Non mi piace. Non mi sta piacendo. Non mi è piaciuto.
Queste sono state le riflessioni molto “complesse” che la mia mente ha prodotto, durante e dopo lo spettacolo diretto da Baliani, tratto dall’omonimo romanzo di Tabucchi Piazza d’Italia. Ora bisognerebbe soffermarsi sul “cosa” non mi è piaciuto e sul “perché”. Anche qui, la risposta è “complessa”: nulla. Non mi è piaciuto nulla, a partire dalla scenografia, passando per la recitazione, fino ad arrivare all’emozione. Il tutto mi pareva finto. Totale mancanza di ironia, e ammetto che qui magari c’entra il mio gusto personale. Visto e considerato che lo spettacolo aveva come tema centrale la monotona ripetizione dell’esistenza umana, durante i 100 anni di storia ripercorsi dall’autore in 90 minuti sul palcoscenico, avrei voluto come minimo farmi una risata. E veniamo alla storia, dato che parliamo di teatro di narrazione. Protagonista è la famiglia di Garibaldo, una famiglia di provincia.
Il dramma inizia e finisce con la morte.
La morte di Garibaldo appunto. La narrazione delle vicende familiari è affidata ai protagonisti stessi, che utilizzano monologhi per spiegare quanto accade sulla scena. Il periodo storico entro cui si sviluppa la trama va dall’Unità d’Italia fino alla fine degli anni ’50. Al centro del palcoscenico è presente un grosso cubo, dal quale gli attori entrano ed escono con ritmo incalzante. Al suo interno si compiono le azioni più significative, che muteranno il corso degli eventi. Anche questo elemento scenografico a mio parere risulta essere troppo ingombrante, togliendo spazio alla recitazione degli attori, che appaiono impacciati, quasi costretti all’immobilismo. Tono narrativo sempre concitato, dialetto quasi mai utilizzato se non per il personaggio dell’apostolo Zeno. Si fa fatica a seguire con attenzione le vicende narrate, con il risultato di non essere coinvolti, e ciò nuoce allo spettatore che invece, degli argomenti trattati dovrebbe sentirsi più che mai protagonista. In fondo è proprio questo che Baliani ha cercato di mettere in evidenza senza riuscirci, la sofferenza prima e dopo l’Unità d’Italia non è cambiata e ci riguarda da vicino oggi, come e più di ieri.
Davide Di Lascio
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