martedì 26 novembre 2013

Crònica de Joseé Agarrotado (menudo hijo de puta)

Due sedie, un tavolo, un bidone della spazzatura, adibito a pozzo con tanto di acqua, un regalo impacchettato pronto per essere consegnato al fortunato. E un uomo che, seduto nella penombra, non stacca gli occhi da un cronometro che porta nella mano sinistra.
Una scena del tutto essenziale accoglie gli spettatori di Crónica di José Agarrotado: perfino le luci, soffuse, sembrano essere esse stesse un modo intimo e naturale per invitare il pubblico a prendere posto in fretta tra le poltroncine scure. Perché qualcosa, aldilà del filo impercettibile tra scena e platea, di misteriosamente urgente e necessario, sta prendendo vita.


Le luci scompaiono ed ecco apparire sulla scena un altro uomo, con lo sguardo perso nel vuoto. All'improvviso un boato, una musica elettronica che scuote l'intero scenario, pervade i corpi degli attori: insieme iniziano a fluttuare nello spazio, saltano, scappano, sbattono i pugni contro le pareti, affondano la testa nell'acqua, sfuggono l'uno dall'altro, cercando di evitare qualsiasi tipo di contatto, muovendosi equidistanti su un filo sottile che diviene barriera invalicabile, insondabile, separando i corpi quanto le parole.
L'incomunicabilità, fisica e verbale, viene così svelata fin da principio e diviene il vero tessuto drammaturgico che si snoda tra i corpi degli attori, veri e propri segmenti base del momento performativo.

Cronica de Josè Agarrotado ha veramente ben poco a che vedere con una narrazione fatta di parole, di lettere, di sillabe o di rime in versi. Quella ad essere raccontata non è una storia da manuale. A narrare e a narrarsi reciprocamente sono i corpi, nei loro profili scultorei, nelle loro ombre che si tratteggiano nello spazio, nel loro divenire specchio di una crisi comunicativa che si intesse nella nostra attuale esistenza sociale.

Lo spettatore si ritrova, fin dall'inizio, di fronte a due attori che si muovono equidistanti l'uno dall'altro.
Si scrutano, si scambiano una frase senza senso, Cuando te lo diga yo (Quando te lo dico io) senza che l'altro riesca mai a portare a compimento quanto chiede il primo.



Ed è proprio da questa domanda senza risposta, che si origina una musica assordante, penetrante, in cui si ha la sensazione di vedere letteralmente annegare i corpi degli attori.
Si delinea così una lotta di impulsi frenetici, in cui gli attori si scambiano continuamente i ruoli: se uno affonda la testa nell'acqua, l'altro lo libera, buttandosi a sua volta nel bidone.
Non mancano i tentativi di abbracciarsi, che finiscono inevitabilmente in uno scontro, in una lotta di nervi durissima. Gli attori bussano contro le pareti, contro il tavolo, contro le sedie, spostano continuamente gli oggetti in maniera compulsiva, l'uno modificando quanto fatto dall'altro.
Ci si annega dentro le bolle di fumo, le sigarette diventano uno dei pochi elementi di contatto con l'altro: gli attori fumano i rispettivi sigarillos, costituendo addirittura un gioco in cui crogiolarsi, solleticarsi, l'uno respirando il fumo dell'altro. Danno così vita ad un incrocio, nel tentativo di annusarsi e sottrarsi dalle barriere dell'incomunicabilità.

E poi il regalo: diviene parte stessa della frenesia, viene trascinato da una parte all'altra della scena, lo si dona all'altro, lo si apre, sfondandolo violentemente, secondo ciò che appare come un rituale spasmodico, dove l'uno incoraggia l'altro ad aprirlo, fino a quando la carta viene strappata in mille pezzi. Viene così svelato cosa contiene il pacchetto magico: un coltello che, secondo il donatore, dovrebbe essere un po' come un vestito da indossare. L'altro se lo prova, lo armeggia prima contro di sé e poi contro l'altro. Nuovamente una lotta, nuovamente barricati oltre quella lama che ora appare visibile, concreto simbolo dei numerosi, infiniti fili invisibili, intessuti nello spazio scenico, che impediscono ai due uomini di avvicinarsi.


La musica cessa, si interrompe. Una frase rompe il silenzio. Te quiero (Ti amo) e la risposta Yo tampoco (Neanch'io). Prende il via così la ripetizione all'infinito di una frase che riceve una risposta che non sembra essere proprio adatta a quella dichiarazione, e che sembra rimandare alla celebre canzone di Serge Gainsbourg e Jane Brikin Je t’aime, moi non plus (Ti amo, nemmeno io) .
Fino ad arrivare ad altrettanti tentativi di comunicazione che iniziano con un Por eso (Per questo) e terminano con un Por ti (Per te).

Una nuova musica prende il via, questa volta scandita da un 'tic tac', prima rallentato e poi accelerato, ed accompagna l'ultima frase di uno dei due attori: Yo no tengo nada que decir (Io non ho niente da dire). Poi la sua uscita di scena, con l'ombra della sua sagoma che si delinea sul fondo, fino a scomparire oltre l'uscita laterale.
In scena resta un solo attore, e continua a chiedere Estas allì verdad? (Sei ancora lì vero?), fino a perdersi con lo sguardo oltre la sedia del suo compagno, vuota, illuminata unicamente da alcune luci soffuse.
Si chiude così il filo rosso dello spettacolo, nella ricerca, nella mancanza quasi morbosa dell'altro, nonostante l'impossibilità di comunicare che divide due uomini, due corpi, due menti.
Anche mentre il pubblico lascia la sala, l'attore continua a restare lì, sussurrando sempre lo stesso monologo tra sé e lo spazio che lo circonda.

Cronica de Josè Agarrotado svela e mette a nudo all'interno dello spazio performativo la confusione terribilmente paradossale che avvolge le relazioni, l'impossibilità con la quale spesso ci si scontra nel cercare di comprendere o solo ascoltare quanto ci circonda.
E lo fa attraverso un modo che forse comunica più di ogni altro, ovvero tramite i corpi, intessendoli di gesti che si fanno parola.
Si assiste in maniera tangibile al rincorrersi continuo, in un’altalena di emozioni, dei corpi che mettono a nudo quella confusione soffocante, risucchiante che deriva dall'esistenza stessa, dall'incomunicabilità, dal non riuscire a percepire ciò che non risulta razionalmente comprensibile. Tutto ciò da frasi, gesti, frammenti che non comunicano. E si mostrano lì, integri, nella loro perfetta vacuità.


Nel suo complesso Crónica de José Agarrotado tuttavia comunica. Attraverso lo scontrarsi continuo dei due uomini, attraverso il rifuggire dalle parole, attraverso la ricerca di quello spasmo comunicativo dei corpi, che ci riporta ad uno stato di nudità non solo dell'esistenza. Ma anche del teatro, dimostrando la possibilità di poter scandagliare l'universo del corpo per farsi esso stesso partitura scenica.

Si rischia spesso di perdersi dentro a questo vortice frenetico dell'incomunicabilità.
Ma questo forse resta un elemento profondamente ricercato da David Clement e Pablo Molinero, attori della compagnia Los Corderos, drammaturghi, registi dell'opera, per rendere ancora più visibile la confusione contagiosa che deriva dalla rigidità delle barriere insite in “José Agarrotado”, “José Irrigidito”.
Un lavoro che comunica in maniera lucida e tangibile la possibilità di rendere visibile l'impossibilità che ci circonda nella vita. E spesso, soprattutto nel teatro.

Visto a Sala Maria Plans, Terrassa, Barcellona il 23 novembre 2013

Carmen Pedullà

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