martedì 30 luglio 2013

Sguardo sul festival di Avignone 2013 | Giorno XIV (26 luglio)

Lear is in town
Mise en scène Ludovic Lagarde

«Lear è in città», la città della follia, dell’esilio fisico e mentale: «the bannishment is here», l’esilio è qui, recita la scritta a caratteri cubitali stile Hollywood che campeggia sulla Carrière di Boulbon. La città di una landa completamente deserta, forse anche troppo, visto che l’allestimento si riduce a quella scritta e a una grande cassa acustica nera in centro scena, più altre casse più piccole che circondano l’area scenica. Il minimalismo è presente in scena anche nella scelta di affidare questo testo a tre attori, e così la scelta di un luogo così imponente non si spiega, per una regia che invece sembra voler indagare i risvolti più intimi e psicologici del Re Lear. Solo il rapporto di Lear con le forze della natura presente nel testo giustifica questa scelta, ma non la nudità troppo opprimente di questa regia. Anche affidare il testo a soli tre attori sembra rispondere per lo più a un brutale fattore pragmatico: la scelta testuale iniziale era un’altra, ma i diritti d’autore su Don De Lillo non sono stati concessi, e così il gruppo già composto ha ripiegato su Lear, affine pare per certe tematiche con il testo di De Lillo. Una buona recitazione, ma non eccelsa, e un interessante uso del suono non bastano a salvare una riscrittura inutilmente complessa del testo. Lagarde e la sua drammaturga Marion Stoufflet mantengono del testo originale solo il nucleo essenziale della follia di Lear, estendendola anche a Cornelia e al fool che accompagna il re nel suo esilio. Viene perciò tagliata tutta la parte più politica del testo, e tutta la trama che riguarda Gloucester. Le due sorelle malvagie appaiono solo come voci dalle casse acustiche – diventando un’ossessione nei ricordi delle tre menti malate. L’elemento più interessante dunque di questa regia è l’idea dell’utilizzo del suono, per evocare il passato e renderlo un’ossessione per i personaggi shakespeariani. Funziona soprattutto per la scena iniziale della condanna di Cordelia, che parte dalle casse acustiche ed è poi ripetuta come un loop dal vivo dal re Lear e dalla figlia. Tuttavia una sola idea originale non basta a sostenere tutto questo montaggio complicato del testo, che si rivela perciò debole, come dimostra una fine fin troppo brusca. Eliminando la trama del testo, esso crolla e il finale non ha ragion d’essere perché non lo ha nemmeno nel suo divenire. «Sono l’ombra di me stesso» afferma Lear nella sua follia: ecco, potremmo dire che quest’allestimento è in fondo un’ombra del Re Lear shakespeariano.

In scena alla Carrière Boulbon.

Fabio Raffo


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