Basta poco, basta veramente poco: un angolo cottura colorato da una bella tovaglia a quadri rossa, arance che ricoprono la classica panca da sagra di paese, pomodori genuini, sedani verdi e profumati, carote a mazzetti, canzonette da festival dei fiori e il sorriso ipnotico e magnetico di un cuoco ballerino. E come per magia la famiglia media italiana smette di vedere (o forse fa finta di non vedere o forse fa più comodo non vedere) le immagini di immigrati disperati che fuggono dalla propria casa in cerca di fortuna, approdando in una terra che nella migliore delle ipotesi ricambia con lavori schiavizzanti. Tutto questo non è la realtà. È solo il nuovo spettacolo teatrale di Armando Punzo drammaturgo e regista della Compagnia della Fortezza: Il sogno di Faust.
Gli spettatori sono accolti da canti popolari napoletani; il clima in sala è goliardico come in una grande festa campestre. In un tavolino alla destra della scena, Punzo fa accomodare tre esponenti della classica famiglia media italiana, tratti dal pubblico arrivato ad hoc per vedere la prima nazionale dello spettacolo allestito presso i Laboratori DMS di Bologna.
Gli serve da bere e gli augura buon divertimento. E poi continua, fa gli onori di casa, presenta i protagonisti: Jamel Soltani è il cuoco; il Faust di Fernando Pessoa è l’opera che ha ispirato il lavoro; Isabella Brogi è la “radiolina” che con un bel canto spianato fa vibrare le corde mélo di ogni buon italiano che si rispetti.
Poi ci sono le immagini proiettate alle spalle di Jamel. In uno schermo vengono montate come in un grande blob pezzi di TV italiana, inedita e non, che ci ricordano le nostre scelte e le nostre idee politiche e sociali sulla questione dell’immigrazione. Quindi si susseguono interventi di Licio Gelli, Ignazio La Russa, Giancarlo Gentilini, Pier Luigi Bersani, la canzone di Pupo e di Emanuele Filiberto. Vengono accostate le inchieste de L’Espresso sui “viaggi della speranza” dei nostri vicini di casa libici e marocchini, le famose immagini di repertorio sui fatti di Rosarno con le veline sculettanti che ballano Lady Gaga in un programma di Barbara D’Urso.
Contemporaneamente come se il discorso non lo riguardasse neppure un po’, Jamel, diavolaccio dalla pelle dura, migrante e ex detenuto, continua la preparazione di piatti tipici ballando e cantando con un volto giocondamente triste. Ci avverte Punzo all’inizio: “Non dovete far esistere Jamel”, ma l’attrazione verso quel sorriso è fortissima. Le etichette che abbiamo attaccato adosso a quel cuoco che “vuo' fa' l’italiano” sono troppe. Come si fa a non avere pregiudizi su di lui? Ogni tanto si ferma, Jamel, congela il tempo, si posiziona in mezzo alle onde di un mare proiettato diventato simbolo sia di speranza che di morte: comincia a recitare pezzi dall’opera di Pessoa che parlano d’amore e di sogni. Ma un Faust come Jamel ha la possibilità di sognare? È questa la domanda che rimane senza risposta, che riecheggia durante tutto lo spettacolo e a cui si ripensa dopo gli applausi finali.
Non so se abbiamo assistito a una prima o a un’anteprima nazionale: sembrava più una bella idea ancora da sviluppare. Troppe incertezze, ruoli non del tutto definiti. Era come se le scelte registiche venissero fatte sul momento. O forse è stato solo un modo di Punzo per stupire ancora una volta. In ogni caso quel pubblico, che ha fatto registrare il tutto esaurito, alla fine penso si sia preso una bella soddisfazione. Punzo e Jamel distribuiscono pomodori, arance e una frase: Con quello che avete in mano potete farci quello che volete. Passa meno di un secondo e il faccione proiettato di Licio Gelli & c. viene fatto diventare un tiro al bersaglio. Colpito, missione compiuta!
Josella Calantropo
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