Nella sala Interaction dell’Arena del Sole la scena è già aperta. Mentre il pubblico prende
posto sono già ben in vista alti muri di cemento armato che ricordano quelli
esterni di un carcere di periferia. Tavoli e sedie sono allineati come in un
parlatoio. Si comincia con Il discorso
della montagna. Un gruppo di donne è venuto in visita a trovare i propri
uomini: mariti, figli, fratelli. Le guardie non sembrano farsi scrupoli. Le
loro maniere non sono esattamente quelle di chi vuole mettere a proprio agio
chi ha già un fardello da sopportare. La scena si apre con una quotidianeità
che sembra ripertersi sempre uguale ogni volta. Le donne sanno già che dovranno
subire le angherie delle guardie prepotenti. Ma l’assurdo è una piccolissima
regola dettata dal potere: in quel luogo non si può parlare il linguaggio della
montagna, si deve parlare con la lingua della città. Bisogna poter controllare
i discorsi privati per garantire la sicurezza. Ma una donna anziana in vistita
da suo figlio non riesce ad aprire bocca, non riesce a parlare, vorrebbe dire
ma non può, sa usare solo il suo dialetto e questo non va bene. E se anche alla
fine cambiassero le regole, cosa ci sarebbe da dire difronte a un figlio
ammanettato e in preda alle convulsioni?
Si continua con Il
bicchiere della staffa. È la storia di un folle interrogatoio. Un uomo alla
scrivania provoca con domande che non portano a niente un altro uomo seduto al
centro della scena con il volto insanguinato e pieno di lividi. Sono domande
che servono solo a capire la personalità di chi le pone, non sono domande fatte
per creare un dialogo. Non servono per ascoltare l’altro. In compenso si
possono udire da lontano le urla strazianti di una donna, moglie del
prigioniero, che viene violentata e picchiata. Tutto quel blaterare della
guardia-potere viene sopraffatto dal silenzio del carcerato e dalla sua
espressione di impotenza.
E si conclude con Party time. Una serata con musica spasmodica, gente ben vestita,
faccie sorridenti, bicchieri in mano che gesticolano frasi fatte. Una festa da
palazzo. Con il potere militare che va a braccetto con quello politico e tutti
vanno d’accordo con ballerine e soubrette. Un ambiente finto, fatto di apparenze.
Personaggi che presi a parte manifestano tutte le loro paure, insicurezze e
scheletri nell’armadio che non li fanno dormire. Ma the show must go on quindi è meglio affogare tutto nel
whisky e condire con qualche tiro di coca.
Per il decimo anno consecutivo il progetto di Nanni
Garella prosegue nel suo scopo: coniugare il lavoro artistico con il lavoro nel
campo della salute mentale. «Il vissuto
della sofferenza psichiatrica – afferma
il regista – si versa nei personaggi teatrali e nelle opere come una linfa
vitale; problematica, dolorosa, rischiosa, ma pronta a trasformarsi in pura
gioia estetica e in realistica rappresentazione della realtà. La dimensione
della vita quotidiana di milioni di persone emarginate e sofferenti, quella
relegata fuori dai circuiti dell’arte e del teatro della società di oggi, è
piena di racconti, di sogni, di progetti. Usarli come materia di studio e
portarli sulla scena è il nostro obiettivo».
Josella Calantropo
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