Il braccio di Armando Punzo si alza, la sua mano si appoggia al mento, per poi slanciarsi in avanti. Non una parola esce dalla sua bocca, il movimento si ripete come un gioco, mentre la platea bisibigliando sempre meno, si abbandona all’ansia e all’attesa che qualcosa succeda. Un silenzio straordinario invade la sala… il gioco è fatto.
Il regista della Compagnia della Fortezza si presenta sul palco così. Rompe il silenzio dopo qualche minuto per presentare il detenuto Krapp, interpretato da Placido Calogero, attore storico della compagnia . Chiaro appare il riferimento a L’ultimo nastro di Krapp di Samuel Beckett.
L’anziano protagonista dell’opera teatrale dello scrittore irlandese diventa dunque per Punzo un internato che, per ingannare la solitudine scandita dal silenzio, non fa altro che riascoltare nastri dove è registrata la sua voce, e contemporaneamente ingozzarsi di banane. Krapp compie essenzialmente un’opera di sdoppiamento, diventando l’allucinazione di se stesso. Risultano dunque fondamentali le bobine in scena, che restituiscono al protagonista il suo passato attraverso la sua voce registrata. Il suo monologo di chiaro stampo beckettiano, non ha un filo logico, va avanti senza operare pause di rilievo, ed è un continuo entrare e uscire da sé. Lo spettatore cerca di seguire affannosamente, compiendo uno sforzo notevole quanto vano. L’attore riesce però, utilizzando sapientemente corpo e voce, ad evidenziare i momenti nei quali Kraap diviene “altro”, per poi procedere con ritmo serrato al recupero del sé perduto.
In scena, oltre all’attore, vi è anche Punzo che siede nella penombra del palcoscenico, immobile e in silenzio, dando una sensazione di controllo passivo di quanto accade. Una scrivania, un tavolino e due poltroncine disposte ai lati completano la scenografia. Lo spaccato che la compagnia tenta di riproporre non è quello di una prigione come luogo fisico, ma soprattutto di un prigione quale luogo mentale. Un uomo solo è certamente più impegnato di chiunque altro ad addolcire il silenzio contro il quale lotta ogni giorno della sua vita. La prigione di Krapp può certamente rievocare le quattro mura spesse entro le quali talvolta richiudiamo, proteggiamo, isoliamo la nostra mente. Una socialità repressa, che fa i conti con i confini troppo vicini entro cui celiamo la nostra paura del confronto. Le camminate improvvise di Krapp, lungo il perimetro del palco scenico, sono il tentativo vano di eludere le barriere che lo separano dal mondo. Un girotondo che lo riporta tristemente al punto di partenza. Sul finale il suo percorso cambia improvvisamente, Krapp sconfina in platea dando in quell’attimo un senso ai suoi sforzi, al suo sudore. L’argine è divelto, il silenzio è rotto, il gioco è finalmente finito.
Davide Di Lascio
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