Una scena nera illuminata da luci grigie verso l'infinito incolore del fondale. Una sedia marrone chiaro, che svetta figlia unica di madre vedova, sul terrificante buco nero che si apre minaccioso sulla sala. Il pubblico però non sembra spaventarsi da cotanta visione, indifferente affluisce all'interno della platea e rumoreggia tra i palchi e il loggione nella febbrile attesa del notissimo attore Fabrizio Gifuni. Il buio incombe e inghiotte tutto intorno, e solo allora appare un fantasma del passato. Nel fragile corpo umano di Gifuni alberga lo spirito del giovane Carlo Emilio Gadda.
Una luce violenta da lampadina squarcia il buio e ne sottolinea la presenza. Questi, calato in una divisa militare dei primi del novecento, risuscita dalla memoria le ferite profonde, penose e appassionate (nel senso cristologico del termine) della sua dolorosa esperienza nei reggimenti impegnati nella prima guerra mondiale. Ferite mai rimarginate, sopra le quali sono sadicamente versate, a ogni parola, gocce di limone e granelli di sale grosso. La violenza del reclutamento forzato e l'estenuante addestramento militare hanno prostrato e annullato le, pur vitali, forze del novello soldato. Il suo declamare dà l'impressione di un flusso di coscienza concitato, indistinto e distorto nonostante i suoi pensieri e ragionamenti rimangano sempre lucidi e netti anche nel delirio luttuoso e dolente delle trincee che odorano di morte. All'atterrito giovane soldato che si sente defraudato della sua fluente capigliatura e degli affetti fa da tragico controcanto il disperato principe Amleto. Si apre uno squarcio nella tetra tela, una luce di confine a forma di L e dal colore blu cobalto segna con un deciso tratto la presenza del principe di Danimarca. La sua figura è contratta e il suo volto sospeso in una smorfia di dolore. È un vero parallelismo teatrale che si incarna. Gadda come Amleto: entrambi orfani di padre, incompresi e sempre più deboli di nervi e collerici ma sopratutto mossi da un atavico desiderio, sempre insoddisfatto, d'affetto materno. I passaggi da un concetto all'altro sono fulminei e il plot delle memorie rotola senza freni verso la straziante narrazione della disfatta di Caporetto.
Le battute si susseguono a un ritmo decisamente più lento quasi come nell'interpretazione di un dramma in versi. L'infausta sconfitta è narrata per mezzo di un braccio alzato verso il cielo e sventolato quasi con rassegnata dolcezza : è la danza del fazzoletto bianco che sancisce l'avvilente resa dei soldati italiani lasciati soli e impreparati per l'ultimo scontro contro i tedeschi. Tutto è perduto: perduta la dignità nel degradante e inumano campo di prigionia militare presso le forze armate tedesche, perduto l'onore allorquando il rientro in patria dei reduci (dopo la liberazione) è accompagnato dal biasimo e dal conseguente odio della comunità nazionale, perduto il ristoro e la comprensione degli affetti familiari allorquando il giovane Gadda, informato dall'anziana madre della morte in battaglia del diletto fratello Enrico, si vedrà additato come inetto e vigliacco. Ma il mondo sta per cambiare ancora.
Gifuni si sfila la casacca della divisa scoprendo una maglia nera a manica lunga. Riecheggia sul palco una canzonetta degli anni trenta suonata da un vecchio grammofono. Una voce melodica maschile, su un ritmo da marcetta militare, invita chi lo ascolta a recarsi in Africa, terra di colonie, e a sconfiggere il feroce Negus per poter al suo posto regnare. Una luce blu fosforescente abbaglia Gifuni e si rifrange sul suo inquietante sorriso a 44 denti. La musica marziale ispira ancora un gestus coreografato: così con i pugni chiusi, le braccia continuamente stese e contratte (a tempo di musica), il corpo piegato all'indietro e le gambe leggermente aperte ad angolo retto Gifuni simula la bellicosa e spavalda cavalcata di un soldato. Si palesa l'atmosfera da dittatura del periodo mussoliniano, e lo spettacolo, dapprima tanto tragico, muta registro divenendo un piccolo quadro in cui lo scrittore redivivo propone, sempre per mezzo dell'attore suo tramite, un perfetto rimbalzo satirico e intellettuale tratto dal suo saggio Eros e Priapo.
In questo frangente si scatena tutta la capacità mimetica e parodistica del Gadda maturo. Egli si scaglia con veemenza contro l'Io-Minchia e contro lo spasmodico e erotico desiderio delle donne italiane di possederlo. Quest'idolo fallico e fallace fa perdere alle italiche femmine la coscienza etica di se stesse trasformandole in benemerite psicofiche-riceventi. Così esse divengono le assassine consapevoli dei loro uomini (figli, fidanzati e mariti) dal momento in cui li incoraggiano all'emulazione del Duce e li spingono verso il sacrificio per la causa fascista... guardandoli infine perire miseramente oltre che nelle ostilità anche per colpa degli stivali che, di pelle scadente e con le rifiniture solo abbozzate, logorandosi in breve tempo li espongono a ferite, infezioni e malattie. Il tono della voce si è fatto brillante e ironico e la velocità di declamazione della parola è nuovamente decollata verso ritmi sostenuti e accesi. Una precisa gestualità (quasi un commento disegnato dal corpo nello spazio) segue la concitata recitazione. La chiusura dello spettacolo esce dalle intenzioni di Gadda... il fantasma così affascinante del giovane soldato spaventato dispare, ma dispare anche lo scrittore ironico e aggressivo nei confronti del mussolinismo dilagante.
Resta solo Gifuni, seduto a cavalcioni sulla sedia. È un grande attore non ci sono dubbi ma anche un grande stratega; infatti dedica gli ultimi minuti sul palco a un suo personalissimo “comizio” in forma di riflessione rivolto alla critica delle scelte dell'attuale presidente del consiglio Silvio Berlusconi. Trovo che tale intervento abbia scardinato l'attenzione da ciò che si era appena visto in scena ma credo altresì che una tale decisione abbia sortito l'effetto di captatio benevolentiae che egli ricercava. Raccolto il consenso, infatti, sono scrosciati gli applausi dell'intera sala (probabilmente anche di coloro che non avevano seguito o compreso bene lo spettacolo) e questo effetto ha eccitato l'animo di una distinta signora della prima fila la quale si è alzata e ha applaudito con grande impeto. Gifuni si è inchinato al suo pubblico varie volte, anch'io ho applaudito e apprezzato questo ottimo attore, ma l'ho amato ancor di più nel momento in cui ha funto da tramite con l'aldilà per vivificare il disperato spettro di Gadda.
Enrico Rosolino
Nessun commento:
Posta un commento