mercoledì 23 novembre 2011

Tre atti unici di Pinter messi in scena da una folle compagnia: Nanni Garella e i suoi attori

Un parlatoio dove non si può parlare, un “dentro” che sembra un “fuori”, una festa che sembra un funerale, una giustizia fortemente ingiusta. Sono il Linguaggio della montagna, Il bicchiere della staffa, e Party time,  tre atti unici di Harold Pinter: genio dell’assurdo, del paradosso, di una quotidianità mostruosamente ripetitiva, di spazi chiusi che soffocano e che mai consolano e di uomini e donne che viaggiano sulla sottile linea di una tragica follia. Tre pezzi di teatro che mettono in scena il potere autoritario, insolente e indecente, un potere deteriorato dalle sue stesse strutture. Un potere che comanda uomini e donne che hanno ormai perso la loro dignità di esseri umani perché allontanati dal mondo e rinchiusi in una realtà parallela dove le regole sono fatte a immagine e somiglianza di carcerieri-secondini violenti, cocainomani e puttanieri. Ma niente paura, questo è solo teatro, è finzione. Sono solo gli attori dell’associazione Arte e Salute diretti dal regista Nanni Garella. La società vera, quella fatta da persone rispettabili, non si sognerebbe mai di rinchiudere altri individui in un manicomio o in un carcere, con il solo e unico obiettivo di allontanarli dalla comunità perché ritenuti pericolosi per sé e per gli altri.


Nella sala Interaction dell’Arena del Sole la scena è già aperta. Mentre il pubblico prende posto sono già ben in vista alti muri di cemento armato che ricordano quelli esterni di un carcere di periferia. Tavoli e sedie sono allineati come in un parlatoio. Si comincia con Il discorso della montagna. Un gruppo di donne è venuto in visita a trovare i propri uomini: mariti, figli, fratelli. Le guardie non sembrano farsi scrupoli. Le loro maniere non sono esattamente quelle di chi vuole mettere a proprio agio chi ha già un fardello da sopportare. La scena si apre con una quotidianeità che sembra ripertersi sempre uguale ogni volta. Le donne sanno già che dovranno subire le angherie delle guardie prepotenti. Ma l’assurdo è una piccolissima regola dettata dal potere: in quel luogo non si può parlare il linguaggio della montagna, si deve parlare con la lingua della città. Bisogna poter controllare i discorsi privati per garantire la sicurezza. Ma una donna anziana in vistita da suo figlio non riesce ad aprire bocca, non riesce a parlare, vorrebbe dire ma non può, sa usare solo il suo dialetto e questo non va bene. E se anche alla fine cambiassero le regole, cosa ci sarebbe da dire difronte a un figlio ammanettato e in preda alle convulsioni?

Si continua con Il bicchiere della staffa. È la storia di un folle interrogatoio. Un uomo alla scrivania provoca con domande che non portano a niente un altro uomo seduto al centro della scena con il volto insanguinato e pieno di lividi. Sono domande che servono solo a capire la personalità di chi le pone, non sono domande fatte per creare un dialogo. Non servono per ascoltare l’altro. In compenso si possono udire da lontano le urla strazianti di una donna, moglie del prigioniero, che viene violentata e picchiata. Tutto quel blaterare della guardia-potere viene sopraffatto dal silenzio del carcerato e dalla sua espressione di impotenza.

E si conclude con Party time. Una serata con musica spasmodica, gente ben vestita, faccie sorridenti, bicchieri in mano che gesticolano frasi fatte. Una festa da palazzo. Con il potere militare che va a braccetto con quello politico e tutti vanno d’accordo con ballerine e soubrette. Un ambiente finto, fatto di apparenze. Personaggi che presi a parte manifestano tutte le loro paure, insicurezze e scheletri nell’armadio che non li fanno dormire. Ma the show must go on quindi è meglio affogare tutto nel whisky e condire con qualche tiro di coca.
Per il decimo anno consecutivo il progetto di Nanni Garella prosegue nel suo scopo: coniugare il lavoro artistico con il lavoro nel campo della salute mentale. «Il vissuto della sofferenza psichiatrica – afferma il regista – si versa nei personaggi teatrali e nelle opere come una linfa vitale; problematica, dolorosa, rischiosa, ma pronta a trasformarsi in pura gioia estetica e in realistica rappresentazione della realtà. La dimensione della vita quotidiana di milioni di persone emarginate e sofferenti, quella relegata fuori dai circuiti dell’arte e del teatro della società di oggi, è piena di racconti, di sogni, di progetti. Usarli come materia di studio e portarli sulla scena è il nostro obiettivo».

Josella Calantropo

Nessun commento:

Posta un commento