domenica 24 novembre 2013

Orchidee: il viaggio nell'eternità di Pippo Delbono

Spoglio il teatro dai suoi orpelli, il nero del palco annulla la finzione per cominciare a urlare contro l’ipocrisia della vita che soffoca le verità del mondo. Uno schermo gigante sul fondale denuncia la malattia del nostro secolo: l’ingordigia del finto, del bello apparente.


La voce fuori campo di Pippo Delbono si sostituisce da subito alla voce della gentile signorina che ogni volta ci invita a spegnere i cellulari per poi riflettere: "Perchè la gente parla solo tramite la tecnologia? Mia madre diceva: Cos’è ‘sto IuTub, ‘sto Feisbuk? Se n’è andata perché non ci capiva più niente di questo mondo. Lei fermava la persone per strada, ci parlava, raccontava a tutti i fatti miei… E io dico tanto di mia madre, ma anch’io fotografo, filmo tutte le persone, le cose che vedo... Ho ripreso anche lei, mentre si spegneva, e un ciliegio, simile a quello che quando ero piccolo invadeva con i suoi fiori la nostra casa… Poi qualcuno l’ha tagliato, e quell’odore è finito per sempre”. 

Non è uno spettacolo, ma un flusso di coscienza fatto di immagini, suoni e parole. Non vuole raccontare una storia, ma ricercare la Verità, denunciare le ingiustizie di una società che spreca tempo a condannare gli omosessuali, mentre il mondo va incontro a un’implosione autodistruttiva.
Orchidee, l’ultimo lavoro di Pippo Delbono debuttato a Modena nel maggio 2013, si rivela per quadri: una successione in cui il nesso logico non è contemplato, è contro natura, proprio come la discriminazione di una madre nei confronti di un eventuale figlio omosessuale, proiettata sul maxi schermo presente in scena.


Ignobile sozzume fagocitario di cibo e sesso, l’uomo occidentale è ritratto come un disilluso investito da troppa estasi, che sgambetta rintronato a ritmo di musica disco anni ’80. Che problema c’è se a ballare La Tropicana è un uomo in body nero, un boa di piume al collo e delle piume di pavone in testa? In fondo anche Nerone era un “libertino sessuale, e non andava bene”, commenta come voce fuori campo Delbono portando in scena il playback di attori cimentati con un frammento del Nerone di Pietro Mascagni.
Un animale solitario che mangia sé stesso, destinato a distruggersi e morire. Dalla bocca dell’attore-regista affiorano i versi innamorati di Romeo e Giulietta e lo struggente finale del Giardino dei Ciliegi, urlati verso il baratro dell’eterna oscurità. Il mondo svanisce e muore, il sonno eterno sembra l’unico destino che ci spetta. 


Il fil rouge della pièce vuole essere la vita appannata dal bello e sublime di plastica, fatta di perle di saggezza e aforismi sulla “grande” bellezza. 
Delbono ricrea il mondo in chiave fantastica come trampolino di scandali, meraviglie, violenze, attingendo dal nostro mondo e dalla sua esperienza. Non concepisce questi sguardi che paparazzano, ma non si guardano, le modelle ammiccanti e gli sguardi prosperosi proiettati sullo schermo, paragonati subito dopo a scimmie aggressive. Non comprende il pubblico apatico, più volte citato come “gli abbonati del turno A”, seduto in platea insensibile, che non si emoziona o non piange alle parole d’amore di Giulietta e di Romeo contro la morte.


“In questo mondo in cui non riconosco la Bellezza, dove i vivi sono già morti e i morti restano ancora tra di noi”, la madre, ormai defunta un anno fa, è sempre presente col suo innocente perbenismo cattolico. Rivive negli aneddoti raccontati dal Delbono narratore: da quando gli insegna la pudicizia fra uomo e donna nei suoi primi anni di vita a quando, sul capezzale di morte, gli promette che resterà sempre con lui. Assistiamo agli ultimi giorni in vita della donna dall’obiettivo di una cinepresa che inquadra le mani scarne accarezzate da quelle paffute e in buona salute del figlio; un tubicino le passa tra le narici del naso, asportandole via il sangue e la vita stessa.


E subito dopo il caos di sempre e i blateri riprendono, tra le musiche di Enzo Avitabile, la poesia di Oscar Wilde e altri grandi della letteraura mondiale in nome di una fratellanza che dovremmo apprendere dagli africani, “poiché lì tutti sono fratelli”.
Perché Orchidee? Perché in francese vuol dire eternità. Eterna come la speranza di una vita vera, che non sia solo la vita teatrale che si isola dall’asettica quotidianità. Eterno come l’amore per la madre, a cui dedica questo spettacolo.

Visto all'Arena del Sole il 21 novembre 2013.



Orchidee
uno spettacolo di Pippo Delbono 

Con Dolly Albertin, Gianluca Ballarè, Bobò, Pippo Delbono, Ilaria Distante, Simone Goggiano, Mario Intruglio, Nelson Lariccia, Julia Morawietz, Gianni Parenti, Pepe Robledo, Grazia Spinella.
Immagini e film Pippo Delbono
Musiche Enzo Avitabile
Luci Robert John Resteghini



Angela Sciavilla

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