È prima di tutto un uomo dalla voce calda e profonda, dagli occhi intensi che sanno incontrare lo sguardo degli altri. Poi è anche un regista teatrale, un drammaturgo, vincitore di prestigiosi premi, tra cui nel 2004 il Premio UBU allo spettacolo I Pescecani ovvero quello che resta di Bertolt Brecht come miglior spettacolo dell'anno. Lavora in condizioni limite con persone confinate al limite; si batte da 23 anni per fare teatro in un luogo da molti considerato non idoneo o più semplicemente non deputato per accogliere spettacoli: nel piccolo teatrino dei laboratori del DMS di Bologna, abbiamo incontrato Armando Punzo, ideatore della Compagnia della Fortezza nel carcere di Volterra.
Punzo fonda il gruppo a Volterra nel 1988: a quell’epoca è uno dei primi progetti di teatro in carcere in Italia. Per la sua forza di innovazione, oltre che per l’alto valore estetico dei suoi lavori, è più volte invitato a tenere seminari, conferenze, diventando centro d’interesse sia per la critica che per il mondo accademico. Tesi, saggi, libri divulgativi: tanto è stato scritto su Punzo e sulla Fortezza. Si è analizzato il suo coraggio di entrare in carcere, il rapporto con i detenuti, si sono studiati i benefici del fare teatro in quel luogo opprimente. Ma tutto questo già si sa. Allora per fare un ritratto di un personaggio come Armando Punzo, circondato da una specie di alone di “genio e santità” come lui stesso scherzosamente dice, da cosa bisogna cominciare? Ci sono concessi dieci minuti: per fare un’intervista è un tempo sufficiente, ma bastano per conoscere un po’meglio questa intrigata figura? Così prendiamo un bel respiro, ci tuffiamo a capo fitto e cerchiamo di arrivare nel suo profondo più che possiamo.
Qual è il tuo più grande valore?
La morte… ma se penso all’uomo, allora tutti i suoi sogni sono valori.
Nei tuoi spettacoli lasci libero lo spettatore di scegliersi il proprio pezzo di performance. Non vuoi mai invadere con la tua idea, metti sempre il pubblico di fronte a una scelta: perché?
Ho un mio modo di fare che si contrappone a un metodo che può risultare ingessato. Lavorare a uno spettacolo cercando di ottenere un risultato pulito, rigoroso, senza sbavautre, costruitissimo… per me equivale alla morte. Quindi ho bisogno di sbagliare, di cose sporche, che non stanno in piedi, che franano durante il loro stesso svolgersi, non posso presentare un’immagine eterna… ho bisogno di cose che stridono. Ho necessità di operare su un territorio dell’anima a confine, cercando di continuo equilibri precari: solo così mi sento vivo. Metto sempre tutti, compreso me, nella posizione di confrontarsi con i propri limiti. Sono un provocatore, ma qualcuno deve pur farlo.
Prima di Volterra con cosa hai cominciato? Chi era Armando Punzo “prima dell’inizio”?
Ero a Napoli e fuggivo… come sempre cercavo di “non esserci”. E così ho trovato persone in un laboratorio che facevano teatro, sono sceso in uno scantinato e ho cominciato. I maestri li ho tenuti sempre un po’a distanza. È stato molto importante per il mio inizio l’incontro con Per un teatro povero di Grotowski, in particolar modo l’idea sull’attore prostituta: mi sembrava una grande frase artistico-politica. Kantor l’ho scoperto molti anni dopo e solo molto dopo l’ho apprezzato: all’inizio non mi interessava. Qualcuno mi dice che ho un po’ il suo clichè dello stare in scena durante lo spettacolo, ma per me era necessità, esigenza pratica. Lavorando con attori non professionisti c’era bisogno di un supporto. Poi c’è anche la mia eterna indecisione di non voler mai entrare veramente sul palco. Rimango sempre sul margine, così come faccio nella vita. Di Kantor aldilà di questo non c’è niente. Lui costruiva gli spettacoli in un altro modo, non influenza il nostro lavoro nella compagnia… almeno non coscientemente, forse mi è entrato dentro e, anche non volendo, ho degli aspetti che lo ricordano. Comunque non mi dispiace.
Con gli attori-detenuti come lavori? Da cosa cominci? Fate laboratori sul corpo e sulla voce?
Partiamo sempre da idee, frustrazioni, da chiacchiere, da problemi che principalmete ho io e che poi scopriamo essere problemi comuni, ne parliamo, li condividiamo e da qui l’esigenza di esprimerci con il teatro.
E qual è il tuo più grande problema adesso?
Il teatro stabile alla Fortezza: ma comincio a credere, davvero, che è impossibile fare qualcosa.
Ti sei arreso?
No, mai. Ma comincio a pensare che è veramente difficile.
Sei sposato. Ma come fai a gestire carcere e la famiglia?
Dovresti chiederlo a mia moglie (Cinzia De Felice) che per fortuna è anche la mia organizzatrice. Ma ti assicuro che è dura!
Josella Calantropo
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