La sagoma di un castello immerso nelle tenebre, la scena spoglia di allestimenti, il sipario inesistente e gli elevati teli neri delle quinte: questa è l’accoglienza prevista per il pubblico di amatori dell’arte coreutica, fin da subito coinvolto nell’atmosfera drammatica e classicheggiante che la stessa architettura dell’edificio suggerisce. Calano, dunque, fiocamente le luci in platea e una voce fuori campo demitizza il contesto accademico dell’evento, elencando le coreografie che saranno presto eseguite e, soprattutto, i nomi del cast di danzatori talmente buffi e ironici da infrangere il silenzio religioso dell’Auditorium con un’eco di sguaiate risate e applausi di approvazione. Questo il biglietto da visita de Les Ballets Trockadero de Monte Carlo: la danza non è solo sinonimo di disciplina e sacrificio, ma anche di gioia ed entusiasmo.
E come non intraprendere questo viaggio cominciando proprio dal balletto classico per eccellenza, Il lago dei cigni, di cui viene esposto interamente il secondo atto, sicuramente il più celebre quanto virtuosistico. I quattro protagonisti non esitano troppo a lungo a calcare il palco, impreziosendo l’azione scenica di costumi variopinti, gag esilaranti, assoli e pas de deux tecnicamente impeccabili, ma qualcosa, comunque, confonde gli sguardi ipnotizzati degli spettatori: l’eleganza dei passi e la malizia degli ammiccamenti di Odette, incorniciati dal trucco facciale rievocante lo scintillio delle più famose Drag Queen, discorda con l’imponenza del torso muscoloso. Sarà forse questo il sortilegio del diabolico stregone Von Rothbart? Ebbene, no. Si tratta proprio di un uomo, Robert Carter, aitante ballerino di origine afro-americana, star internazionale del balletto classico-accademico.
La sua apparizione en travesti non sarà l’unica: picchiettando
il pavimento in traiettorie diagonali con velocissimi pas de bourrée couru surles pointes, otto ballerini in candido tutù romantico e ciglia troppo
voluminose per rappresentare gli eterei volatili lacustri, si muovono in
maniera volutamente maldestra, beccano verso il pubblico e riproducono
perfettamente il verso dei cigni, mimando persino la fase di nuoto attraverso
degli arabesque saltellati e coordinati a bracciate in stile rana e cagnolino.
La comicità dell’intera sequenza coreografica, però, non riesce a mascherare le
evidenti imprecisioni di coordinazione ed equilibrio, dettate forse da un
eccesso d’emozione o d’inesperienza. Fortunatamente con il famosissimo passo a
quattro, imbastito dai magistrali virtuosismi ironici di Davide Marongiu
sconfinanti nel mondo del can can parigino finanche al salto della corda
fanciullesco, il riso del pubblico torna sovrano e la gioia della visione
diviene sempre più inarrestabile.
Il lavoro coreografico di Lev Ivanovich Ivanov si accinge a
concludersi, ma, di contro, la musica di Čajkovskij incalza precipitosamente e
si disperde in un climax ascendente di developpé, grand jeté, manège di giri piqué,
singoli e doppi, che sfortunatamente non riescono a occultare la fatica di
salire sulle punte ed interpretare la leggerezza di un “volo” cignesco: difatti
l’ultima sequenza di pirouette della protagonista, accompagnata dalla spinta
dell’altrettanto provato partner, fa sfoggio di quella retrograda quanto
antiestetica disciplina accademica russa che frantuma l’incanto del giro con un
mero frullare, sulla stregua delle trottole da pattinaggio artistico su
ghiaccio. Ma alla compagnia dei Trocks, in fin dei conti, importa ben poco di
proporsi come vessillo di perfezione e sublimità, tanto da ridicolizzare
persino il momento dell’applauso finale con annessa consegna dei fiori all’étoile.
Abbandonando l’algida atmosfera del paesaggio lacustre
incantato, le luci s’infiammano all’ingresso di una seducente ballerina latino
americana, divoratrice dell’attenzione del pubblico durante l’intera esecuzione
del Pas de Deux tratto dal balletto Don Chisciotte di Marius Petipa. Questa
piccola saetta, dalle doti corporee degne di una prima ballerina del Teatro
Bol’šoj di Mosca, non è altro che Carlos Hopuy, famosissimo danzatore cubano e
pietra miliare dei Trocks, che attraverso capriole e schiocchi di dita, ma
anche giochi col ventaglio e virtuosistici fouetté, regala alla città di
Bologna un piccolo stralcio di vitalità e passione ispanica.
Dalle spagnoleggianti melodie, intessute egregiamente nelle
vicende del condottiero visionario di Miguel de Cervantes, lo spettacolo si
catapulta in un tempo ancor più remoto, quando lo strofinio delle corde degli
archi allietava le feste di corte e lo sfarzo dell’oro e del pizzo inghiottiva
le case e le genti di elevato rango sociale: il Barocco. La compagnia en
travesti, di contro, rinnega l’ostentazione di quel lusso portentoso, vestendo
i sei danzatori protagonisti di soli body e gonnelline neri, e proclama in
forma di danza la gioia di vivere che le note del Concerto Brandeburghese di Johann
Sebastian Bach suggeriscono ai sensi, insieme con i fiocchetti rossi simbolo
della lotta contro l’AIDS.
Prima dell’ultimo tragitto nel repertorio
classico-accademico, Paul Ghiselin, nella cornice di candido occhio di bue,
delizia lo sguardo con un cult dei Trocks. Una pioggia di piume bianche,
accartocciamenti da indigestione, capogiri e braccia storte sono i sintomi,
assolutamente caricaturali, della morte di Odette, il cigno bianco, che,
nonostante l’enfatizzata bruttezza del trucco facciale, conferisce alla pièce quell’immenso
splendore performativo che travalica le barriere della Storia per attraversare
quelle del Mito.
Le risate del pubblico non sono ancora del tutto scemate
quando Marongiu rientra in scena nei panni della Dama Bianca che, come annota
la didascalia del libretto di scena, a volte è una statua, a volte un fantasma,
ma comunque un enigma. Si posiziona esattamente al centro del fondale,
pietrificandosi in un sorriso di plastica e reggendo una torta nuziale tra le
mani: sono stati tutti invitati al matrimonio di Raymonda e del Conte Jean de
Brienne, suo sposo.
Le quattro damigelle, ornate di uno sgargiante tutù
arancione, si contendono la scena coi propri assolo, ammaliando il pubblico con
occhiolini, rotazioni del bacino da salsa cubana e immancabili batterie di
salti e giri classico-accademici. Ma la vera regina del palcoscenico è la
sposa, interpretata dal connazionale Raffaele Morra, che agguanta la completa
attenzione del pubblico con una danza sempre più accelerata dal battito delle
mani e dagli innumerevoli fouetté, ispiratori di un vago isterismo collerico,
forse tipico di ogni donna maritata smaniosa di un ricordo perfetto del giorno
più bello della propria vita.
Visto al Teatro Auditorium Manzoni, il 18 novembre 2013
Marco Argentina
Nessun commento:
Posta un commento