lunedì 7 marzo 2011

Marina Abramovic, Seven Easy Pieces


29 gennaio 2011 a mezzogiorno, dopo la delusione per non essere riuscite a procurarci i biglietti di Lady performance, l’incontro-proiezione della sera prima, siamo finalmente alla conferenza stampa di Marina Abramovic con un posto privilegiato, aspettando con ansia la sua apparizione. Non conosciamo tanto la sua vita ma non è un problema: appena arrivata, comincia a raccontarla in relazione ai suoi lavori. Abramovic ci svela già nell'introduzione la sua età, 64 sorprendenti anni, considerando che ancora si trova al top dell’arte performativa contemporanea. Si trova adesso in una fase della sua vita in cui comincia a pensare alla sua eredità, un tema evidente nel progetto che presenta qui a Bologna, Seven easy pieces, a cui fa riferimento, e anche all’eredità della performance in generale. Appropriato per un'artista che è considerata la nonna della performance.

 Il progetto della “riperformance” non è solamente un omaggio, ma un desiderio di recuperare alcune performance storiche degli anni 70', il miglior momento - secondo lei - per questo tipo di arte che, rappresentato per esempio in Italia da artisti come Giuseppe Penone o Gina Pane, costituisce un nuovo modo di fare, basato sull'idea dell’arte come qualcosa di immediato, potente e con una immaterialità che non avrà seguito in futuro. In un certo senso è un po’ contraddittorio, dato che la perfomance ha bisogno di una registrazione per rimanere documentata nella storia dell'arte. Ma ascoltando le sue storie e sensazioni diverse sull’esecuzione della performance, sembra che la cosa fondamentale è più legata al momento in cui la performance succede, e non la sua documentazione.

Lei parla dell'intensità delle sensazioni che sperimenta durante la performance, sentimenti che non possono essere evocati in nessun altro spazio; grazie al rapporto con gli spettatori e l'energia trasmessa loro, Abramovic raggiunge stati unici che non sono possibili nella vita reale. Usa lo spazio performativo per vivere e sperimentare quello che non viene accettato nella quotidianità, si spinge fino al limite per provare emozioni come il dolore, la pena oppure il piacere nella loro profondità. 
 “If I create pain I liberate the pain in myself, later I am ok” afferma, spiegando che il dolore è qualcosa di controllabile. Anche se la nostra società occidentale non lo vede così, lei ci parla del suo credo nelle tradizioni orientali e nei riti antichi che usano la violenza contro il corpo per arrivare al suo controllo. Non è l'unica volta che ricollega il suo pensiero a culture diverse: la scelta del numero 7 non è un fatto casuale, oltre a essere un numero che a lei piace specialmente per la sua simbologia, è un numero importante nella Kabbalah, nel Sanscrito e nelle teorie di Pitagora. La sua spiritualità emerge in tutto il suo discorso e lei, nei confronti della maggior parte delle performance di oggi (fatte nel mondo virtuale del computer), esprime il suo dispiacere a causa del predominio della tecnologia ovunque: “Today we don't use telepathy, we use mobile phones”.

In contraddizione con la sua presa di posizione anti-tecnologica, a Bologna non ha fatto nessuna performance, presentando solo il film di quella fatta nel 2005 al Guggenheim di New York. Il film non rappresenta affatto le performance come sono state svolte nella realtà, specialmente rispetto alla lunghezza (il film dura 95 minuti mentre ogni performance è durata 7 ore) e al significato che viene trasmesso solo in tempo reale con i rapporti diretti fra performer e spettatori/partecipanti. Seduti al cinema si può soltanto avere una debole impressione di quello che è successo nella realta, guidati dalla cinepresa che ha catturato sia Marina sul palco sia gli spettatori e le loro reazioni. 


Ha cominciato con un omaggio al Body Pressure di Bruce Nauman (1974) in cui si spinge contro una superficie di vetro e contro il pavimento, premendo con forza tutto il suo corpo. Il secondo omaggio è a Vito Acconci, Seedbed (1972), in cui sottopone il suo corpo a una diversa pressione: è il tentativo di avere orgasmi continui per le 7 ore della performance, masturbandosi in un posto pubblico (sotto un palcoscenico al centro del museo). Dopo il dolore, e il piacere, Abramovic confronta il confine fra il potere e la vulnerabilita, la morte e l'erotismo, con la riperformance di Action Points, Genital Panic di Valie Export (1969) in cui si veste con un cappotto da fuorilegge brandendo un mitra mentre il suo sesso è scoperto al pubblico. Tornando al dolore, questa volta provocato da un elemento esterno (il caldo creato dal fuoco di una serie di candele), nel quarto omaggio al The conditioning; first action of self portraits di Gina Pane (1973) la difficoltà di sostenere la sfida traspare dal tremore del suo corpo. Finisce l'omaggio a altri artisti con How to explain pictures to a dead hare di Joseph Beuys (1965), in cui assume un ruolo meno personale, mettendo una maschera d'oro, ma ancora provando a mettersi in contatto con la natura, stabilendo un rapporto con una lepre morta. L'ultima ricapitolazione, la sua Lips of Thomas (1975), è stata molto emozionante: lei ripete una sequenza di diversi rituali, qualcuno sadomasochista, legati a gesti fratricidi e sanguinosi che sono successi nei Balcani, da dove lei viene (Ex Yugoslavia). L'ultima performance, Entering the Other Side (2005), anche questa una sua creazione, non tocca emozioni profonde come siamo abituati, ma sembra più un gesto di ringraziamento verso gli spettatori, coinvolgendoli nel suo ambiente blu con movimenti circolari che sono in relazione con la forma del Guggenheim, l'edificio scelto da lei che ha ospitato per 7 giorni Seven easy pieces

Dina Caball, Sherene Meir

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