giovedì 10 marzo 2011

I promessi sposi alla prova


In questo 2011 in cui si celebrano i 150 anni dell'unità d'Italia, grazie alla compagnia Lombardi-Tiezzi tornano sulle scene bolognesi dell'Arena del Sole I Promessi sposi, nella versione che ne diede nel 1984 Giovanni Testori con I Promessi sposi alla prova. Da questo lavoro affiorano vividi il genio drammaturgico testoriano e la bellezza dell’emozionante e ardua vicenda di Renzo e Lucia, i due noti protagonisti del romanzo del Manzoni. La scenografia dinnanzi al pubblico è allestita come il palcoscenico di un teatrino di quartiere della periferia di Milano; si apre il siparietto rosso, e lì si scorgono seduti intorno a un tavolo da lavoro sette esseri umani. Si riveleranno sei attori e un maestro all’antica. La vicenda dei promessi sposi è così posta letteralmente alla prova, per mezzo dell’esibita rappresentazione scenica, della sua tenuta storica, spirituale, morale, estetica e politica nella nostra tribolata contemporaneità. La lingua italiana attuale funziona, in questo testo, da collante tra l’altezza manzoniana e il basso dei numeri della prova in atto, che sanno di music hall. 


Testori ci mostra la storia sotto una nuova luce: smonta i perfetti nuclei narrativi e innescando incontri impossibili tra i personaggi li invoglia a svelare i loro segreti, creando infine delle parabole insieme sceniche e morali. Sotto l’onesta guida del maestro, i sei inesperti attori restituiscono poco a poco, e in modo sempre più preciso, il mondo piccolo e antico dei personaggi e le loro più profonde istanze morali, sentimentali e ideologiche costruendo altresì un parallelo con la realtà sociale di oggi. Sin dalle primissime battute, l’intera vicenda si dipinge sulla scena per mezzo delle parola, “che si incarna, si inossa, si fa realtà”. La rivolta milanese per il pane (in cui gli attori vestono tute blu da operai industriali) e la Peste vista in senso moderno, non solo come malattia fisica, ma anche come infermità dell’anima addotta dall’indifferenza, mostrano l’eterna incapacità di percepire la trasformabilità della società. Nei protagonisti della pièce traspaiono aspetti che sono meno evidenti nel romanzo: Renzo parla dell’eros, non ancora consumato, in una sorta di confessione con don Abbondio. La linda Lucia, dal canto suo, abbandona il pudore per ritrovarsi inaspettatamente immersa nel desiderio dei baci del suo amato. Fra’ Cristoforo traspone le memorie della sua orgogliosa giovinezza in una vagheggiata Cremona degli anni ’60 del Novecento, rievocando Mina e il celeberrimo torrone Sperlari. I personaggi nobili vivono sulla scena vestendo lunghi abiti neri, dalla foggia medievale; così don Rodrigo, che è presentato come il personaggio nuovo, anticonformista e rivoluzionario. Un uomo che non vuole rinunciare all’amore carnale che gli è dovuto  di diritto per la sua estrazione sociale. 

 La monaca di Monza è celebrata in tutta la sua perfidia come una donna tentata, sconsacrata e furibonda. Per Testori lei è il pilastro nero che regge l’intero intreccio: quella più compromessa col male agito e subito. Emerge sul palco, dal fondo del ventre del teatro (che rappresenta la cella in cui è stata murata viva per vent’anni) attraverso una botola. L’Innominato, che ha sempre disposto della vita altrui in modo crudele, sembra dilaniato, ancor prima di conoscere Lucia, da un senso di colpa che lo porta a risparmiarle qualunque violenza, mostrandosi magnanimo. Ma le vicissitudini si fondono e si confondono in un turbine di emozioni, con il pianto di Renzo, il voto di castità pronunciato da Lucia e con il contagio della Peste su Don Rodrigo. La divina sventura, che sembra permeare l’ultima parte della pièce di Testori, si tramuta in divina provvidenza allorquando Renzo perdona Don Rodrigo in punto di morte, poiché quest’ultimo confessa di provare amore nei confronti di Lucia. E così, finalmente, i due giovani riabbracciandosi possono ricominciare la loro esistenza insieme e dilettarsi con i tanto sospirati baci. Le prove sono concluse, gli attori rientrano nella loro quotidianità. Ciò che resta di questa storia è un anelito di speranza per tutti coloro che nel corso della vita incontrano difficoltà e impedimenti. 

Lo spettacolo si inserisce perfettamente nella ricorrenza del centocinquantesimo anniversario dell’unità d’Italia; quell’unità che Manzoni contribuì a creare dal punto di vista linguistico-letterario, favorendo l’unità della lingua come unità di nazione. Perché la cultura non è qualcosa di separato dalla storia ma, addirittura, la determina.
                                                                                                        Mariangela Basile, Enrico Rosolino

Nessun commento:

Posta un commento