Così facendo, gli artefatti evitano di cadere in una duplice tentazione: da un lato, quella di salire sul pulpito e predicare a gran voce le parole di opere più celebri che, proprio in virtù di tale notorietà, avrebbero forse rischiato di apparire eccessivamente roboanti in un contesto politico e sociale che, come il nostro, grida sguaiato il proprio sfacelo e il proprio fallimento; dall’altro lato, si rischiava di non riuscire a trovare un approccio attoriale convincente all’opera del drammaturgo tedesco.
Non a caso, quindi, la compagnia ha affrontato un testo che è “didattico” nella misura in cui, dice Brecht, ha “efficacia di insegnamento per i suoi interpeti”. Come dire che Orazi e Curiazi rappresenta un terreno sul quale l’attore, cercando di compiere quel percorso che conduce verso il celeberrimo straniamento, può acquisire la capacità di esercitare uno sguardo lucido e demistificato sul proprio mestiere ma, soprattutto, su quel mondo rispetto al quale, attraverso l’arte, è necessario agire.
E gli artefatti sono maestri di lucidità e volontà demistificatoria: il loro rapporto col testo (si pensi ai progetti sulla letteratura “postdrammatica” inglese) e con i meccanismi della rappresentazione sfocia in una modalità di recitazione, o faremmo meglio a dire di “comportamento scenico dell’attore”, chiaramente definita e originale. Si tratta, cioè, di un atteggiamento che coniuga dubbiosità, disincanto e ironia nei confronti di tutto ciò che si dice e si fa in scena, come per metterlo costantemente in discussione o, forse, per mostrarne la fatale importanza sotto una patina di amara giocosità: come non vedere in tutto questo un riflesso, un precipitato, un elemento di rimando rispetto alla poetica dello straniamento brechtiano?
Eppure tra la parabola teorico-artistica di Brecht e le sue riletture attuali esiste una distanza ineliminabile, vale a dire quella costituita dal crollo delle ideologie e dall’ingresso in un mondo che, quindi, ha irrimediabilmente perso la fede cieca nel sogno di un cambiamento radicale che animava il drammaturgo tedesco.
E’ il prologo di Orazi e Curiazi a raccontarci questa distanza, con la coltre di fumo che, come dopo un’esplosione, avvolge una sede anni ’60 del partito comunista (con tanto di manifesti in cirillico ed effigi di Lenin e Marx sui muri), mentre dei ricercatori verificano la presenza di tracce radioattive e si commuovono rinvenendo le bandiere dei Cobas o riascoltando l’Internazionale da un vecchio vinile.
Nell’afasia desolante dei relitti e delle maschere antigas, quindi, le parole non possono non provenire da lontano (Give me words canta un personaggio sbucato dal nulla, felpa con cappuccio calato sugli occhi e chitarra elettrica per accompagnare le note di In a manner of speaking dei Tuxedomoon), da un tempo e da un clima di cui non condividiamo appieno le speranze ma con il quale abbiamo ancora in comune miserie e sgomento.
Di fronte a un rispetto quasi filologico del testo, di cui si mantengono anche le didascalie e si seguono alcune indicazioni di allestimento (tracciare a terra i percorsi compiuti dagli attori piuttosto che fare riferimento al teatro cinese, incarnato da una figura femminile vestita da gheisha che assume il ruolo di arbitro della contesta), la messa in scena trasforma la lotta fra gli Orazi (di Roma) e i Curiazi (di Albalonga, l’odierna Albano) in una sorta di gioco televisivo a squadre con tanto di scansione in match e di indicazione del punteggio sulla lavagna (proprio una lavagna di scuola, quasi in omaggio al carattere didattico della pièce e a quel sottotitolo “rappresentazione per le scuole” che l’accompagna).
Ma è sul fine ultimo del gioco che bisogna concentrarsi: sia che si tratti di denaro, premi di varia natura o, semplicemente, dell’onore della vittoria, non ci si scontra mai per veder messo in pratica un progetto, un ideale, un’aspirazione. Ecco perché i giocatori sembrano finiti lì quasi per caso, desiderosi di vincere ma poco disposti al sacrificio e alla fatica (perché dovrebbero sacrificarsi in fondo, se non c’è un’Idea a cui valga la pena di votarsi?), protagonisti di imprese che oscillano tra il nonsense e un’arguzia dai risvolti di genialità: è così che, tra profondo senso comico e convenzionalismo teatrale, una ferita mortale si cura con un cerottino applicato sulla punta del dito, l’avventurarsi del lanciere tra rapide e dirupi diventa una specie di balletto in impermeabile giallo e galosce e lo scontro fra gli arcieri è deciso da due frecce fosforescenti e rigorosamente munite di ventosa.
Sullo sfondo, in sordina, la piaga di una corruzione che si insinua a colpi di valigette piene di soldi aperte a cascata sulla testa del corrotto, e che viene celebrata in pranzetti intra-schieramento a base di porchetta e di manciate di spaghetti in stile Miseria e Nobiltà.
E come cammei, sospesi tra grottesco e lirismo, emergono le parole delle vedove dei fratelli uccisi, interpretate da Francesca Mazza che, portavoce di ardore e di dolore (con il sottofondo degli sghignazzi dei suoi compagni), permette a un riflesso di sentimento e di buon senso di insinuarsi perfino nella macchina disumanizzante del gioco a premi, con un’insorgenza del sentimento che, seppur sghemba, nemmeno il Brecht delle opere maggiori era riuscito ad arginare del tutto.
Ma la ridda ossessiva di cambi d’abito, viaggi su poltrone girevoli, scheletri in armatura e corse per accaparrarsi il microfono, sta in piedi solo grazie alla costante presenza a sé stessi di tutti gli attori, a quella capacità di diventare sì ingranaggi perfetti di una regia dai ritmi spesso schizofrenici, ma senza perdere nemmeno per un istante quell’anelito allo sbeffeggio di tutto ciò che accade attorno: un “prendersi gioco” tanto manifesto da divenire irritante, perché è al rovesciamento della voglia di ridere che lo spettacolo vuole e deve arrivare, proprio quando anche lo spettatore più snob e serioso ha calato le difese e si è abbandonato alla risata.
Tuttavia il riso non può essere la strategia e non dobbiamo arrenderci di fronte a quello che accade nell’ultima scena, che vede Orazi e Curiazi tutti di fronte alla lavagna, interrogati sulle proprie azioni uno alla volta come tanti scolaretti somari.
Basta ridere, basta evitare di schierarsi attraverso l’arma legalizzata dello sberleffo: è il momento di crescere, prendere una posizione e far prosperare “campi e officine”. Senza sghignazzi e con sacrificio. Ma anche con il coraggio della fiducia.
Giulia Taddeo
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