Conception e mise en scène Aristide Tarnagda
Il testo scritto dal regista Tarnagda evoca un monologo frammentario del protagonista Lamine, che ora si rivolge a una ricca signora su una macchina in attesa di un semaforo verde, ora evoca il suo passato, nel suo dialogo con l’amico artista Robert e con gli altri due attori-musicisti, che rappresentano suo padre, sua madre o suo figlio. La struttura del testo ha molte affinità con Shéda di Dieudonné Niangouna: ha una non linearità molto poetica in questa profusione di parole, un discorso che si trasforma continuamente da un attore all’altro in maniera molto fluida, aiutato anche dall’intromissione dell’accompagnamento musicale. Si tratta di una chitarra e della kora, che prendono a tratti il sopravvento nel loro ritmo violento grazie anche al canto-grido dei due musicisti: la musica perciò non è solo accompagnamento ma diventa a tratti protagonista. Molto significativa ed emozionante in questo senso il momento in cui Robert si trova «aggredito» dalla pressione dai due lati dei musicisti. Questa scelta registica, per il resto estremamente minimalista nei suoi propositi, ha chiaramente la funzione di sottolineare la musicalità e la poeticità di un testo molto bello e politicamente molto forte. La differenza più forte con Shéda consiste pertanto in una vera urgenza in questo testo, chiaramente percepita dall’energicità del jeu, che esplode più volte in picchi di urla, di strattoni tra gli attori, di lanci di bottiglie di birra. È evocata tutta la rabbia e la disperazione provocate dalle torsioni di un mondo violento, ingiusto e diseguale nel suo sistema sociale ed economico. La donna, che non trova risposte alle domande sempre più pressanti di un mondo che ha fame di vita, sembra rappresentare la decadenza del nostro mondo occidentale che non ha più nulla da dire. Invece il gesto finale di rompere le bottiglie di birra, mentre cala improvvisamente il buio sulla frase interrotta di Lamine, suggerisce un incanalamento di questa disperazione e rabbia nell’evocare il titolo dello spettacolo: “e se li uccidessi tutti, signora?”. A differenza dunque di Shéda, l’allestimento non si appoggia su una regia debordante nella sua immaginazione, ma che in fondo propone un immaginario artistico molto personale, senza una vera necessità. Qui la parola non ha bisogno di nessun arricchimento, perché in essa è percepita una vera urgenza, trae ogni sua giustificazione nella comunicazione di quest’angoscia e disperazione paralizzante, ma anche di una rabbia giusta, e vitale.
In scena alla Chapelle des Pénitents blancs.
Matières
Conception e mise en scène Wajdi Mouawad
Lo spettacolo di Mouawad si inserisce nel festival nella seria degli spettacoli gionalieri, degli artisti associati delle edizioni passate del festival, e fino a poco tempo fa il titolo previsto era Rendez vous avec (Mouawad). Questo per dire che il tema dell’allestimento è totalmente sconosciuto e il nuovo titolo indica perfettamente l’incompiutezza e la non totale linearità di uno spettacolo che propone appunto dei materiali in divenire del regista scrittore. Mouawad in scena da solo per due ore legge propri testi, li recita, li fa ascoltare tramite un computer, e propone delle performance, delle immagini dall’intensa poeticità, anche se a tratti forse troppo concettuali. Come strappare la tela di fondo su cui ha appena scritto una sua frase e avvolgervisi: un’idea già piuttosto datata, l’action painting. La forza dei testi di Mouawad è tuttavia indiscutibile, essi rivelano una loro profonda intimità: l’artista si espone con grande rischio in tutta la sua fragilità, proponendo testi in divenire e altre improvvisazioni, a volte gratuite, a volte estremamente significanti, come il video di sé stesso, angosciante, in cui abbaia come un cane rabbioso per un buon dieci minuti, oppure molto belle, come lo strabiliante e ipnotico finale del lento sollevamento del telo di plastica, accompagnato da una musica mozzafiato. Questa fragilità è chiara nell’incipit del testo guida che ritorna, in cui afferma che ciò che presenterà sarà un fallimento. O anche nel fatto di farsi intervistare in diretta, chiedendo a un giornalista nel pubblico di raggiungerlo. In questo momento Mouawad spiega il proprio desiderio di andare oltre le parole, di essersi reso conto di non riuscire più a esprimersi solo con esse, e giustifica quindi la necessità per lui di queste performance. E questa difficoltà e testimoniata in scena dal tentativo, ad esempio, di ripetere la stessa frase d’esordio con del cibo in bocca. Quello che colpisce in maniera forte di questo spettacolo è quindi il rischio che l’artista assume di mettere a nudo la propria fragilità, ma di mostrarne allo stesso tempo la sua forza, tramite una parola che nonostante tutto ha ancora una forza evocativa enorme, più di certe immagini proposte.
In scena al Gymnase du Lycée Saint-Joseph.
Fabio Raffo
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