La recensione
Gianfranco Berardi alla ricerca di “Land
Lover”
di Josella Calantropo“Ti invito al viaggio, in quel paese che ti somiglia tanto” scriveva prima Baudelaire e poi cantava Battiato. Gianfranco Berardi quel viaggio lo mette in scena nella sua Land Lover.
Un prete dalla dubbia morale, un uomo d’affari, una
signorina attempata e un transessuale si ritrovano tutti in fila davanti a un
sogno: dov’è la terra dell’amore? Dov’è la felicità? Da quale parte bisogna
andare? Con chi bisogna parlare? Domande emblema di un’epoca, la nostra, che
vuole provare tutte le emozioni senza essere però attraversate da nessuna di
esse. Amare senza essere toccati. Ma con queste premesse, c’è possibilità di
trovare la terra dell’amore?
Una commedia dai toni sospesi, con quattro
personaggi dai tratti decisi, un ritmo che richiama il miglior De Filippo e un
corpo quello di Gianfranco Berardi che catalizza l’attenzione. Una presenza
scenica potente, che tiene con il fiato sospeso lo spettatore. La sua figura
magra, scarna e alta si muove con sicurezza controllata; i suoi occhi strambi -
che non vedono ma che hanno imparato a guardare - restituiscono alla
scenografia delle immagini che diventono drammaturgia.
Si inizia con l’uomo d’affari che sta per perdere un
volo diretto a Land Lover. Una volta atterrati si fa immediatamente la conoscenza
di uno strano personaggio sulla sedia a rotelle ma che si spinge da solo con l’aiuto
delle gambe. Trascina dietro di sé un carrettino-bancarella-altarino. Al centro
in bella vista la statua della Madonna contornata da fiori finti, candele e
santini di ogni sorta; attorno maglie delle squadre di calcio, souvenirs del
posto e cartoline. Questo apparato mobile che si aggira sul palco è la sintesi
di un modo di concepire la religione come amuleto, come arte magica che ha per
seguaci bigotti e superstiziosi. Questa immagine così forte sembra provenire
direttamente dal sud Italia, terra di origine dell’autore e attore, e attorno a
questa ruota tutta la prima parte della piéce.
La storia dopo continua in un night club, il Paradise, con ballerine, pali per la lap
dance, mascherine erotiche e boa di piume per creare l’ambiente di perdizione. Eppure
è proprio qui che il protagonista sfiora l’amore. Che immagina un matrimonio e che
per un attimo crede di poter essere felice. Un’altra immagine, in questa
seconda parte, diventa sintesi e drammaturgia: un grande cuore proiettato sullo
sfondo e i due innamorati vestiti da sposi che mano nella mano camminano spalle
al pubblico. Un disegno che ricorda le vignette Love is… degli anni ’70.Ma il buio avvolgente e ingannatore della sera fa posto alla luce razionale dell’alba. Il transessuale viene strappato al sogno e restituito al presente. È così che inizia la fine della commedia dai toni sommessi. Il protagonista viene mollato da quello che aveva creduto essere il vero amore. È costretto a dare ragione al prete-santone che lo aveva avvisato. Ma dopo un breve attimo di scoramento accasciato su una sedia, si alza deciso e prende la via dell’uscita a testa alta come a dire: “non mi arrendo, da qualche parte l’amore esiste, non so bene dove, ma c’è!”.
“Io provo a volare. Omaggio a Domenico Modugno”: Berardi, magnifico istrione, incanta il pubblico del Dms
di Rossella Menna
È un omaggio alla rovescia, quello annunciato dal titolo dello spettacolo di Gianfranco Berardi in scena ai laboratori Dms: Io provo a volare. Omaggio a Domenico Modugno. Una dedica al contrario perché è rivolta a tutti i giovani artisti che, come il cantautore pugliese, lasciano le periferie del sud per inseguire un sogno, con un bagaglio di mani callose e di passione ma che, a differenza del Mimì nazionale, in quelle terre meridionali ci tornano senza gloria, con un pugno di mosche e tanta disillusione.
Immersi nel tepore nostalgico delle melodie di Modugno, interpretate dal vivo dalla corposa voce su chitarra classica di Davide Berardi (fratello di Gianfranco), accompagnato dalla fisarmonica di Giancarlo Pagliara, gli spettatori assistono al viaggio a ritroso di un giovane custode di un cinema di periferia che sognava di fare l’attore.
Appare come un fantasma, Berardi, a piedi nudi, pallido in volto, con una scopa alzata al cielo in una mano e una candela accesa nell’altra. Tra un “Vecchio Frac”, e una “Malarazza”, l’attore pugliese, solo in scena insieme ai musicisti, resuscita immagini del passato, ripescando negli anfratti della memoria l’arrivo al piccolo cinema-teatro, i monologhi solitari a luci spente nel teatro vuoto, l’incontro coi dischi di Modugno, la decisione di partire per tentare la via del successo, le fatiche dell’accademia di recitazione e le porte sbattute in faccia.
Un vero diamante attorico, incastonato tra tante altre pietre preziose, il monologo che racconta l’avventura circense del giovane. Con un crescendo comico magistrale lo si vede accettare, a malincuore, l’incarico di travestirsi da scimmia per sostituire un animale vero, e finire dritto dritto nella gabbia dei leoni, dove scopre, con sollievo e amarezza insieme, che quei corpi pelosi nascondono altri attori diplomati in accademia.
Umiliato e deluso dal mondo metropolitano, il giovane, carico, com’era partito, di una giacca e una chitarra, sale su un treno per tornare al paese, dove scopre che il cinema teatro di cui era stato custode è stato ristrutturato, per convenienze politiche, ma che non sarà mai calcato da nessun artista. Vedere o non vedere? Guardare in faccia la realtà o voltarsi da un’altra parte? Berardi sceglie di spalancarli quegli occhi, e così, giorno dopo giorno distrugge quel teatro destinato a non vedere mai nessun Amleto.
Io provo a Volare è la feroce satira di “una Repubblica fondata sullo stage”, di un’Italia che mortifica il valore dei suoi giovani, di un paese in cui c’è sempre qualcuno pronto, con una fionda, a spezzare le ali di chi prova a innalzarsi in volo. Ma è anche il racconto dell’Italia di chi, nonostante tutto, non si arrende e non si volta dall’altra parte.
A smorzare ogni rischio di retorica c’è lui, Berardi, che riempie la storia della sua presenza fisica, che incarna con i suoi occhi sgranati e lucenti la cieca fiducia di chi prova a volare sostenuto dall’ottimismo della giovinezza.
Poggiandosi su una tessitura di parole in rima, acrobazie verbali e luoghi comuni, Berardi sprigiona un’energia magnetica che avvolge e stordisce il pubblico. Sulle tracce del linguaggio fisico tipico di Totò, l’attore accompagna ogni parola con un’espressione, un movimento, un gesto, che pur senza imitare direttamente la realtà la riproducono nella sua sostanza. Volteggia elegante, si tuffa nel vuoto, casca, si rialza, disegna con le mani nuovi significati. I suoi arti esili e svelti catturano l’aria facendola vibrare continuamente, segnano lo spazio in ogni punto, lo conquistano a ogni moto.
La solitudine scenica è senza dubbio la dimensione perfetta dell’attore pugliese. A Confermarlo, un lungo e fragoroso applauso finale.
di Rossella
Menna
Il suo libro si
intitola “Viaggio per amore” e raccoglie testi che parlano d’amore, appunto,
sebbene in molte forme diverse. Perché affrontare un tema già tanto trattato?
Perché
il problema è che se ne parla tanto, ma in realtà non c’è abbastanza amore! E
invece ne avremmo tutti bisogno. Io parlo per me, in primo luogo. Ma mi piace
trovare dei punti autobiografici che possano legarsi a qualcosa di universale,
che possano risuonare negli altri. Ho scritto Land Lover, per esempio, dopo una serie di viaggi a Cuba, in
Thailandia, in India, dove ho trovato un mondo aperto al turismo sessuale.
Andando più a fondo, però, ho scoperto che dietro le maschere di quell’ambiente
ci sono persone che hanno un grande bisogno di tenerezza. Mi interessava quindi
raccontare l’umanità che si nasconde dietro quelle maschere, dietro quegli
stereotipi e le dinamiche che si creano tra esse.
Infatti nel
finale di Land Lover queste maschere
cadono...
Esatto!
Perché noi lavoriamo sempre su un filo sottile tra persona e personaggio. Dietro ogni maschera c’è un uomo che ha un
cuore e dei sentimenti e che ha bisogno di una carezza, di un gesto di tenerezza. Anche
dietro i più grandi ricercatori di sesso o di Dio ci sono persone che cercano,
in fondo, delle certezze, qualche cosa che le faccia star bene. Nel caso di Land Lover lo cercano nella Terra
dell’amore. Una definizione provocatoria, ovviamente, perché dov’è l’amore?
Quell’amore disinteressato, inaspettato, mai scontato, imprevedibile, in realtà
lì non c’è o comunque non lo trovano.
A proposito
sempre di Land Lover, una delle
immagini più significative è quella dell’altarino-carrettino che si trascina dietro
padre Pedro. Un elemento pittoresco che
fa pensare al sud, alla sua terra d’origine magari.
Sì,
ma ricorda anche il mondo sudamericano o quello orientale legato agli altarini.
Noi abbiamo deciso di mettere la statuetta della madonna perché culturalmente
ci appartiene di più, ma di altarini così, con Buddha per esempio, ce ne sono
tantissimi nei paesi orientali.
Infatti
siamo stati in bilico a lungo perché durante le improvvisazioni era venuta
fuori l’idea di un prete dal lato oscuro, simile al mago Thelma. Un tipo
truffaldino insomma. Ma poi abbiamo preferito evidenziare il lato positivo,
umano, di questo prete che, nonostante alla fine miracoli non ne faccia
veramente, per noi è una persona sincera, che cerca di fare del bene e crede in
ciò che fa. Però sì, è un bazar, perché dietro il sentimento puro ci può essere
sempre il commercio in agguato! Ma il fatto che il mondo sia diventato un
mercato a cielo aperto non vuol dire che non esista gente che faccia le cose
per bene, credendoci sinceramente! Ecco perché io continuo a tifare per i preti
che esercitano per vocazione come per i teatranti che fanno con passione e con
amore il loro lavoro.
Ha parlato poco
fa di improvvisazione. I suoi testi, quindi, nascono sulla scena?
Ogni
spettacolo ha un processo diverso di composizione. Nel caso di Land Lover, sono nati prima dei personaggi,
una traccia insomma. Poi, con gli altri abbiamo indagato e riflettuto sul tema dell’amore.
Da questo scambio di idee io ho tirato fuori un canovaccio, una prima stesura
del testo. Una griglia in cui ognuno ha successivamente inserito nuovi spunti
per rendere al meglio il proprio personaggio.
I personaggi, in
effetti, sono caratterizzati moltissimo.
E
pensi che il santone, per esempio, nella mia scrittura parlava il dialetto
tarantino. E invece è arrivato in scena come siciliano e funziona anche
così! Non è vero quindi che la
drammaturgia contemporanea funziona addosso solo a chi la scrive. Bisogna
trovare dei punti di appoggio per renderla propria. Se un testo funziona,
funziona con chiunque.
I lavori della
compagnia Berardi-Casolari hanno il pregio riconosciuto di saper coniugare
ricerca e fruizione popolare. In cosa consiste esattamente la vostra ricerca?
È
una ricerca umana e artistica insieme. Un artista è un uomo prima di tutto. E
quindi la ricerca artistica va di pari passo alla messa in discussione dell’uomo.
Se, come persona, non hai il coraggio di metterti in gioco, non puoi cercare
nulla di nuovo. Io, in realtà, mentalmente, prima di mettermi al lavoro su un
nuovo spettacolo, penso sempre di fare cose simili a quelle già fatte in
precedenza perché magari hanno funzionato. Poi quando entro in scena l’istinto
mi porta da tutt’altra parte.
E dal punto di
vista formale che tipo di lavoro vi interessa svolgere?
Ci
piace usare le strutture classiche del teatro usando però dei linguaggi nuovi,
contemporanei. Ma non nel senso di “avanguardia”. Contemporanei perché al passo
coi tempi. Oggi fare Pulcinella o Shakespeare non ci risuona, non ci interessa.
Insomma, la nostra è una ricerca che unisce ricerca di codici e linguaggi alle
necessità del momento. Quando ho scritto Land
Lover, per esempio, io ero alla ricerca del miracolo a causa della vista
che avevo perso. E così ho sentito il bisogno di fare uno spettacolo sul perseguimento
cieco di un obiettivo, che sia il miracolo come la storia d’amore. Una cecità
metaforica che ti porta a sbattere dritto contro un muro.
L’esito di
queste ricerche cocciute è negativo quindi?
No,
mai! Anche andare a sbattere contro un muro va bene. La vita ti dà sempre gli
schiaffi di cui hai bisogno. Se hai la capacità di sfruttare l’opportunità che
c’è nell’esperienza negativa che ti capita, puoi fare un bel passo in avanti.
Io ho perso la vista a diciotto anni e mezzo. E sono arrivato a fare teatro, perché
mi sono rifugiato in una maschera che mi ha permesso di fare quello che mi
piaceva. Ma a un certo punto, però, quella maschera deve venir giù, altrimenti
sei sempre un rifugiato che gode della sua posizione di vittimismo e non deve
essere così. La maschera serve per affrontare il problema, poi dopo devi
diventare naturale.
Nei suoi lavori
ci sono quasi sempre individui soli. Lei però, piuttosto che scavare nella loro
individualità, preferisce lavorare sui rapporti, sulle dinamiche di incontro,
sugli incastri...
Sì,
perché lo specchio della solitudine si manifesta nel rapporto! E
poi a me e a Gabriella (Casolari, ndr) piace molto indagare le dinamiche
metaforiche della cecità. I personaggi di Land
Lover rappresentano proprio quattro esempi di cecità: ognuno va dritto per
la sua strada convinto di perseguire la verità assoluta. È giusto perseguire i
propri obiettivi con forza, però bisogna anche dare retta all’intuito. Dentro
ognuno di noi c’è una vocina che aiuta a prendere delle decisioni. Bisogna, ogni tanto, chiudersi occhi e
orecchie, accecarsi, guardarsi dentro per chiedersi: “E ora dove vado?”. Quella
vocina ti suggerirà sempre qualcosa. È una questione di equilibrio tra il
dentro e il fuori.
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