena attraverso dei passettini quasi impercettibili, pari a quelli di un automa, accompagnato dal canto lirico delle compagne che rimanda l’ascoltatore più esperto alle suggestive melodie del quartetto delle Faraualla.
Improvvisamente l’apparente pacatezza dei suoni e dei movimenti si altera, catapultando lo spettatore in una sorta di anime giapponese: Fabio si muove per tutto il perimetro del boccascena assumendo diverse posizioni di karate; Irene lo insegue, bisbigliando parole insensate; le altre tre donne danno vita a una danza forsennata dal sapore spagnoleggiante, parodia del flamenco andaluso. Solo una deliziosa canzonetta riesce a raffreddare l’esagitata atmosfera animata dai cinque personaggi, i quali si raggruppano gradualmente nell’estremità sinistra del palcoscenico e, attraverso una lenta e ancheggiante camminata, coreografano la falsità: sono sufficienti, infatti, tre passi in avanti per mutare lo stato d’animo delle attrici, che sciolgono il sorriso ammiccante da ragazza pin-up nel più isterico pianto di rassegnazione, per poi tornare alla fallace allegria.


In questo squarcio di quotidianità, che il genio creativo di Roberto Castello ha saputo portare in scena magistralmente, c’è ancora spazio per la voce e per la danza: nel lato destro del proscenio le ragazze si muovono in maniera rigida e di scatto, intervallando suoni gutturali di acida parvenza inquisitoria a vere e proprie dissociazioni di ogni singola parte del corpo. Le pause di questa robotica coreografia sono scandite da vigorosi «wow!», che vengono sopraffatti, dapprima, dalla fragorosa risata di Alessandra e poi da un’ennesima composizione coreutica a cui partecipano tutti i personaggi, che si contorcono in un mix di contrazioni muscolari e gestualità interrotte.
Il ritratto perfetto delle più recondite intimità viene completato dagli istinti primordiali, che tengono ben saldo il legame con il mondo animale da cui proviene il genere umano intero: il maschio regredisce allo stato di scimpanzé saltellante e le femmine non hanno pudore nel mostrare la tanto temuta quanto celata natura di serpi velenose.
Il confine tra essere e apparire è ormai labile e, dunque, Roberto Castello lascia allo spettatore la totale facoltà d’addentrarvisi, cullandolo con la flebile armonia di una nenia malinconica che accompagna la calata del sipario delle tenebre.

Visto il 13 febbraio 2013 all’Arena del Sole – Sala InterAction.

Marco Argentina

giovedì 7 marzo 2013

Magnifico Teatrino Errante: il nuovo maestro dell'integrazione


BOLOGNA-I primi raggi di sole sfiorano stupefatti il Magnifico Teatrino Errante (MTE), una compagnia teatrale composta da attori disabili e non, la cui voglia di “errare” li ha impossessati da due anni, in occasione dellla Part Tòt bolognese, senza più soste.
Assistiamo a un nuovo “work in progress” per una nuova produzione: La variabile casuale, uno spettacolo col naso rosso, la terza produzione dopo Anche l'occhio vuole (2012), e Il peso dell’elefante (2013).


Il laboratorio coordinato da Valeria Nasci fa parte del progetto Diversamente Bologna approvato dalla Provincia di Bologna per la rete dei Teatri Solidali, è arricchito da esperti esterni che hanno lavorato - e alcuni di loro lavorano ancora - sulle più ampie possibilità del teatro. Maria Grazia Bazzicalupo si è occupata di Teatro Urbano; Paola Palmi di Teatro e Danza; Manuela Ara di Clownerie; Ottomani Laboratori  ha condotto un Laboratorio Cinema di animazione.
Tuttavia le attività  non finiscono qui!
Dal 6 aprile parte la rassegna Nuovi Maestri inserita nel progetto Teatri Solidali di Bologna, interamente organizzata dal MTE.
"Lo scopo è quello di ridurre l’emarginazione e l’isolamento delle persone disabili, per promuovere l’integrazione sociale tra persone che vivono uno svantaggio e persone interessate ad entrare in stretto contatto con loro e che non vivono quel disagio, attraverso un progetto artistico"– scrive la regista.
I maestri in questione sono Alberto Grilli (regista del Teatro Due Mondi, Faenza), Pietro Floridia (ITC San Lazzaro), Alessandro Garzella (Animali Celesti/teatro d’arte civile), Massimiliano Buldrini (T.I.L.T.) e Marina Mazzolani (ExtraVagantis), Patrizia Menichelli (Teatro de Los Sentidos, Barcellona), Gruppo Elettrogeno, Horacio Czertok (Teatro Nucleo, Ferrara), il Coordinamento Teatro e Carcere dell’Emilia Romagna, Davide Marzottinocci (Teatro Metamorfosi, Roma) e Suzana Zlatkovic (Teatro Buffo).


L’iniziativa propone cinque workshop pratici ogni sabato pomeriggio, rivolti anche a chi non ha competenze teatrali pregresse, senza obbligo di frequenza a tutti quanti. Si lavora per tre ore intense con un regista di importanza nazionale e alla sera vengono aperte le porte alla cittadinanza per confrontarsi sui temi dei labpratori: carcere, psichiatria, disabilità, immigrazione e cecità.
(Per approfondimenti e iscrizione: http://magnificoteatrino.wordpress.commagnificoteatrino@gmail.com)
Nel frattempo, per assaggiare un pizzico di brio della compagnia, MTE  propone una performance in occasione della festa della donna, “per omaggiare tutte le fatiche che le donne compiono quotidianamente sia nel piccolo che nel grande delle loro vite”: Il peso dell’elefante con Annalisa Frascari, Mariagrazia Bazzicalupo, Valeria Nasci. Musica dal vivo di Mirco Mungari.
Entrata libera. A seguire sarà offerto un piccolo rinfresco.
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IL PESO DELL’ ELEFANTE
con Annalisa Frascari, Mariagrazia Bazzicalupo, Valeria Nasci


8 marzo 2013  – h. 20.45
La Stalla, via Garavaglia, 5 - Bologna
per info: magnificoteatrino@gmail.com







martedì 5 marzo 2013

Il vero Amore secondo Dave St-Pierre

Carnalità, realtà e passione: sono queste le tre parole-chiave di Foudres (Création 2012).
Un Monte Olimpo modernizzato, popolato da individui alati maschili e femminili marcatamente distinguibili attraverso il “costume” del nudo integrale, non ha nulla di etereo e pacato. Anzi, l’umanità degli abitanti è feroce e non concede alcuno spazio ai sentimenti: i due veri protagonisti dell’azione scenica (una coppia d’innamorati) sono tenuti in ostaggio, imbavagliati con nastro adesivo nero e confinati negli angoli estremi del proscenio.
In un gioco di personificazioni dei più disparati luoghi comuni della società, i “Cupidi” si fanno beffe dei prigionieri rivestendoli con abiti da Gran Ballo e impartendo lezioni di bon-ton parodiate, fino a quando un cambio di scena inaspettato destabilizza completamente il quadro performativo.
Sette grandi tavoli da lavoro, ricoperti da un cuscino nero, costituiscono il palcoscenico di un teatro dell’innamoramento e degli animosi turbamenti che ne conseguono. Le danzatrici, sbattendo violentemente sulle piattaforme, e i ballerini, aggrappandosi ai quattro piedi, coreografano quel love is suffering shakespeariano all’urlo di «This is Heart in falling love!».
Il crescendo dei tonfi rimbomba nella piccola sala di Teatri di Vita fino a confondersi nelle note drammatiche di un pianoforte, graffiate dalle vibrazioni di un sintetizzatore, che accompagnano il passo a due affannosamente virtuosistico degli ex prigionieri. Un crogiolo di rincorse, prese ed energie infiamma i loro corpi, ostinati nel perpetuare la passione che li impregna.


Ancora una volta, però, qualcosa decide di smorzare la folgore del puro erotismo: guerrieri ultra-terreni, dalle lugubri “armature” succinte e minimaliste, aggrediscono la scena con la furia di una mandria, ingentilita dalle parodiche imitazioni degli esercizi alla sbarra, tipici della danza classica, e spettacolarizzata dalle acrobazie della breakdance e dalle giravolte della capoeira.
Questo caos che spadroneggia sulla scena all’incalzare della musica tribale, intervallata da sirene e boati d’allarme, lascia spazio anche a brevi momenti d’insieme coreografico, dove i danzatori, purtroppo, mostrano qualche diseguaglianza nella coordinazione dei movimenti e dei ritmi.
Improvvisamente il buio zittisce il pandemonio ed un occhio di bue squarcia la quarta parete dell’invisibile boccascena per introdurre il monologo disperato del protagonista: un uomo nudo con un mazzo di rose bianche in mano scivola su di un fluido rossastro e dichiara al Mondo l’immensità del suo Amore, sfatando tutte le convenzioni. La sua amata lo ringrazia raccogliendo i petali sparpagliati nella pozza scarlatta del “sangue” della passione e, al contempo, ripulendoli con lacrime di rassegnazione.
Il dolore della donna è corollato dall’indifferenza degli altri personaggi, che si apprestano ad effettuare il successivo cambio di scena: una fila di seggiole disposte in semicerchio dà il benvenuto all’interno di una riunione di “Angelisti Anonimi”, aperta a qualsiasi partecipante.
Dalla platea viene selezionato un uomo per interagire nell’azione scenica, che si svilupperà in un’esplicita celebrazione del sesso, prima sotto forma di lezione d’anatomia poi attraverso la simulazione di un rapporto sessuale vero e proprio con una bambola erotica gonfiabile.
Quando tutto sta per sfociare in un rito orgiastico, un tuono ristabilisce l’equilibrio nelle menti lussureggianti e re-indirizza lo sguardo dello spettatore verso il fulcro della rappresentazione: i due giovani amanti, ormai nudi, insozzati e stanchi rantolano per il palcoscenico come belve in cerca di una tana.
L’epilogo della Guerra tra il Male e l’Amore si sta compiendo e la coppia d’innamorati, forse l’ultima rimasta sulla Terra, forse diretta discendente di quella originaria dell’Eden, ne è uscita vittoriosa. Ed è un tenero abbraccio a suggellarne il festeggiamento, a dimostrazione di quanto la dolcezza di un sentimento possa surclassare qualsiasi avversità.

Visto il 12 febbraio 2013 a Teatri di Vita (Bologna)

Marco Argentina

domenica 3 marzo 2013

Diario di bordo per Un Otello altro - seconda parte. Le prove


“Il fazzoletto, il fazzoletto!” L’ossessione di Otello viene materializzata tramite il passaggio veloce del fazzoletto e la sua continua presenza in scena anche in versione gigante, telo bianco-telo nero, anch’essi volteggianti. Il gioco allude chiaramente al contrasto tra il bianco e il nero, uno dei temi principali dell’opera shakespeariana, così come sono neri gli stivali lucidi degli attori, e le ombre, proiezioni della gelosia folle di Otello, dietro allo sfondo bianco.

Bozzetto registico di Oscar De Summa

 In questo caso la tragedia nel suo complesso è rispettata, anche se traspare il ritmo frizzante e spiritoso come nel precedente Amleto a pranzo e a cena: «Abbiamo lavorato su Shakespeare convinti di poter riutilizzare anche la sua profonda conoscenza e riutilizzo degli stilemi della commedia dell’arte» osserva il regista Oscar De Summa in occasione delle prove. È questa suggestione che porta il regista a prendere il testo in alcuni casi contromano, con riferimenti anche all’attualità: «[…]questo è il testo shakespeariano in cui più nettamente si ripresenta una situazione di teatro medioevale: il diavolo (qui individuato in Jago) prende al laccio, al di là delle nostre forze, il corpo e l'anima. Ma contemporaneamente possiamo leggere in quest'opera l'opera più contemporanea di Shakespeare proprio perché il dramma è tutto personale e privato». Altri dettagli? L’esperienza diretta è ideale: prima a Brescia il 5 marzo, replica il 17 a Rubiera.

Fabio Raffo

Vignetta del mese: Karamazov di César Brie


Edoardo Pitrè