Sotto gli scuri occhiali da sole e il forte accento napoletano si nasconde un uomo colto e acuto. L’incontro con Enzo Moscato ha superato le mie aspettative. Esponente, insieme a Annibale Ruccello e Manlio Santanelli della nuova drammaturgia napoletana, è considerato uno dei maggiori drammaturghi italiani degli ultimi quarant’anni. Ancora una volta siamo ai Laboratori DMS, in occasione di uno dei progetti organizzati dal Dipartimento di Musica e Spettacolo, in collaborazione con il teatro Arena del Sole, Stabile di Bologna, che ha ospitato, sul finire di marzo, l’ultimo spettacolo di Moscato.
Marco De Marinis, curatore dell’incontro, parte dalla commistione con la musica e il canto che caratterizza il teatro dell’attore e drammaturgo napoletano. “La passione per il canto è nata in famiglia. Mia madre da piccola cantava durante i matrimoni. Ma anche nella quotidianità, io, lei, i miei fratelli cantavamo spesso. Embargos ha vinto il premio Ubu proprio per l’espressività vocale”.
La seconda domanda riguarda la Napoli descritta da Moscato nei suoi spettacoli. Da un lato arcaica, dall’altro aperta a una dimensione internazionale, aspetto quest’ultimo che ha influenzato il teatro di ricerca napoletano. Il nostro ospite confessa, però, di non aver avuto da subito la consapevolezza di appartenere all’avanguardia, anche perché ha sempre fatto riferimento alla sceneggiata.”Non alla sceneggiata commerciale, che ormai è entrata a far parte dell’immaginario di tutti”, precisa, “ma quella tradizionale, che trova le sue radici nella zarzuela” (genere lirico-drammatico spagnolo, in cui si alternano balli, scene parlate e cantate ma integrate nell’argomento dell’opera, ndr). “Tra gli anni ’60 e ’80 c’era una comunione di intenti tra i gruppi che facevano teatro a Napoli. All’inizio degli anni ’80 trionfava il teatro d’immagine, che aveva avuto successo durante gli anni ’70. Martone e Servillo, avvalendosi, in Rasoi, della mia collaborazione in qualità di drammaturgo, hanno contribuito a far tornare la parola a teatro. Oggi non c’è invenzione, anche nel riproporre testi entrati a far parte della tradizione, come quelli di Eduardo. Ma bisogna riconoscere che c’è una certa difficoltà a far circuitare spettacoli di sperimentazione, il teatro-canzone è più vendibile”. Il drammaturgo napoletano spiega, infatti, di aver in preparazione dei testi, tra cui uno ispirato a Eduardo, ma ha difficoltà a portarli a teatro, ed è per questo che il suo ultimo spettacolo è costituito, quasi esclusivamente, di canzoni.
Parlando, invece, di quelli che sono stati i suoi modelli, Moscato fa tutti nomi stranieri, francesi in particolare: Artaud, Genet, Cocteau, Duras. Ma gli spettacoli più ispirati alla cultura francese sembrano non essere graditi dai francesi stessi, che preferiscono la napoletanità. A proposito di questo Moscato precisa di aver sempre evitato di abbandonare il forte accento napoletano, in favore dell’italiano puro, anche nelle lingue straniere. Ritiene che sia una parte importante dell’identità di ognuno di noi.
Poi il ricordo di un collega e amico prezioso: Annibale Ruccello, prematuramente scomparso nell’’86. “Il mio spettacolo Compleanno è una testimonianza delle possibilità di collaborazione che avrebbero potuto venire a crearsi, se non ci avesse lasciato. Avevamo la stessa età e percorsi di studio vicini: io filosofia, lui antropologia, ma nel teatro trovavamo una comunione di intenti. Ma le radici sociali e linguistiche erano differenti. Ruccello usava i dialetti del circondario di Napoli, che sono più duri. Io uso la lingua di Basile, Viviani, Patroni Griffi. Ci sono molti autori napoletani volutamente emarginati perché scomodi. Eduardo, invece, viene continuamente riproposto perché non scuote. Oggi un testo di Eduardo riscuote successo perché viene rappresentato in modo da essere commerciale, il pubblico esce dal teatro così come ci è entrato. Viviani, invece, schernisce il potere, è stato avvicinato al teatro epico di Brecht, anche perché, come lui, utilizza la musica.
Con l’ultima domanda De Marinis chiede a Moscato la sua opinione sul teatro di oggi. “Il teatro deve far saltare sulla poltrona. Io condivido il pensiero di Artaud, secondo cui deve costare in termini di rischio, essere pericoloso. Il teatro è il cimento, il lavoro continuo delle prove, mentre lo spettacolo è solo una forma. De ve essere preso, non mercificato per essere venduto. Credo anche che non si debba fare politica attraverso il teatro, come si faceva negli anni ’70, anche se si esprime un’opinione sulla società.
Questo incontro ha lasciato a tutti un po’ di amarezza. Si ha la sensazione che fare cultura, teatro di un certo spessore sia sempre più difficile, mentre la piattezza, l’omologazione dilagano. Speriamo che prendere coscienza di questo sia un primo passo verso il cambiamento.
Mariangela Basile
Sta per arrivare in libreria "Gli anni piccoli" il romanzo autobiografico di Enzo Moscato edito da Guida!
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