Un progetto ricco e articolato come quello che il CIMES ha pensato per aprire le porte dell’Università di Bologna e della città al Teatro Nō, doveva necessariamente prevedere una tavolata di discussione coinvolgendo storici, studiosi, drammaturghi, registi e attrici: Monique Arnaud, Giovanni Azzaroni, Matteo Casari, Doi Hideyuki, Lidya Origlia, Bonaventura Ruperti, Umewaka Naohiko.
Un pomeriggio passato in compagnia di donne e di uomini che ci hanno raccontato il loro modo di fare teatro, cercando di mettere in relazione mondi, tra di loro, apparentemente molto lontani. Un pomeriggio trascorso sulla sottile linea che divide Occidente e Oriente, mondo interiore e mondo esteriore, tradizione e contemporaneità, teatro e vita, natura e immaginazione, esperienza e memoria, continuità e discontinuità.
Ci si interroga su un teatro che nonostante sia codificato come teatro di tradizione, vede al suo interno svilupparsi segni di “possibili teatralità ulteriori” come ci ricorda Gerardo Guccini all’inizio dei lavori presente in qualità di responsabile scientifco del CIMES. Portando i suoi saluti e l’approvazione del lavoro svolto da Matteo Casari curatore del progetto Teatro Nō, una tradizione contemporanea, Guccini, con la sua parlata accogliente e brillante, richiama l’attenzione dei molti intervenuti su due spettacoli di Hirata Oriza (La conferanza di Yalta e Tokyo Notes) presentati quest’estate al festival di Santarcangelo che presentavano retaggi di teatro Nō sia a livello testuale e didascalico che determinati da particolari costrizioni fisiche nei costumi e nelle acconciature. Esemplificativi, quest’ultimi, di come le “dinamiche del teatro contemporaneo hanno profondamente a che fare con il retaggio della cultura Nō (…) uno sviluppo delle drammaturgie occidentali che sempre più tendono a rapportarsi alle forme del proprio passato come a luoghi di soluzione dell’immaginario da abitare, ma da rideclinare a seconda delle esigenze e delle tematiche della sensibilità del presente”.
A seguire la scena è tutta per il Maestro Umewaka Naohiko che per una settimana intera è stato ospite
dell’Università di Bologna e del Dipartimento DMS e che tramite attività
laboratoriali e dimostrazioni pratiche ha coinvolto un sostenuto numero di
studenti, ricercatori, docenti e appassionati.
Così il maestro Umewaka Naohiko ci racconta di un
episodio personale non di natura accademica e quindi non verificabile in senso
scientifico dal titolo: Passeggiata in
casa. Appunti di un attore No sul confine tra mondo interiore e mondo
esteriore.L’intervento del maestro è tutto rivolto alla ricerca di questo confine tra mondo interiore ed esteriore tramite un metodo del quale naturalmente nessuno ha la formula magica e che neppure il Maestro ci svela, per il semplice e unico motivo che ognuno deve ricercare il suo.
Confini che esistono nella vita quotidiana e in teatro. “Il palcoscenico, luogo di particolare importanza per tutti gli uomini di teatro, è uno dei confini e l’azione che vi si svolge ha un doppio significato; in una situazione tale perciò un artista non può essere indifferente ai metodi che riguardano l’andirivieni sul confine perché se lo fosse non potrebbe mai creare quel momento magico sulla scena”.
Acquisire il metodo quindi con la ripetizione di semplici esercizi, anche se questo può risultare noioso. Acquisire il metodo dei confini affinché esperienze del passato vengano riprodotte nell’interiore. È possibile rifare l’esperienza di una cascata in una piccola sala adibita per la cerimonia del thè o più semplicemente accontentandosi del proprio bagno di casa: riprodurre interiormente l’emozione che ho provato realmente lì, immersi nella natura, indipendentemente dal luogo.
In breve potremmo definire il fenomeno come la riproduzione dell’emozione, il fatto importante è che non è più necessario avere la cascata davanti agli occhi. Il desiderio, concetto caro al buddismo zen, di imbattersi di nuovo in quella cascata.
L’importante non è immaginare la cascata ma andare un poco più in là dell’immaginazione, cioè nel limbo che trasforma l’immaginazione in esperienza.
“Difronte alla cascata tutti i sensi erano a nostra
disposizione e si sono riuniti per farci percepire la meraviglia e la potenza
della cascata, ma a casa il procedimento è completamente diverso e possiamo
considerare che l’assenza della natura costituisce un vantaggio per noi:
cercare di controllare il funzionamento dei sensi riportandolo verso l’interiore.
Posizione immobile, nel silenzio non cerchiamo di sentire il vento o il flusso
dello scorrere dell’acqua, ci possiamo accontentare dello sgocciolamento del
rubinetto, il buio ci aiuta alla ricomposizione interiore della sensazione:
ognuno deve trovare il suo metodo.
In questa maniera cominciamo a riprodurre internamente la
stessa sensazione che abbiamo provato quando eravamo difronte alla cascata.
Questo stato d’animo durerà al massimo per dieci secondi e credo che sia
impossibile che duri più di un’ora. Per applicare questo metodo alla rappresentazione teatrale cerco in genere di distribuire durante il fluire dell’azione una decina di momenti della riproduzione dell’emozione guidati dal metodo che conduce all’interiore”.
Bonaventura Ruperti dall’ Università di Venezia Ca’ Foscari, giunge al tavolo per farci fare una storica cavalcata mozzafiato tra i più importanti poeti giapponesi che si sono confrontati con la stesura di nuovi Nō. E il professore ci lascia con una serie di domande: “Il tema fondamentale che si doveva porre chiunque avesse a che fare con la creazione di un nuovo Nō era: cos’è il Nō? Il Nō è il Nō di sogno? Cioè la struttura del Nō, di questa forma per cui un viaggiatore incontra un personaggio poco noto e questo poi si rivelarà un personaggio del passato, uno spettro? Il Nō è poesia e danza? Oppure il Nō è soltanto l’estetica essenziale? O ancora il Nō è la maschera, l’uso della maschera e tutte le tecniche che per seicento, settecento anni sono state tramandate, tecniche non solo attoriali, ma coreutiche e musicali?
Il Nō può essere intepretato in vari modi e i grandi artisti ci sono riusciti utilizzando e traendo suggestioni che sono tuttora molto vive sulla scena”.
È Monique Arnaud dalla Shihan Scuola Kongō che conclude la giornata. Ma come a lei stessa piace ricordare: “le forme si modificano nella vita di un maestro, c’è una trasformazione continua, quindi più che una chiusura cercherò di fare un’apertura. Cosa che si addice al teatro Nō perché ogni nuovo titolo di Nō si chiude con un’apertura”.
Dopo un pomeriggio così, le domande potrebbero non finire mai, ma in tutta onestà non posso non rendervi partecipi dell’aneddoto del caffè preso dal maestro di teatro Nō e da un maestro di mimo.
È un breve scritto contenuto nella premessa del libro sul teatro Nō del maestro Umewaka Nahoiko: La fisicità nell’atto di prendere un caffè.
«Un maestro di Nō e un maestro di mimo stanno per prendere un caffè: che differenza c’è tra i due? Non avendo nessun sentimento particolare, non sono personaggi di una storia, non hanno alcuna scena su cui basarsi, ma comunque non possono fare un gesto quotidiano. Quindi il gesto semplice risulta molto complicato: non si può scadere nella banalità del quotidiano e non si può interpretare nessun personaggio. La cosa più semplice può risultare la più complicata.
Che differenza c’è quindi nell’atto di prendere un caffè sul palcoscenico tra i due maestri? Non oso raccontare le caratteristiche espressive del Nō attraverso un maestro analizzato nell’atto di prendere un caffè ma posso dire che il maestro di mimo cerca di far vedere l’invisibile come se esistesse davvero con capacità interpretative. Nel nostro caso però il caffè esiste davvero.
Allora la cosa più importante è: in che modo il maestro di mimo coniuga il gesto di prendere un caffè con la sua interiorità? Se ci pensiamo ci sono infiniti modi di prendere un caffè e, anche se sembra strano, è proprio qui che si trova il concetto di infinito. L’infinito non si trova nell’esteriore ma nel nostro interiore sotto forma di opzioni inesauribili. L’anedotto del caffè ci suggerisce come comprendere la fisicità del Nō. I gesti che ci rapiscono l’anima non sono mai vistosi. Tornare all’estrema semplicità è lo scopo ma questo è permesso solo ai maestri che hanno approfondito i segreti di questa forma teatrale. Per quanto riguardo l’aneddoto del caffè, la differenza tra i due maestri, rimarrà un segreto profondo».
Alla fine di questa storiella è solo una la domanda che
mi rimbalza nella testa: qual’ è il mio modo di prendere il caffè?
Josella Calantropo
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