domenica 17 aprile 2011

Fuori e dentro le mura: stanze di teatro carcere





”Non più ottico ma spacciatore di lenti
per improvvisare occhi contenti,
perché le pupille abituate a copiare
inventino i mondi sui quali guardare.
Seguite con me questi occhi sognare,
fuggire dall'orbita e non voler ritornare.”
Fabrizio De Andrè, Un ottico


 Un accento marcatamente straniero esce dalla bocca di un uomo vestito di bianco che cammina per il teatro nella luce soffusa, passando davanti alle poltrone, indagando gli occhi degli spettatori. Passeggia per i corridoi della sala recitando rime, lo sguardo dei presenti lo segue con curiosità. Poi si siede e cade il buio. Così inizia La collina in-cantata, performance teatrale-video-musicale dell’Associazione Gruppo Elettrogeno e I Fiori Blu. Nell’Auditorium dei Laboratori DMS c’è emozione, c’è silenzio. C’è la curiosità e la paura di confrontarsi con una realtà invisibile nella vita quotidiana, c’è il timore di scoprire cosa vedono gli occhi ingabbiati nei carceri ai margini delle città. 
La performance si offre come contenitore di storie e visioni personali dei partecipanti ai laboratori, che vengono elaborate in un video come tessere di un puzzle collettivo, susseguendosi in tante piccole pièce in cui lenti fantastiche fanno sognare gli occhi. Forse dalle loro stanze vedono solo mura e cancelli, ma con le lenti colorate del teatro la vista si fa più acuta, attraversa le pareti, vola verso il cielo, si immerge nel passato o si proietta nel futuro. “Cosa vedi?” dice la voce con l’accento straniero. “Vedo le mie sorelle” risponde uno degli attori. Vedono il mare, vedono il sole, vedono la gente che balla, che svolge la sua vita quotidiana. Fuggono, e non vorrebbero più tornare.

Il video finisce, le luci della sala riportano gli spettatori in una bruta realtà cantata a ritmo rap: “Sono stato costretto a fuggire dal mio paese, sognavo di venire in Italia per poter avere una vita migliore. Non sono venuto qua per rubare, ma per vivere una vita normale. Ho attraversato un braccio di mare in una lunghissima notte, e adesso mi ritrovo qua.” 
È la voce di un ragazzo nordafricano che, accompagnato da una live band sul palco, ci racconta la sua storia, o forse quella di un suo amico o parente, o più probabilmente la realtà di migliaia di persone che scappano da paesi in guerra rischiando la vita nel viaggio per approdare in Italia, dove trovano solo reclusione o una vita condannata alla clandestinità che spesso li porta comunque in gabbia. 

Tra i lunghi e sonori applausi e la gratificazione che si legge sui volti degli attori, finisce la performance e fa il suo ingresso l’ospite d’onore: Dori Ghezzi, vedova di De Andrè che insieme a Lee Masters ha ispirato lo spettacolo. Esprime con sorrisi e parole l’apprezzamento per il lavoro, per i progetti di teatro in carcere e il forte valore rieducativo che li ha fatti nascere e li sta facendo crescere. “Speriamo che il lavoro continui, e mi auguro che le prossime volte ci siano più donne!” conclude sorridendo.


Per il secondo spettacolo, una dimostrazione di lavoro del Teatro dei Venti condotto da Stefano Tè con i detenuti della Casa di Reclusione di Castelfranco Emilia, ci si sposta nel Quarto Spazio dei lavoratori: sette leggii sono disposti in riga sul fondo dello spazio scenico, gli attori entrano di corsa accompagnati da una musica. “Tutti i senatori, tutti i sudditi dell’Impero che dispongono di qualche ricchezza – piccola o grande, fa lo stesso – devono diseredare i propri figli e fare immediatamente testamento a favore dello Stato.” Sono le parole di Caligola, tratte dall’omonimo testo di Albert Camus su cui si incentra la rappresentazione. Gli attori, di diversa età e nazionalità, si avvicendano nel personaggio protagonista, alternando scene del testo a movimenti collettivi e individuali a volte quasi danzanti a volte simili a esercizi laboratoriali di movimento e coordinazione; nella recitazione spaziano diverse modalità, fondendo monologhi, dialoghi e declamazioni corali.  

Attraverso Caligola esplorano il dramma del potere che diviene delirio di onnipotenza, che diventa oppressione e che vuole schiacciare non solo il dissenso ma anche qualsiasi intralcio alla propria autorealizzazione e sopravvivenza, in un turbine di nichilismo che tiene conto solo di se stesso. 
Un’idea di fondo che può essere una delle mille spiegazioni all’aria pesante della nostra società che tende a eliminare i problemi invece di tentare di risolverli, che isola il diverso per proteggere un’immagine di serenità e benessere che in realtà è propria sempre di meno persone, che sovraffolla le carceri per rinchiudere nel dimenticatoio situazioni scomode da vedere anche se spesso non sono un reale pericolo.

No, sei tu che non te ne rendi conto. Sentimi bene. Se il tesoro è fondamentale, la vita umana non lo è. Ho deciso di essere logico. (…) Il potere ce l’ho io. Eliminerò chi mi contraddice e anche le contraddizioni.”
Caligola, A. Camus

Elena Grimaldi

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