La stagione del Centro di Promozione Teatrale La Soffitta continua con una serie di inizative serrate: il 7 e l’8 febbraio i laboratori DMS di via Azzo Gardino, 65/a sono stati sede di due incontri con Moni Ovadia e di una piccola incursione del progetto “Civile”.
Lo spettacolo
Dopo la Giornata della Memoria celebrata dalla Soffitta, anche l’attore, cantante, regista, drammaturgo, scrittore, musicista, di discendenza ebraica-sefardita, nato in Bulgaria, ma residente a Milano, l'eclettico e cosmopolita Moni Ovadia ha contribuito con la sua esperienza e con la sua arte al ricordo dello straniero troppe volte denigrato e emarginato. Secondo la formula del recital-reading, sul mondo khassidico, Ovadia è stato protagonista di uno spettacolo serale dal titolo Il registro dei peccati: rapsodia lieve per racconti, melopee, narrazioni e storielle.
Il preludio
Il foyer dei laboratori DMS è gremito di gente per assistere allo spettacolo di Ovadia. Ma prima che tutto abbia inizio, il pubblico viene fermato nell’anticamera del teatro. Si fa buio e una voce proveniente da alcuni altoparlanti comincia un racconto. Nessun avviso prima, nessun tipo di segnale. Una voce di ragazza blocca gli astanti che cercano di capire cosa sta succedendo. Contemporaneamente una piccola figura nel cortile esterno si muove e restituisce il primo segnale ai paganti che provano a sbirciare da dietro le porte a vetri : lo spettacolo è già cominciato. Un nuovo fermento artistico bolognese precede così lo spettacolo di Moni Ovadia. La giovane e bella attrice Eva Geatti, con una performance della durata di poco più di 10 minuti dal titolo Una comparsa tra le cose che ama, ha inaugurato Civile: un progetto di Fiorenza Menni e Elena Di Gioia prodotto da Teatrino Clandestino. «L'idea è quella di proporre un modo innovativo di interpretazione e di relazione con il pubblico, immaginando che ciascun attore possa interpretare se stesso pensato e presentato come un cittadino che opera una scelta complessa per la quale si passano stati e stadi narrativamente avvincenti». Peccato che lo spazio scenico scelto non sia stato a servizio né dell’attrice né della sua performance: sarebbe bastata una maschera per segnalare il momento e metterlo così in evidenza per tutti.
Lo spettacolo (la ripresa)
Come un vecchio saggio, Ovadia è posizionato al centro della scena. Gli strumenti da lavoro sono pochi: un microfono e un libro di racconti. Comincia a narrare storie, aneddoti, canti di un mondo, di una lingua (yiddish) e di una cultura ormai quasi completamente scomparsa, quella khassidica. Il leitmotiv dello spettacolo è il senso di essere stranieri in terra straniera e questa condizione non è vista però come negativa, ma come l’unico modo per avvicinarsi alla Verità. Lo status di precarietà è vissuto alla luce della consapevolezza che su questo mondo siamo tutti di passaggio. Saltando dal particolare all'universale, dall'imminente al trascendente, dalla Terra Promessa ebraica al campo rom nelle nostre periferie cittadine, l’attore cerca di sottolineare la capacità di alcuni di essere immersi in un'eterna ricerca della patria e di se stessi; e la poca audacia di altri di mettersi in ascolto del diverso e dello straniero, affezionati troppo spesso a un senso nazionalistico chiuso e talvolta bigotto. Come un rabbino, Ovadia declama versi del libro dei Salmi e del Levitico, come un amico racconta esperienze personali senza negare mai la sua innata autoironia, come un attore regala emozioni.
Il seminario e l’esodo
Durante l'incontro-seminario con il tema La voce e il canto (stessa sede, il giorno dopo) la sua attenzione si sposta sull'importanza della voce come strumento di conoscenza personale e di relazione con gli altri. Sia un piccolo suono indistinto che un meraviglioso canto bizantino devono essere eseguiti cercando di sentire la propria voce. Avere una voce che sia propria senza cadere in facili imitazioni, avere il coraggio di tirare fuori la propria voce: diventano queste allegorie della ricerca della propria identità. Con esempi musicali tratti da varie culture e interpretati dagli artisti più vari, Ovadia ci mette in relazione con il suo modo di cantare e di "essere cantato". Il suono e la musicalità di una lingua sono inoltre portatrici di significato. Dice Moni Ovadia: «Liberté non si può scindere dal ricordo della rivoluzione del 1789. Ma la sua letterale traduzione italiana libertà richiama inevitabilmente alla resistenza partigiana antifascista». Sul finire dell’incontro, la parola passa anche al pubblico che viene sollecitato da Ovadia a parlare un po’ di sé e del rapporto con la propria voce. In particolare una ragazza di nazionalità greca ringrazia del seminario con un’intensa semplicità. Richiede un brano musicale della sua tradizione e l’attore cede accontentandola. Entrambi si lasciano catturare da quel canto greco che intonano all’unisono. Forse sarà stata l’emozione di avere Ovadia di fronte, forse saranno state le note cariche di nostalgia per la sua terra, ma la ragazza non riesce a trattenere le lacrime mettendo, così, il sigillo allo slogan del seminario: “un suono portatore di un popolo, una parola portatrice di una storia”.
Josella Calantropo
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