Viene rappresentata una società in agonia, nelle conversazioni assolutamente banali e quotidiane, come nella migliore tradizione cechoviana, e il cui ritmo è restituito dalla regia in alcuni silenzi alquanto evocativi della crisi di quel mondo ottocentesco. La messinscena pertanto espone un rispetto ortodosso del testo, mostrando una scenografia curata nei minuziosi dettagli, come il samovar sul tavolino, che sembrano rievocare una certa tradizione strehleriana nell’introspezione psicologica: emblematica l’altalena centrale, simbolo del giardino e luogo delle confessioni amorose. L’analisi del testo è attenta e rigorosa, e suona molto giusta la scelta di affidare la parte di Helena a un’attrice madrelingua russa (Lidiya Liberman): la cadenza caratteristica, pur in ottimo italiano, fornisce al personaggio la sua necessaria leziosità.
La recitazione nel complesso è buona anche se in alcuni punti enfatica e melodrammatica, e nel secondo atto tendente quasi al farsesco, soprattutto nel climax del tentato omicidio di Vanja (Sergio Rubini) nei confronti dell’odiato cognato Serebrijakov (Michele Placido), cosa che dà un’impressione fastidiosa di captatio benevolentiae nei confronti del pubblico. Non mancano poi le solite concessioni al sistema grandattorico, evidenti nella prima entrata trionfale di Placido dalla platea, con relativo applauso del pubblico, anche se lo spettacolo è tenuto in egual misura da tutti gli attori (anzi, Placido recita un buon carattere). Ma il testo, come detto sopra, è tenuto dignitosamente, e lo spettacolo non risente troppo di queste sbavature. Il tono più classicamente tragico del testo viene infatti recuperato ampliamente (fin troppo!) nel finale. Buono l’accompagnamento musicale, soprattutto la chitarra di Bruno Cariello che fornisce un tocco più intimo all’atmosfera domestica del testo.
Visto al Teatro Duse, il 9 novembre 2013.
Fabio Raffo
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