Le note trionfali dell’Ouverture del capolavoro operistico di Georges Bizet danno il benvenuto al pubblico in sala, introducendolo sin da subito nella tempesta passionale della storia d’amore tra la zingara Carmen e il soldato José.
Il genio coreografico del maestro Fredy Franzutti si palesa
immediatamente, dimostrando come la perfezione della tecnica
classico-accademica possa sposare le pose e i movimenti di braccia di quella
contemporanea: un gruppo di dieci ballerini, cinque coppie di uomini e donne,
giocano tra di loro in una fluttuante danza di ventagli di pizzo nero,
miscelata a passetti abbastanza sensuali per le popolane iberiche, ma un po’
troppo ancheggianti per i muchachos loro accompagnatori. Fortunatamente la
virilità non tarda a calcare il palcoscenico, dapprima con l’ingresso
dell’elegante Ervis Nallbani, nei panni del milite innamorato; poi con i
virtuosismi di Angelo Egarese, così ben calato nelle vesti del capitano Zuniga
da farne quasi abuso di potere.
Un tripudio di machismo, alterigia e competitività che solo
le raffinate movenze di Chiara Mazzola possono addolcire, accarezzando l’aria
con leggiadri développé e leggerissime pirouettes. Il suo personaggio, Micaela,
fidanzata di José, è chiaramente l’emblema dell’amore puro, casto, fedele, che
affonda le sue radici nella pazienza e nella speranza: ineludibile la
discrepanza con la spregiudicata rivale, Carmen, che senza pietà ha rubato il
cuore del suo amato per divertirsene fin tanto che non sia appagata. Ed è una
rosa rossa a suggellare la scelta di questo trastullo, proprio alla fine
dell’assolo dell’Habanera, perfetto biglietto da visita tanto della zingara,
che non disdegna lo sguardo di tutti gli astanti in scena (e non solo) addosso,
quanto di Letizia Giuliani, l’etoile che ne incorpora totalmente la vibrante
personalità ammaliatrice. Il suo corpo e quello di Nallbani si avviluppano in
un passo a due sulla melodia dell’Intermezzo, nobilitando l’amplesso sessuale
con una poetica reviviscenza coreografica di stampo classico.
Un cambio di scena repentino catapulta gli spettatori in un
nuovo universo sensoriale, pregno di luci e scenografie purpuree da bettola di
sobborgo, il quartier generale delle gitane e dei contrabbandieri, dove i vizi
e le carnalità padroneggiano sul palcoscenico tra lo svolazzare delle gonne gipsy
e il battito di mani delle danze di folklore. Una sola nota coloristica macchia
prepotentemente questo energico tableau sanguigno: la tutina marrone
attillatissima di Alessandro De Ceglia, che sulle note di Toreador fa sfoggio
di tutta la corpulenza del matador Escamillo. Il cuore di Carmen si lascia
travolgere dalla visione estasiata di questo aitante paladino della corrida, trascurando
decisamente la gelosia ribollente nell’animo di José.
Come un ariete umano che ricorda il remoto mondo
cavalleresco, l’intero gruppo degli zingari, capitanato dalla coppia di amanti
protagonisti, fa il suo ingresso con l’incedere ovattato da scena-madre di un
musical di Broadway: sono giunti tra le montagne, luogo mistico e perfetto per
interrogare il Fato. È la stessa Carmen a occuparsene, ma, contrariamente a ogni
migliore aspettativa, sulle carte piomba un terribile presagio di morte, deflagrato
dal vortice di salti in stile Graham delle gitane e dai contrabbandieri con
pugnali e ridondanti maschere di teschi. Il suo Destino è ormai ineluttabile,
la paura esplode nel pianto disperato e ancora una volta è l’Eros a indurre
conforto, suggellato impetuosamente sulle labbra di Escamillo.
Il dado è tratto: la disperazione di José non può essere più
sedata, nemmeno dalla dolcezza eterea della sua Micaela. All’improvviso il
balletto di Franzutti travalica le barriere dello spazio e del tempo di scena
per disperdersi nelle nebbie del Teatro, in cui personaggi come Orlando sono
caduti dolorosamente nella battaglia contro la gelosia; ma questa volta non è
di un’ampolla lunare che si va alla ricerca, quanto della purezza del movimento
classico-accademico, infranto dai muscoli rilassati e dalle movenze sbilanciate
dell’assolo del ballerino albanese.
La Plaza de Toros viene eletta ad arena per la resa dei conti. Il gruppo dei danzatori, prima, e la femme fatale, dopo, tingono l’ambiente di un nero corvino tanto angosciante quanto sensuale. Carmen non ha paura di morire e si fa beffe di José fino all’ultimo soffio di vita, quando il pugnale le trafigge il grembo e le lacrime dell’intera comunità accompagnano l’ultimo volo dell’oiseau rebelle.
Visto al Teatro delle Celebrazioni, il 9 novembre 2013
Marco Argentina
Un sublime racconto di un'opera memorabile. Pare di vederla muoversi, Carmen, come un felino in cerca di preda. Grazie per per questa recensione 'magica' e sensuale.
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